venerdì 12 dicembre 2014

Oltre la superficie dello sguardo. Recensione personale

Premetto che conosco l’autrice dai tempi in cui era ancora una studentessa universitaria. E anche di essere stato uno dei primi ad incitarla a pubblicare questa breve, ma intensa, «delizia letteraria».
Se ben ricordo, era intorno al 1987, e Claudia – mi permetto di utilizzare solo il nome di battesimo – non era convinta, le sembrava un romanzo troppo lacrimevole, «di altri tempi», qualcosa che non avrebbe mai incontrato i gusti del pubblico.
A nulla valsero le mie proteste: per un assurdo puntiglio, o magari per una forma di presunzione al contrario, era convinta di essere l’unica ad amare ancora le storie vere, con dei contenuti emozionali ed emozionanti.
Buttò in un angolo il dattiloscritto – all’epoca non aveva un pc – e smise di pensarci.
Me ne dimenticai anch’io, naturalmente. Fino a questestate, quando venni a sapere che il romanzo non soltanto era stato pubblicato, ma anche messo in scena al Teatro del Bosco di Negrar, presso Verona, con il patrocinio nientemeno di Giulio Brogi (vedi). Non sono potuto andare, purtroppo, ma ho subito ordinato una copia a Vocifuoriscena, curioso di vedere se e come fosse cambiato rispetto alla stesura originale. Pochissime variazioni, quasi impercettibili, del tutto trascurabili: il romanzo era lo stesso, eppure…



Ecco, vorrei parlarvi di questo «eppure».
La prima volta, e parlo di circa venticinque anni fa, mi aveva colpito la freschezza dello stile, quel saper scendere, oserei dire in punta di piedi, nell’intimità di entrambi i protagonisti, senza mai dare l’idea di parteggiare per l’uno o per l’altro. E, soprattutto, ero stato affascinato da Christine, l’esuberanza che faceva da contraltare alla sua rabbia, alla delusione per i rapporti con tutti, dai genitori al fidanzato. Mi era piaciuto il gioco, perché intuivo in Matteo un alter ego di Christine, come se fossero due facce di una stessa medaglia. E il finale mi aveva portato a pensare che si sarebbero ricongiunti…
Posso assicurare che non è a causa delle piccole variazioni, se ho cambiato idea.
Rileggendo il romanzo, anzi, bevendomelo tutto di un fiato, mi sono reso conto che la parte da padrone viene fatta dall’incomunicabilità: Christine e Matteo rappresentano due mondi distinti che cercano un punto di incontro, senza riuscirci. Che la prima a rendersene conto sia lei, la donna, non mi stupisce, oggi. Christine si spaventa, sente che Matteo vuole da lei qualcosa che ai suoi occhi è impossibile: tutta la verità, una condivisione assoluta.
«Cosa credi che vada a fare, a Bologna? Non c’è un altro, se è questo che temi. Solo io, nel mio appartamento, dove vorrei poter… oh, cavolo! Restare sola. Tutto qui.»
Matteo sa chi è lei, lo ha potuto constatare fin dall’inizio, fin dal loro primo incontro, ma spera di cambiarla. Poi la verità che tanto cercava gli giunge tra le mani, in forma di piccole confidenze scritte su dei foglietti, in una lettera, che Christine mai gli avrebbe fatto leggere. 
E qui il tocco di genio dell’autrice: se c’è la verità, non c’è più la persona. Christine è fuggita, introvabile.
Eppure… torniamo su questo «eppure»: se Christine è introvabile per il suo fidanzato, per i genitori, eccola invece a confidarsi con il lettore, a spogliarsi dinanzi a lui di ogni pudore. È al lettore che rivela i suoi dubbi, i tormenti che la accompagnano, a lui che chiede di essere compresa…
E il gioco si complica: Christine, personaggio letterario, può dire tutto di sé a chi la legge, a chi la ascolta oltre le pagine del libro stampato. Il suo monologo interiore è un interrogarsi delicato, lucido, sfiancante e nel contempo necessario: risposte, per noi esseri umani, non ce ne sono, almeno non quelle in grado di placare i tormenti dell’anima, ci sembra dire.
Eppure – di nuovo «eppure» – ecco la sofferta ironia con cui l’autrice congeda il lettore: «Tutto di noi è importante, anche l’attimo sprecato».
Forse non siamo capaci di capire gli altri e neppure noi stessi, ma arrendersi di fronte all’incomunicabilità, sia essa fittizia o effettiva, è il peggiore degli errori, l’unico davvero imperdonabile.
L’happy end è lasciato a chi lo pretende, e il finale è giustamente senza risposta, aperto a ogni interpretazione.

Per eventuali acquisti, rimando alla pagina: Oltre la superficie dello sguardo.

giovedì 4 dicembre 2014

Il titolo è l'ultima cosa. Un giallo metafisico... o meglio, utopistico

Nel 1935 Jorge Luís Borges introdusse la speculazione cosmologica nel poliziesco (in Finzioni, 1935). Nei decenni successivi, la letteratura e i lettori hanno decantato la lezione e oggi, le spalle coperte da sterminate biblioteche di critica letteraria, si può parlare, con la dovuta nonchalance, di “giallo metafisico”. Cliché pressoché indispensabile nel proprio repertorio qualora si frequentino circoli letterari con belle signore disposte a lasciarsi incantare da un sofisticato intellettuale, l’espressione è divenuta talmente comune – nelle recensioni amatoriali, nelle tesi di laurea, nei ritrovi radical-chic – da prestarsi all’abuso e al fraintendimento. 
Ma mentre i critici della domenica tendono ad appuntare la medaglia di METAFISICO a qualsiasi giallo recensiscano (sia poi romanzo d’indagine, poliziesco, hard-boiled o noir), quasi vergognandosi di aver ceduto alla tentazione di leggere della vile letterature di genere, secondo l’illustre argentino – e Borges è stato uno tra i più lucidi interpreti di quella che potremo chiamare una filosofia della letteratura” – la definizione “metafisico” non va al singolo romanzo, ma al genere letterario nel suo complesso. Il giallo ristabilisce l’integrità dell’ordine cosmico, sovvertito dall’irruzione dell’evento delittuoso, attraverso la metafora della risoluzione dell’omicidio e il conseguente riassestamento dello stato di giustizia.
Secondo Borges, dunque, il romanzo giallo è di per sé un romanzo metafisico:

ROMANZO GIALLO ROMANZO METAFISICO

A mio avviso, questa definizione si adatta perfettamente (pur essendone allo stesso tempo tradita, o addirittura rovesciata), all'ultimo romanzo pubblicato da Vocifuoriscena, bello fin dal titolo. E Il titolo, si sa, è l’ultima cosa.



Conosco Claudia Maschio da molti anni e ho ben presente il suo curriculum culturale, che è poi l’unico curriculum che m’interessi, quel mélange di filosofia della scienza, matematica, logica, attenzione per il linguaggio, amore per la letteratura e per l’arte del Novecento (postmoderno e surrealismo in primis), che costituisce il suo côté intellettuale e il punto focale della sua produzione letteraria (e metaletteraria). Quindi, non mi stupisco se il suo primo approccio al “giallo” non si adegui assolutamente alla definizione “debole” del genere, che potremmo stabilire con la stringa

(ROMANZO GIALLO) METAFISICO

ma sia più un 

(ROMANZO METAFISICO) GIALLO

augurandomi che l’uso delle parentesi definisca l’esatta gerarchia degli attributi “giallo” e “metasico” nella mia personale definizione del Titolo è l’ultima cosa. Se questo è un giallo borgesiano, lo è dunque in senso inverso, quasi contromano:

ROMANZO METAFISICO ROMANZO GIALLO 

La metafisica diventa dunque la letteratura gialla per eccellenza (e ogni ricerca di un criminale prelude forse a quel “giallo definitivo” dove riusciremo finalmente a mettere le manette al Colpevole della creazione dell’universo.) 
E qui arriviamo al Titolo è l’ultima cosa, già edito nel 2013, in una veste giallomondadoriana, dalle coraggiose Edizioni PerSempre e oggi ristampato dopo un ulteriore editing da Vocifuoriscena. A una prima lettura, Il titolo si svela come una provocazione filosofica. Un mondo in cui le barzellette – le comuni facezie che si raccontano per strada, a scuola, tra gli amici, sul posto di lavoro – invece di essere un esito della comune attività demopsicologica, vengono create da un’apposita macchina (l’Anecdotomatic, residuo sferragliante e fumante della rivoluzione industriale), per poi essere diffuse tra la popolazione dagli agenti di un fantomatico Ministero della Cultura Popolare, i quali controllano anche se le barzellette siano conformi alle direttive imposte dai burocrati. Già una tale premessa, che rimanda ai tentativi post-rinascimentali di creare una lingua perfetta tramite la permutazione e la combinazione di “enti universali”, dovrebbe far tremare i polsi ai filosofi del linguaggio. 
Il romanzo si svolge negli anni Settanta. L’epoca è stata scelta con oculatezza: ci troviamo appena a valle della crisi del conformismo borghese del decennio precedente (ricordate le esplosioni al rallentatore di Antonioni?) ma a monte della rivoluzione informatica e della digitalizzazione dell’informazione. Insomma, nel punto di disequilibrio tra la fine di un mondo e l’inizio del successivo: alle spalle l’auctoritas delle convenzioni libresche e la rassicurante censura di mamma Rai, di fronte il magma di brodaglie propinate dalle televisioni private e poi da internet

Ma a questo punto ci scontriamo con un anacronismo. La storia ci insegna che il Ministero della Cultura Popolare, istituito dal regime fascista nel 1937, venne sciolto verso la fine della Seconda guerra mondiale. La contraddittoria presenza di questo ingombrante istituto governativo nel 1977 – anno in cui si svolge la vicenda – getta sull’intero romanzo una sfumatura sinistra (e di sinistra). Il puzzle, apparentemente composto dalla lettura metafisica, si scompone di nuovo, mostrando imprevisti ordini di difficoltà. Un solo genere letterario non basta a contenere Il titolo è l’ultima cosa: oltre a quella di giallo metafisico proporrei l’etichetta di romanzo (anti)utopistico. Non vi vedo solo Simenon, Chesterton e Camilleri, ma anche Orwell, con la sua neolingua, Bordewijk e Zamjatin.
Ed è appunto passando per le distopie che arriviamo a Dario Giansanti, il coautore di questo romanzo, che è anch’egli una mia vecchia conoscenza. Ho avuto a che fare con lui grazie al suo progetto di studi mitologici al tempo in cui mi occupavo di saghe e letteratura scaldica. Pur essendo essenzialmente un saggista, Giansanti sa muoversi con sorprendente agilità nello slalom della letteratura come autore: basti vedere i fortunati romanzi del ciclo Agenzia Senzatempo (anch’essi scritti a quattro mani con Claudia Maschio), oppure Mr. Smith va in vacanza, una rivisitazione fantascientifica, ferocemente ironica, della filosofia “ingombrante”, incapace di relazionarsi al mondo. Data la sua attenzione per la narrativa speculativa e per la fantascienza, Giansanti ha dato un contributo certamente importante al Titolo è l’ultima cosa, e posso solo provare a indovinare quali pagine, idee e personaggi siano farina del suo sacco. 
In effetti – e può sembrar ridicolo – nessuno dei due autori ricorda di aver inventato l’Anedoctomatic, anche se entrambi ammettono di aver buttato lì delle idee. Dario Giansanti afferma di aver voluto farne una versione julesverniana dell’Ars magna di Lullo, con un occhio alle ruote combinatorie nel De umbris di Bruno. Claudia Maschio di essere andata a ripescare l’utopia mai realizzata dal Circolo di Vienna. Poi si incolpano l’un l’altro per quella che definiscono “una cavolata, benché costruita bene”. Ma al di là delle scarse concordanze, delle molte connotazioni metafisiche, utopistiche e filosofiche, questo romanzo non dimentica di essere un giallo a tutti gli effetti. 
E che giallo! 
C’è un ricatto, un omicidio, e anche uno spaccio, sebbene di… barzellette false. C’è un colpevole da consegnare alla giustizia. E c’è un detective a tutto tondo, l’iberico Pepe Escamillo Salvado, che se non un seggio meriterebbe almeno uno sgabello nel Walhalla dei grandi investigatori, accanto agli scranni dove stanno assisi Holmes, Poirot, Maigret e Montalbano. Ma la provocazione è subito dietro la porta. Certo è indispensabile consegnare il colpevole alla giustizia (fosse anche per ristabilire l’ordine cosmico, ricordate?), ma l’autentico mystery che attraversa questo libro, a mio avviso, non sta nello svelamento di un banale omicidio. 
Infine, con buona pace di Borges, avendo un po’ di dimestichezza col modus operandi dei nostri due autori, sono certo che né Claudia né Dario abbiano mai inteso collocare il romanzo in un genere letterario ben codificato, né pensato a un target di lettori specializzati. L’unico pubblico che entrambi prediligono è quello dei lettori intelligenti. Hanno fuso le loro rispettive propensioni per la saggistica e per la narrativa al semplice scopo di produrre un romanzo. Il che vuol dire – e qui ci stiamo avvicinando all’etica dello scrivere – una narrazione che, introducendo personaggi e situazioni, produce idee, simboli e significati. 


Altro non serve per una letteratura che sappia regalarti qualcosa di indimenticabile e soprattutto onesto, qualità che molti lettori dimenticano di chiedere quando comprano un libro.

Per informazioni ed eventualmente acquistare il libro al prezzo speciale di € 14.00:


Claudia Maschio • Dario Giansanti

ISBN: 9788890972669
Collana: i Ciottoli
Genere: noir, surreale, umoristico
Edizione: brossura
Pagine: 452
Prezzo: € 16,50

Prezzo Vocifuoriscena: € 14,00


martedì 25 novembre 2014

Marcello Ganassini presenta "Panu" e getta una luce crepuscolare sugli ultimi pagani di Carelia

Venerdì 5 dicembre, al Centro culturale "Tīrtha", di Pescantina (VR), Marcello Ganassini incontrerà lettori e appassionati per la presentazione del romanzo Panu. Il crepuscolo dello sciamanesimo, di Juhani Aho (1897), da lui splendidamente tradotto e curato.


Già ispirato traduttore di Paasilinna, Kaurismäki e dei bellissimi Canti di Pentecoste di Eino Leino, Marcello Ganassini è noto agli appassionati di letteratura e mitologia finlandese soprattutto per aver proposto una versione moderna, sciolta, filologicamente inappuntabile, del Kalevala, pubblicata dalla casa editrice Mediterranee. Ma Ganassini è anche un esperto conoscitore delle tradizioni e del folklore finnico, e Panu, nella sua impressionante messa in scena del confronto/scontro tra gli ultimi pagani di Carelia, guidati dall'animoso tietäjä Panu e disperatamente attaccati alla religione dei loro avi, e l'agguerrito pastore protestante inviato dal regno di Svezia, ha certamente messo alla prova tutta la sua competenza di traduttore, nonché il suo amore per questo mondo irrimediabilmente scomparso, di cui Panu offre una ricostruzione attenta, sofferta, colma di nostalgia, ma anche piuttosto lucida e critica.  
Il libro, edito da Vocifuoriscena, non fa sconti al lettore. Non fornisce una visione filtrata, edulcorata, con il timore di risultare "difficile" o "indigesto" al lettore italiano. Al contrario: mette arditamente in scena un mondo pervaso di sciamanesimo, con le sue pratiche teurgiche, la sua magia, la sua superstizione, la sua poesia, il suo linguaggio, i suoi echi kalevaliani.
Un inappuntabile glossario, compilato dallo stesso Ganassini, diviene un strumento saggistico, sorta di prezioso "libro nel libro".


Chiunque voglia assistere alla presentazione di Panu, e fare un'amichevole chiacchierata con Marcello Ganassini, l'appuntamento è al Centro culturale "Tīrtha" di Pescantina (VR), venerdì 5 dicembre, alle ore 20.45.
Per informazioni, telefonare alla casa editrice Vocifuoriscena, allo 0761 228291, o direttamente al Centro culturale "Tīrtha", 045 7150513 / 045 6770010.

martedì 15 luglio 2014

"Oltre la superficie dello sguardo" al Teatro nel Bosco

Sceneggiatura dalle imprevedibili sfaccettature quella che andrà in scena sabato 19 luglio alle 21.00 nell’incantevole cornice del “Teatro nel Bosco” allestito da Giulio ed Elsa Brogi poco sopra il centro di Negrar, in via Castelletto 1. 



È questa la sola abitazione che si incontra, dopo aver svoltato per Quena e San Ciriaco, oltre il centro abitato di Negrar e avendo la pazienza di godersi il panorama della Valpolicella per soli cinque minuti di strada in salita, con appena tre tornanti. Poi ecco via Castelletto sulla sinistra, un minuto di strada sterrata val pur la pena per raggiungere il Paradiso. 
Sì, perché Giulio Brogi, che tutti ricorderanno come protagonista delle Avventure di Enea di Franco Rossi (nel ’71), ha scelto di rendere parte della propria abitazione un teatro all’aperto, un teatro nel bosco. E lì accoglie musicisti, cantanti, scrittori, pittori, artisti che a suo parere hanno un valore, che ne dicano i critici dalla puzza sotto il naso, che spesso seguono le logiche di mercato e non quelle dell’arte, intesa nel suo senso più profondo, ossia qualcosa che parla al pubblico per dire davvero le parole che gli mancano, per scuoterlo, per regalargli emozioni belle, vere. 



Il 19 luglio, uno spettacolo che poco concede all’autocompiacimento, che Claudia Maschio ha tratto dal proprio romanzo, Oltre la superficie dello sguardo, pubblicato da Vocifuoriscena
Matteo ha intuito chi è Christine, lo ha potuto constatare fin dal loro primo incontro, ma spera di cambiarla. Poi la verità che tanto cercava gli giunge tra le mani, in forma di piccole confidenze scritte su dei foglietti, appunti privati, che Christine mai gli avrebbe fatto leggere. E qui il tocco di genio dell’autrice: se c’è la verità, non c’è più la persona. Christine è fuggita, introvabile.


Reso in doppio monologo tra i due amanti, il testo vedrà sul palcoscenico Leonardo Franceschetti e Licia Lavagnoli, accompagnati nel descrivere il “terrore del comprendersi” dalla pittura estemporanea di Maurizio Zanolli e dai commenti musicali di Massimo Rubulotta e Massimo Bitasi
A partire da Giulio Brogi, che ospita e sarà regista dell’evento, siamo di fronte (attori, musicisti, editore e scrittrice) a persone impegnate in progetti di promozione dell’arte, del sociale e della vita a costo zero, perché prima ancora dei soldi (forse anche prima della salute), per loro viene l’ideale.
Lo spettacolo è aperto a tutti, con piccolo rinfresco finale.

Pagina dell'evento sul sito di Vocifuoriscena.
Pagina dell'evento su Facebook.

venerdì 11 luglio 2014

Qualche domanda a Marcello Ganassini

Marcello Ganassini, traduttore del romanzo Panu, di Juhani Aho (1897), pubblicato nella nostra collana Lapis, ci propone una serie di preziosissime osservazioni sui contenuti del romanzo e, ampliando il contesto, sulla cultura finlandese ed europea dell'ultimo secolo, nei suoi trionfi e nelle sue contraddizioni; ci parla infine del delicato lavoro di traduttore, del sottile equilibrio tra lettera e senso che permette di trasformare un classico della letteratura finlandese in un classico della letteratura italiana.



Vocifuoriscena. Marcello, in pochi anni hai tradotto il Kalevala, i Canti di Pentecoste di Eino Leino, e ora Panu, di Juhani Aho. Sembra che tu stia seguendo un preciso percorso attraverso alcuni dei testi che hanno costituito la fondamentali tappe di scoperta e rielaborazione dei miti nazionali finlandesi. Ci piacerebbe saperne di più.

Marcello Ganassini. Seguendo l’ordine cronologico avrei dovuto tradurre Leino per ultimo ma, su una scala di contenuti, collocherei Panu dopo i Canti di Pentecoste, testo che peraltro è largamente debitore del romanzo di Aho. In tutte le opere che, a titolo più o meno legittimo, potremmo ricondurre alla categoria tardo-romantica (o «profluvio Jugend» con troppa protervia ha scritto Matti Klinge riguardo a Leino) vi è un carattere comune che io trovo estremamente stimolante, per il lettore come per il traduttore: la scrittura come espressione della volontà, politica ed estetica, di non interrompere quel «flusso immaginifico» che è la tradizione orale baltofinnica, trasposta su carta da Porthan, Gottlund e Lönnrot con un atto cui ha corrisposto la prima pietra nella costruzione dell’identità nazionale. 
La Finlandia non è affatto un caso isolato: la trascrizione e reinterpretazione del materiale orale è lo zoccolo su cui poggia l’impalcatura dell’idea stessa di nazione che già Herder vedeva come soluzione organica di Sprache, Kultur und Tradition: basti pensare all’opera di Niccolò Tommaseo, con i suoi Canti popolari toscani, corsi, illirici e greci, pubblicati sei anni prima della redazione definitiva del Kalevala nel clima effervescente dell’irredentismo, fino alla rivitalizzazione della morente lingua e cultura caucasica ubyx da parte di Georges Dumézil e altri studiosi. A mio modo di vedere ogni reinterpretazione del materiale orale trascritto e dell’«antichità baltofinnica» deve essere vista da due prospettive ortogonali: da un lato il consolidamento e mantenimento del «simbolo vivo» e dall’altro le istanze di cautela verso il rischio di un carattere intrinsecamente artificioso nella poiesi della costruzione nazionale (quell’«ossessione identitaria» di cui parla Francesco Remotti nell’omonimo saggio). 
Nei Canti di Pentecoste Leino ha trasformato gli eroi del mito baltofinnico, la loro olimpica umanità, in epifanie dell’Übermesch nietzschiano: figure che gridavano al lettore dell’epoca valori nuovi e una decisa volontà di rottura. L’autore operò la trasformazione in tutte le direzioni, da quella tematica (aggiunse alla tradizione ciò che ancora le mancava, il mito di Prometeo, l’umanesimo plastico di Goethe e Heine) alla forma stessa del veicolo poetico con il suo dimetro trocaico modernizzato. Panu è una figura che parla direttamente a noi, una formidabile allegoria della modernità e un romanzo «moderno» in senso etimologico, ovvero capace, come tutti i grandi capolavori, di stabilire un limite (modus) al peso storico del simbolo occidentale oltre il quale il lettore avverte un senso di ricollocamento del proprio pensiero nel mondo che ci circonda. Leggendo le tre opere nella sequenza di pubblicazione delle traduzioni italiane abbiamo lo spettro completo del tema eroico finlandese: Väinämöinen (Kalevala), l’eroe cosmogonico, Kullervo (Kalevala), l’eroe tragico, Ylermi (Canti di Pentecoste, tomo I), l’eroe nietzschiano, Ukri (Canti di Pentecoste, tomo II) l’eroe metastorico (la personalità autoritaria di Adorno), Panu, l’anti-eroe faustiano. Una cultura definita spesso «esotica» sembra parlare proprio di noi. 



VocifuoriscenaCosa ti ha colpito e affascinato, nello specifico, di Panu? Cosa pensi che possa trovare o interessare di questo romanzo un lettore italiano?

Marcello GanassiniPanu è un romanzo tanto affascinante quanto complesso: l’evento storico ricostruito con minuzia e slancio espressivo è preso a paradigma d’una serie di dubbi e riflessioni che l’autore si poneva in quell’età di transizione e di rapido mutamento (1897). La cosa sorprendente è che tali dubbi e riflessioni sono in larga parte gli stessi che ci poniamo noi oggi, sul ciglio di una contemporaneità caliginosa davanti alla quale abbiamo perso la capacità di «guardare attraverso». Basti pensare a temi attualissimi come quello di effervescenza sociale, personalità manipolatoria, populismo, descritti, condensati ed elaborati criticamente nella figura dell’ultimo tietäjä, lo «stregone» pronto a usare tutto il suo «armamentario sovrastrutturale», religione, identità etnica, sentimenti popolari e individuali, per preservare potere e interessi propri. 
Le caratteristiche dello stile di Aho, la narrazione come sintesi di due forze contrapposte, la descrizione della natura finlandese come riflesso analitico di «paesaggi interiori», lo spessore psicologico dei personaggi, trovano qui l’espressione di una maturità mai più raggiunta, un culmine dal quale il lettore avverte una sorta di «sottile vertigine isotropica», quasi stessimo anche noi sulla cima del monte sacro, oltre il recinto dell’uhrilehto, con le donne ad aspettare il manifestarsi del divino senza sapere se stiamo assistendo a un rito autentico o a un vuoto cerimoniale.

Vocifuoriscena. Insomma, un po’ come gli elettori italiani che, davanti alla celebrazione liturgica dei talk-show, attendono il «miracolo» da parte di chi si è autoproposto come leader.

Marcello Ganassini. Esatto. Ignari che il miglioramento delle proprie condizioni passa dal senso civico di ognuno e non dal carisma del leader. Le oltre quattrocento pagine di Panu sono percorse dai medesimi temi emozionali: paura, ansia, senso di colpa, cortocircuiti tra il dramma umano e la sfera sovrasensibile e, sopra ogni cosa, la prospettiva del dilemma. La parola del «Gesù della croce», si chiedono i Careliani, è davvero più potente della nostra magia millenaria? Il dubbio di Cartesio che è anche quello di noi lettori: leggere come percorso di consapevolezza dal soggetto inerte alla coscienza critica.

VocifuoriscenaIl romanzo ruota intorno al confronto tra paganesimo e cristianesimo, o per meglio dire, tra la superstizione asservita alle esigenze del potere e il rigore della Riforma imposta dalla Svezia; a cui si confronta, come un terzo polo, un ultima eco della tradizione poetica careliana. Dunque, come dobbiamo intendere il romanzo, una critica ai miti nazional-romantici e alla loro strumentalizzazione politica? Oppure nostalgia a un passato irrimediabilmente perduto? 

Marcello GanassiniRiguardo al rapporto tra tradizione, religione e identità nazionale la posizione del giovane Aho era quella di molti artisti, politici e poeti come i fratelli Järnefelt, Kasimir Leino, Jonas Castrén, Minna Canth, negli ambienti dei quali si svilupparono le idee che, negli ultimi anni dell’Ottocento, diedero nascita al Partito della Giovane Finlandia, organizzazione che proponeva di coniugare il liberismo socialista al conseguimento di un’autonomia linguistica e culturale. Sebbene il primo periodo della russificazione iniziò due anni dopo la pubblicazione di Panu, negli anni in cui Aho ideò e scrisse il romanzo la questione dell’arte come veicolo di istanze autonomiste e identitarie era all’attenzione di tutti. Rispetto all’idea di un passato ancestrale «resuscitabile» Aho fu un Laudator temporis acti come la totalità degli artisti che aderirono al cosiddetto «carelianismo» (la figura di Jorma, il respiro metastorico del suo congedo da un mondo inebetito, indifferente alla sacralità della parola). La concezione secondo la quale la cultura baltofinnica ebbe la sua età dell’oro, il cui segno permane nelle «rovine cognitive» della tradizione orale, è ben sintetizzato nell’esergo che l’autore trasse dalla prefazione all’ultima compilazione del Lönnrot, la raccolta di antichi sortilegi del popolo di Finlandia (1880). 

   


Vocifuoriscena. Vale la pena di ricordarlo: «Se in origine i nostri avi pos­se­de­va­no una migliore conce­zione di Dio e della sua influenza sul mondo, progressivamente questa sapienza si stemperò in un ammasso confuso di superstizioni che finì per dominare l’era del paganesimo». Ed effettivamente si coglie, nel romanzo, una critica allultima fase della religione baltofinnica, ormai divenuto una pallida ombra di ciò che vi era stato prima.

Marcello GanassiniMa ciò che più distingue l’autore nel pensiero coevo è la vis critica che Aho, figlio di un pastore e di una devota pietista, rivolge non solo al potere dell’oppressore svedese ma anche alla chiesa: l’inflessibilità della dottrina luterana, la sordità del pastore alla sensibilità del popolo portano, paradossalmente, alla conversione a un cristianesimo esteriore tanto quanto le coreografie liturgiche e la magia operativa di Panu. Kaarle Krohn sostenne che il vero periodo aureo della lirica popolare fu quello cattolico, poiché il sincretismo impresse slancio espressivo a un materiale simbolico atavico di per sé statico. 

Vocifuoriscena. Quindi il tema di Panu riguarda una crisi di valori generalizzata, che investe tanto i princìpi tradizionali, ormai indeboliti e deligittimati, tanto quelli nuovi e forti che si pretende di imporre a dispetto di tutto.

Marcello Ganassini. Io sarei ancora più crudo. Il tema vero di Panu è il tramonto dell’Occidente e l’intera vicenda si può leggere come un’allegoria di quanto, sul piano fenomenologico, Oswald Spengler vent’anni più tardi chiamerà «pseudomorfosi»: nella cavità calcarea lasciata dalla scomparsa di un cristallo percola nuovo materiale che acquista la forma precedente. Cioè l'esteriorità, ma non il contenuto. A ogni pié sospinto la stampa ci ricorda che la crisi dell’Europa è la crisi della cultura europea: possiamo vedere Panu come una minuziosa autopsia del fenomeno. 

Vocifuoriscena. La Finlandia ha fondato la propria identità nazionale sulla re-invenzione del paganesimo finnico, con il Kalevala (su cui ha costruito un’imponente tradizione letteraria, figurativa e musicale), e tuttora tenta di «ritrovare» le proprie radici con ricostruzionismi pagani e movimento neosciamanici. 

Marcello GanassiniQuello che è cambiato in centrotrent’anni è la società civile: la Finlandia è una moderna democrazia con le sue contraddizioni, in larga parte analoghe a quelle di tutte le altre democrazie occidentali e non più solo occidentali. Il sogno infranto di un paese «a forma di Nokia» ha portato a un «ritorno alla materia» con esiti a tratti drammatici (il rilancio del settore estrattivo e il disastro ambientale nella miniera di Talvivaara). 
Sul piano culturale il movimento moderno in questo paese, dall’architettura all’arte figurativa alla letteratura, ha fatto  più danni che altrove operando una radicale campagna di annientamento degli stilemi tradizionali o tradizionalmente orientati. Il postmodernismo si è così trovato senza materia prima e ha dovuto sviluppare forme espressive poco veraci, «pseudomorfismi» per usare un luogo già citato. Il rapporto che lega la cultura finlandese contemporanea al retaggio del romanticismo nazionale è spesso più frutto di promozione da azienda di soggiorno che il risultato di un riscontro effettivo e ponderato. Ricordo una trasmissione andata in onda una decina di anni fa su un canale di stato, Mitä Kalevala minulle merkitsee («Cosa significa per me il Kalevala»). La domanda veniva posta ai protagonisti della letteratura e della cultura contemporanea e scrittori da noi proposti quasi come continuatori dell’opera compilativa del Lönnrot come Kari Hotakainen rispondevano laconici che, per loro, il «capolavoro nazionale» significava poco più di niente (per Hannu Raittila il Kalevala è materiale «buono per un’opera rock» che è quasi meglio torni a essere pakkopulla, polpettone dolciastro obbligatorio nei programmi didattici della scuola dell’obbligo). 
Nei movimenti cosiddetti neopagani oggi in auge c’è senza dubbio il tentativo, quasi commovente, di ripristinare una solidarietà tra sensibilità metafisica e simbolo etnico. Quanto questo tentativo sia autenticamente ispirato dovrebbe essere oggetti d’indagine per la psicoantropologia. Di sicuro il lettore italiano ora può approcciarsi a questa realtà leggendo l’opera che meglio l’ha descritta.

Vocifuoriscena. Tu che vivi in Finlandia da molti anni, come ti confronti con questa realtà così lontana dalla nostra? con questo vivere a fianco di un mondo mitico ancora tanto vivo e sentito?

Marcello GanassiniIo sono appassionato di trekking e, attraversando un parco nazionale come la foresta vergine della Carelia Settentrionale, spesso avverto distintamente la sensazione, quasi uno stimolo eidetico, che il paesaggio che mi circonda, pini, abeti, betulle e massi erratici, siano l’estroflessione di un simbolo vivo, alla stregua dei carelianisti dell’Ottocento che, in viaggio nella Carelia di Dvina, vedevano nelle Kalevalan kankahat (le «brughiere di Kaleva») le sedi elettive di un’estetica nazionale e nel popolo come nell’arte lirica dei laulajat la sopravvivenza di un ciclo cosmico e l’opportunità di un ruolo storico nella filogenesi. 



Vocifuoriscena. Un punto di vista importante nel romanzo è quello delle sue protagoniste, donne e ragazze diverse tra loro. Alcune sembrano avere tratti quasi da romanzo ottocentesco, altre si rivelano di forte attualità. Perché, a tuo avviso, questa attenzione allo sguardo femminile nella letteratura di Juhani Aho?

Marcello GanassiniIl ruolo «obliquo» della donna è una costante nella produzione di Aho e il tema centrale in opere quali La moglie del prete (1893), Juha (1911), Coscienza (1914) come in molte novelle e, di riflesso, anche nelle opere meno improntate al realismo psicologico. 
Non dimentichiamo che le figure che più influenzarono il giovane scrittore furono due donne di cultura come Minna Canth ed Elisabeth Järnefelt e il Granducato di Finlandia fu il primo paese europeo che estese alle donne il diritto di voto. In Panu lo spaccato sociale dal punto di vista femminile è rappresentato dalla rottura della lex naturalis: la consorte di Panu è privata del nome come del proprio ruolo coniugale, sottrattole da Ilpotar (sposato con Venny Soldan, Aho convisse more uxorio con la cognata Tilly dalla quale, nel 1902, ebbe un figlio, Nils Björn detto Nisse). Anna, la moglie del pastore, vive assediata dall’ansia nel cuore di una selva e di un popolo che sente ostile sognando i bei giorni felici trascorsi nell’arcipelago delle Åland dove il marito svolgeva attività pastorale prima di partire per la sua crociata ai confini del mondo conosciuto. Anche in questo caso l’accostamento tra lo stato d’animo e il paesaggio interiore è suggerito da elementi autobiografici: la madre di Aho, Emma Snellmann, originaria dell’Ostrobotnia, seguì il marito in missione nella Savonia Settentrionale (il giovane Aho descrive la nostalgia della madre per i vasti spazi della costa in antitesi allo smarrimento dionisiaco della foresta continentale) avvertendo una mai risolta estraneità all’ambiente umano che la circondava. 

Vocifuoriscena. Quindi personaggi molto lontani dagli attuali stereotipi letterari della donna...

Marcello GanassiniAnnikki e la sua relazione con Kari sono l’elaborazione del tema romantico, l’interpretazione del mitema tragico immortalato dal Lönnrot nel motivo della morte di Aino come in quello hölderliano di Iperione e Diotima: la bellezza idealizzata della fanciulla morta nel fiore degli anni, Diotima quasi trasfigurata in una statua greca e l’algido splendore di Annikki celato dalle trasparenze del ghiaccio...
Ma sinceramente non saprei dire quale tra tutte queste figure femminili sia più vicina e più lontana dalla nostra sensibilità, poiché uno stereotipo è appunto stereos, ovvero rigido, mentre l’allegoria è in stretta relazione alla morbidezza dello spirito e alla propensione metafisica dell’io. Possiamo quanto meno affermare che l’atto stesso di superamento della legge del sangue, l’amore materno, pieno e puro che lega la moglie di Panu ad Annikki è quello di qualsiasi individuo dei giorni nostri verso una figlia od un figlio adottivo, la solidarietà affettiva su cui si sviluppa la civiltà democratica. 

Vocifuoriscena. Per finire, vorrei che dessi un consiglio a chi voglia intraprendere la carriera di traduttore: come ti poni di fronte alla prospettiva di tradurre (o di tradire) l'ermeneutica di un'opera trasportandola dal finlandese all'italiano? Quale è il tuo approccio alla bellezza e alla profondità di un testo?

Marcello GanassiniIn termini generali suggerisco a chi traduce di operare un armonico compromesso tra il precetto di San Gerolamo (non verbum de verbo sed sensum exprimere de sensu) e la fedeltà a caratteristiche e forma del testo originale. Com’è ovvio, o almeno dovrebbe esserlo, innanzi a una particolare auctoritas dell’autore e dell’opera stessa (per la vetustà del testo, l’importanza riposta nel valore storico e/o filologico del contenuto, il valore religioso o iniziatico, etc.) andrebbe evitato quanto invece oggi pare prassi consolidata: l’appiattimento del metatesto sull’hortus linguae della cultura ricevente. 
La lingua finlandese presenta una particolare vivacità idiomatica derivatale dal genoma cognitivo dei locutori come in parte anche dall’isolamento nel mosaico europeo. Ad esempio, nel caso di Aho, arcaismi lessicali, registri linguistici e inflessioni dialettali sono parte del corredo espressivo nel sottile tratteggio psicologico dei personaggi. La lingua italiana offre gli strumenti per restituire al meglio questi elementi connotativi: perciò blandire supinamente le aspettative del pubblico con la scusa che, tra proto- e metatesto, vi sono chilometri di distanza è un atto, questo sì, d’alto tradimento, prima di tutto nei confronti di chi conferisce senso alla traduzione, ovvero il lettore. 

Vocifuoriscena. Immagino le infinite sfumature di significato che hai dovuto sfogliare in una traduzione così apparentemente semplice come Panu, e ancor più nel tuo opus magnum, il Kalevala.

Marcello GanassiniEffettivamente ci sono casi in cui, contestualmente al carattere dinamico dell’opera, la traduzione assurge a ruolo di vera e propria Übersetzung, ovvero nel processo di scomposizione e rielaborazione avviene un «potenziamento semantico»
C’è un esempio che, per la sua emblematicità, mi piace riportare: nel tradurre il Kalevala mi sono trovato a dover fare i conti con «dominanti flessibili», ad esempio la figura di Pauanne/Palvonen: nome che trova la sua origine il lappone Bajan, epiteto di Hora Galles, divinità uranica. Il luogo ha visto poi uno sviluppo influenzato dalla contaminazione di altre linee semantiche passando da divinità autonoma ad appellativo di altre figure numinose. Nel parallelismo con Virokannas (runo XX, tauroctonia) ho ritenuto di tradurre Palvonen con l’«Officiante» contestualmente alla funzione specifica. Affiancato a Tuuri Palvo(i)nen diventa l’oggetto stesso della venerazione e l’ho così restituito con il «Venerabile» (Runo XLVII, la discesa dal cielo della favilla celeste, «Tuurin uutehen tupahan, Palvoisen laettomahan») mentre il Pauanne appellativo di Ukko (la divinità invocata da Louhi affinché invii la grandine di ferro contro il popolo di Kalevala, nel runo XVIII) accusa l’interferenza del tema di paukkua«rintronare», e l’ho così ricostruito nella forma attributiva «il Tonante»
Una traduzione che si prenda l’impegno di raccogliere e riproporre anche le caratteristiche più sfuggenti della cultura del prototesto è quanto di più vicino alla sua sostanza di etimologica, ovvero la tradizione. Dovendo quindi trovare una definizione per quanto considero un approccio sostenibile, direi necessario in misura diretta dell’auctoritas di cui prima, prenderei a prestito un luogo di Peeter Torop e parlarei di “traduzione tropico-conservativa”.

Vocifuoriscena. Raramente il lettore ha percezione di quanto lavoro invisibile vi sia dietro la piana superficie del testo. E vorrei aggiungere che questo trasferire una semiotica tra due codici linguistici, questa elaborazione d nuovi livelli di significato viene fatto non solo a vantaggio del fruitore del prodotto finito (il libro), ma soprattutto per amore del libro stesso, affinché rimanga a monumento non solo della letteratura finlandese, ma anche italiana. Un'opera deve trovare completezza e giustificazione innanzitutto in sé stessa.

Marcello GanassiniMi permetto ancora un’ultima considerazione: i nostri tempi sono avari di figure intellettuali votate alla traduzione come Leone Ginzburg o Franco Fortini. Perciò e a maggior ragione i traduttori dovrebbero tornare ad essere un pungolo culturale per gli editori, i cui orientamenti quasi sempre sono plasmati esclusivamente da sinossi in (spesso pessimo) inglese inviate da case editrici estere il cui unico obiettivo è piazzare i diritti al miglior offerente.
Nel paese di Acerbi, Comparetti e Pavolini non si pubblicava un classico finlandese da quasi un secolo mentre spesso si è dato in pasto ai lettori quanto di meno significativo offriva il mercato. Vocifuoriscena ha sviluppato il proprio catalogo in una direzione ben precisa e, possiamo dirlo, con una dosa di coraggio degna di un editore d’altri tempi. Auspico che l’esperienza sia d’esempio per gli altri.


Vocifuoriscena. Siamo sempre pronti ad accogliere il fascino di proposte così interessanti. E i tuoi prossimi progetti?

Marcello GanassiniCorrendo il rischio di sembrare elusivo non citerò un titolo ma tre autori che mi piacerebbe portare all’attenzione del pubblico italiano: Martti Haavio, Ilmari Kianto e Aino Kallas. 

Vocifuoriscena. Ringraziamo Marcello Ganassini, che è stato così cortese da rispondere a questo fuoco di fila di domande, e gli auguriamo buon lavoro per le sue prossime, imperdibili traduzioni...

Marcello GanassiniGrazie infinite a voi!

Per informazioni sul romanzo Panu ed eventualmente acquistarlo, questo è il link.



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