sabato 26 dicembre 2020

Storia di un romanzo: Ad bestias


Quando arrivò nella casella di posta dei Ciottoli la proposta di Mario Corte, diedi una rapida lettura alla sinossi e poi un’occhiata alla scheda biografica dell’autore. E lì rimasi senza parole: quell’uomo ne sapeva molto più di me di letteratura, avendo dedicato tutta la sua vita a scrivere, rivedere, tradurre opere. Oltre a essere autore e bibliografo dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, curava da circa venticinque anni Il libro dei fatti, e aveva pubblicato in precedenza con case editrici quali Einaudi. 

Perché, allora, proponeva a noi il suo romanzo? 

Lo chiamai e glielo chiesi.
Mi rispose che le grandi case editrici lo avevano tutte deluso. Le loro erano mere operazioni commerciali, e Mario aveva invece bisogno di rivivere il grande passato, i tempi in cui erano editor come Calvino a decretare il bene o il male del panorama letterario italiano.
A quelle parole cercai di sprofondare, ma le leggi della fisica – impietose – me lo resero impossibile.
Bofonchiai che non mi ritenevo affatto all’altezza dei grandi del passato – Calvino, figuriamoci, il mio indiscusso idolo letterario! – e che faceva ancora in tempo a tornare sui suoi passi.
Mario liquidò le mie proteste con poche parole: “Claudia, veda se il romanzo funziona, se qualcosa va cambiato: mi faccia questo immenso favore”. 

La revisione

Il mio lavoro di revisione durò pochi giorni: a parte piccole incongruenze e qualche inevitabile refuso, Mario Corte ci aveva regalato un romanzo di rara originalità, e soprattutto di rara sensibilità.
Protagonista un bambino di sei anni – Michelino – dalla fervida immaginazione. E di contorno le bestie, che sono i suoi stessi familiari: una zia che lo usa per assecondare le sue perversioni, una nonna tirchia nell’animo, una madre scissa dalla realtà e un padre incapace di difenderlo.
Quel mondo, in cui il surreale di Michelino cercava di essere fatto in frantumi dalle bestie, mi colpì, ferì e anche risvegliò: è in nostro mondo, purtroppo. 

L’amicizia

Nel frattempo avevo avuto modo di conoscere meglio Mario: con lui ho parlato del romanzo, si intende, ma anche di tante altre cose, che mi hanno aiutato a comprendere di più sia lui, sia me stessa. E credo sia questo l’aspetto che amo maggiormente del mio lavoro: potermi confrontare con persone non solo interessanti, ma anche capaci di creare sintonie, visioni comuni, stimoli reciproci.
Per qualche giorno mi fece addirittura l’onore di essere mio ospite qui a Negrar, e spero solo che si sia trovato bene in questa gabbia di matti.
Durante la sua permanenza, presentammo Ad Bestias alla Libre! di Verona, e Mario riuscì a incantare i presenti con dettagli sul suo romanzo, ma soprattutto con la sua generosa umanità.
Un piccolo-grande successo, insomma. 

Uno spiacevole intoppo

Qualche giorno dopo venni contattata da una giornalista del giornale locale veronese – L’Arena – per un’eventuale recensione.
Portai alla signora in questione una copia del romanzo, ci intrattenemmo un po’ a parlare del panorama letterario italiano, ma anche di Mario Corte, di perché avevo scelto di pubblicarlo, e me ne tornai a casa con la piacevole sensazione di aver incontrato una persona che condivideva parecchio del mio modo di pensare.
Dopo soli due giorni, questa signora mi richiamò, invitandomi a tornare a casa sua.
Una volta lì mi disse, con fare contrito, che se avesse dovuto scrivere una recensione sarebbe stata per stroncare il romanzo.
“È nel suo diritto, faccia pure”, le risposi. “Ma posso sapere perché?”
“Perché ci sono delle frasi in inglese, e questo è un romanzo di letteratura italiana. Almeno aveste messo delle note…”
Non ci potevo credere, mi sa che sono impallidita. Tutto mi sarei aspettata, tranne una critica così fuori luogo.
Devo aver ribattuto con qualcosa come “Ma si tratta di poche battute, comprensibili anche da un ragazzino delle elementari”.
Fatto sta che la giornalista in questione non aspettava altro che un mio vacillare. “Ma come? La vedo disorientata. Non sa accettare le critiche? Mi sa che ha ancora molto da imparare sul lavoro di editrice. Guardi, guardi qua: questa è una recensione che sto preparando per Einaudi. E frasi in inglese manco mezza. Lo stile è stringato, niente divagazioni fantasiose.” 

C’era da ribattere? 

Mi sa di no. Le diedi ragione sul fatto che avevo ancora molto da imparare, cosa che ritengo vera tutt'oggi, e me ne andai salutando con perplessa gentilezza.
Per poi tornare a casa e ritrovarmi una mail piena di feroce ironia e sarcasmo bieco da parte della suddetta.
Ad bestias, che altro?

Claudia Maschio

domenica 20 dicembre 2020

"C'era una volta o forse non c'era...", la recensione del Giornale di Vicenza

 


14 fiabe tra donne e sciamanesimo

Le fiabe ungheresi. Un patrimonio di cultura e colore

Scritte da Benedek ora tradotte dalla misquilese Elisa Zanchetta



In foto: Elisa Zanchetta con l'inseparabile Mandy 
e il volume C'era una volta o forse non c'era...

Numeri che si ripetono, creature fantastiche, mondi strabilianti in cielo e nel sottosuolo. Un porcaro che su consiglio di un maialino chiede al re sette paia di calzari e sette abiti per arrampicarsi, in sette giorni, sull’albero che tocca il cielo e salvare la principessa rapita e trasportata lassù da un vento vorticoso.

Un castello di diamante, con settemila finestre e settemila gradini, che ruota sopra una zampa di gallo ed è abitato da un mostro serpentino a nove teste, dotato di parola e di un'intelligenza malvagia, che concupisce la giovane.

Sono solo alcuni degli affascinanti elementi cosmologici presenti in C'era una volta o forse non c'era..., raccolta di favole ungheresi curata e tradotta per la prima volta in Italia da Elisa Zanchetta di Mussolente, per la casa editrice Vocifuoriscena.

Il titolo replica l'insolito e caratteristico incipit della tradizione favolistica magiara: una formula che chiarisce come il il lettore venga catapultato in una realtà altra, un mondo in cui tutto e il contrario di tutto sembrano possibili e i confini tra fiaba e mitologia si confondono.

Proprio la curiosità per il mito ungherese, o meglio, per l'assenza di una mitologia racchiusa in un testo unitario, è alla base del lavoro della curatrice.

«Dopo essermi appassionata, da autodidatta, al finlandese e alla mitologia finnica, all'università decisi di studiare l'ungherese e di ricostruire la mitologia di quel popolo nomade di origine caucasica che si stabilì nella valle del Danubio alla fine del IX secolo», racconta Zanchetta. «Per riuscirci, oltre agli articoli pubblicati dagli studiosi, lessi anche l'opera di Benedek Elek, scrittore e giornalista che tra il 1894 e il 1896 raccolse il patrimonio fiabesco del suo Paese».

Per orientarsi nella ricerca, Elisa si era creata un glossario, ora trapiantato come parte integrante nella raccolta, e aveva raggruppato le fiabe in tre grandi filoni: sciamanesimo, figure femminili e albero cosmico. Suddivisione poi conservata nelle quattordici storie del libro, tutte con testo originale a fronte, chiuse da un "testamento morale" di Benedek, vero pedagogo per i lettori di ogni epoca.

Con il patrimonio di mille anni di fiabe, leggende e storie religiose, raccolte confrontandosi con studiosi e andando di villaggio in villaggio, Benedek racconta di un popolo in possesso di un'immaginazione coraggiosa, dotato di un linguaggio rispettoso del pudore e della morale e capace di fare di ogni favola un'opera letteraria. Un patrimonio unico che può essere letto dagli adulti e raccontato ai più piccoli.

 

Federica Augusta Rossi - Il Giornale di Vicenza

Link all'articolo scansionato: 

sabato 19 dicembre 2020

«Servono morale e cielo stellato», intervista a Claudia Maschio

 


«Servono morale e cielo stellato»

Editrice, filosofa e scrittrice: «Ho scritto un po' di tutto: dalle poesie alle sceneggiature teatrali». Il prossimo obiettivo: una fiera dell'editoria indipendente da organizzare a Verona in estate.

Cinema e teatro da un lato, scrittura e letteratura dall'altro. Era a un bivio Claudia Maschio, scrittrice, editrice, e filosofa: «Alla fine ha prevalso la passione per la scrittura. Ma erano due percorsi complementari: già da ragazzina mi dilettavo a scrivere piccole commediole, che recitavamo insieme ai miei amichetti», racconta.

Padovana di nascita, veronese di adozione: «Mio padre, medico, fu trasferito a Verona come primario di nefrologia all'ospedale di Borgo Trento; era il 1975, io avevo 12 anni, e la mia città è questa».
Vive in Valpolicella, Claudia, a Negrar insieme al marito Fabio, detto "Vecio Sacca" per la sua proverbiale lentezza nel gioco delle carte, ai due figli Clara e Elio, e ai loro inseparabili cani: «Li portiamo a passeggio su per la collina, in città non sarebbe possibile. In Valpolicella stiamo benissimo, l'aria è decisamente più pulita, la vita più sostenibile».

Studi al Liceo Scientifico Fracastoro, quindi la laurea in Sociologia a Trento e il dottorato in Filosofia della Scienza: «Più apprendimenti e più conoscenze hai, meglio riesci a trasmettere concetti di un certo rilievo». Il primo riconoscimento nel 1993, quando Claudia Maschio è tra i dieci finalisti del Premio Andersen«Fiabe, sebbene ami di più lavorare su racconti e romanzi. Diciamo che ho scritto un po’ di tutto, dalle poesie alle sceneggiature teatrali»
Esce il suo primo romanzo Oltre la superficie dello sguardo. In realtà, ci ha messo un bel po’ prima di pubblicarlo: «Non ero convinta, l’ho tenuto anni nel cassetto; non ho grande autostima ma se mi dicono che ciò che faccio, qualcosa, vale, allora un po’ ci credo». 

Tra il 2005 e il 2007 pubblica tre saggi, due sul Natale e uno sul Carnevale. Durante le ricerche, fa l’incontro che le cambia la vita professionale: «A Viterbo conobbi Dario Giansanti; fu lui a darmi delucidazioni sulle origini mitologiche del Natale». Si mettono a scrivere insieme, sentono il bisogno di maggior respiro, così decidono di farsi una casa editrice tutta loro, Vocifuoriscena: «Siamo partiti con 80 euro di budget, e all’inizio è stata molto dura. Abbiamo pubblicato in Italia romanzi stranieri sconosciuti e saggi di mitologia: siamo cresciuti, eravamo in due, oggi siamo in sei. Siamo di nicchia e di strada ne abbiamo da fare ancora molta, ma siamo su quella giusta».

Oltre ai romanzi stranieri e alla saggistica, c’è poi la collana di narrativa italiana: «Una ventina di autori; siamo molto selettivi e la concorrenza è davvero tanta. Siamo distribuiti in tutta Italia, ma ci rivolgiamo esclusivamente alle librerie indipendenti». Odio i film francesi, romanzo del veronese Luca Boschiero, potrebbe presto diventare un film: «Pietro Barana, mio compagno di liceo al Fracastoro, che oggi vive e lavora in Brasile, sta curando la sceneggiatura; io collaboro alla revisione. Sarebbe bello fosse interpretato da attori veronesi, sempre che non lo produca Netflix ovviamente…».

Eh già, perché le cose potrebbero anche andare così. Claudia intanto non ha certo smarrito la vena e continua a scrivere. E sopra splendeva un cielostellato, il suo penultimo lavoro, è frutto dei suoi studi di filosofia etica, in omaggio a Kant: «Morale e cielo stellato, i due elementi che oggi abbiamo perso. Mancano fiducia nella scienza e la morale intesa come applicazione di ciò che è giusto; diversamente, non ci berremmo tutte le fandonie che appaiono su internet e i social. Esempio, ne è il negazionismo in tempi di pandemia. La gente si è comportata bene durante la prima ondata, per paura; è bastato allentare le misure in estate, e si è visto cosa è successo».

Per il futuro non è ottimista: «Vorrei esserlo, ma faccio fatica. La casa brucia e non facciamo nulla. Prendiamo la questione ambientale; dovremmo ormai capire che così non si può andare avanti e che qualcosa va fatto per invertire la rotta e dare un futuro alle nuove generazioni. Una rivoluzione culturale parte da piccoli passi. Questo non significa tornare alle carrozze, ma trovare una strada meno consumistica, questo sì. Abbiamo tutto, e le nostre comodità stanno uccidendo il pianeta. Detto ciò, questo sistema socioeconomico è arrivato al capolinea».

Claudia, che con Dario Giansanti sta lavorando al prossimo romanzo, ha un obiettivo davanti. «Una fiera dell’editoria indipendente a Verona, città senza una vera e propria rappresentanza editoriale. Io ci credo molto. Speriamo possa partire già la prossima estate».
A giugno, sotto «un cielo stellato», con la benedizione di Kant.


Lorenzo Fabiano – Corriere di Verona


domenica 6 dicembre 2020

Video della lezione "Introduzione alla mitologia ungherese" (Parte I)

 


Cari lettori, vi segnaliamo il video relativo alla prima parte della presentazione di Elisa Zanchetta dal titolo "Introduzione alla mitologia ungherese". Elisa ha curato la pubblicazione di una selezione di fiabe popolari (népmesék) raccolte dallo scrittore ungherese székely di Transilvania Benedek  Elek (Kisbacon, rum. Bățanii Mici, 1859-1929) dal titolo C'era una volta o forse non c'era. Fiabe cosmologiche ungheresi. La lezione è stata tenuta nell'ambito del corso di Lingua ungherese - prof.ssa Cinzia Franchi - DISLL, Università di Padova).

https://www.facebook.com/watch/?v=987481091765087

Buona visione!

domenica 29 novembre 2020

Indomite - La nascita

 

 

Come nasce un libro? Dalla penna dell’autore, ovviamente. Ma è un neonato: ha bisogno di essere accudito, a volte può anche essere prematuro, oppure può portarsi dietro il trauma di un lungo e difficile travaglio.
Ma torniamo al dunque. Precisamente, all’inizio della vicenda editoriale di Indomite, il libro di Simona Friuli che, dopo una sorta di “numero zero”, sta per uscire in una veste riveduta e corretta (ampiamente) per i tipi, come si diceva una volta, di Vocifuoriscena. 

Tutto comincia con una mail di Claudia Maschio, del 24 aprile 2019: “Se riesci, dai una lettura anche a questa proposta editoriale, piuttosto breve. Ho iniziato a leggere anch'io, ma non ti dico nulla per non influenzarti.” In calce, la mail dell’autrice, di qualche tempo prima: “Buonasera, sono Simona Friuli, e questa è la mia proposta editoriale. “Una bestia rara”, così mi piace definire il manoscritto che può essere ciò che cercate.”

Sono emozionato. Ancora non conosco bene i meccanismi che regolano l’attività della casa editrice e spero in cuor mio si tratti di qualcosa di facile facile. Errore. Selvagge (il titolo definitivo di Indomite venne molto dopo, in fase di prestampa) è un cespuglio spinoso, uno di quegli arbusti che a fine inverno si presentano scabri, anneriti dal gelo, ma vigorosi e ben strutturati – promessa di una fioritura impetuosa – anche se qualche rametto rinsecchito o contorto, che rivela cicatrici mal rimarginate e dannose, ne compromette l’armonia. Servirà una potatura intelligente, penso.

A farmi innamorare del manoscritto, al di là dei difetti, è la forza che sprigiona. “Una bestia rara”, l’espressione con cui l’autrice lo presenta, rende bene l’idea.
Protagoniste dei racconti, una serie di figure femminili tra l’umano e il bestiale. Vi sono re, regine e figlie di re [?]. Rubando da quanto scrissi poi per la quarta di copertina: “Sono queste ultime, le figlie, le vere protagoniste: soggette solo a se stesse e al richiamo del sangue, arse dall’eros ma libere dal giogo maschile o, al più, indocili spose o in procinto di diventarle…”.

La forza, dunque. Ma sentivo che qualcosa non andava. Il ritmo della narrazione procedeva spezzato e volevo capire perché. Mi sentii con l’autrice. Era sorpresa che il manoscritto avesse suscitato il nostro interesse. Altre case editrici, mi disse, non l’avevano preso in considerazione: troppo sofisticato, troppo lontano dai gusti correnti dei lettori, con tutte quelle inversioni sintattiche, quei termini desueti o addirittura inventati, le iperboli, le allitterazioni, i chiasmi che combinano con allitterazioni: “mentre la strega cambiata in vecchia riso rideva di scimmia” e altro ancora… Lei stessa si era convinta, dietro il consiglio di un editor, di riscrivere tutto in forma più corrente. Adesso era chiaro: le zeppe, gli inciampi nel fluire ipnotico del testo erano dovuti al tentativo di “normalizzarlo”, facendolo rientrare nei canoni della narrativa standard. Lo standard, però, non ci interessava. Volevamo l’originale, con impresso il timbro autentico dell’autrice.
Mi mandasse dunque la prima versione, quella non edulcorata. Elementare operazione di recupero filologico. 

Elementare, mica tanto: l’originale non esisteva. Non più. Incredibile! Nell’era dell’informatica, l’autrice non ne aveva salvato una copia nella memoria del suo computer. Ci aveva scritto sopra! Peccato capitale. Peccato anche per noi, che perdevamo un testo promettente. Glielo dissi, e lei mi gelò. Gelò in senso positivo: “Ce l’ho tutto nella testa”, disse.
Scrivere, per Simona, era un fatto musicale, e ricreare il tessuto originale dei racconti non era impossibile: bastava lasciasse cantare il cuore e le “Selvagge” sarebbero resuscitate intatte dal loro limbo.

Non volevo crederle. Una cosa del genere, che io ricordassi, era riuscita altre volte, ma in epoche lontane, dominate dall’oralità. Secondo una tradizione, i primi sette canti dell’Inferno, rimasti a Firenze, furono ricreati in questo modo da Dante Alighieri durante l’esilio veronese. Dino Campana riscrisse di sana pianta i suoi Canti orfici, dopo che Ardengo Soffici, a cui li aveva spediti, li smarrì tra le sue carte. Ma era nel 1913! Nel 2019, chi possedeva più una simile memoria? E invece…

Tornando alle mail, è dei primi di settembre l’arrivo della “nuova” (in realtà, la primitiva) versione di Selvagge. Ancora da limare. Lavoro che ha impegnato l’autrice e il sottoscritto per molte settimane, prima che subentrassero Claudia Maschio e Dario Giansanti con l’impaginazione.
Da notare che, anche dopo, altri ritocchi sostanziosi sono stati approntati, per i ripensamenti dell’autrice, mai soddisfatta (per inciso: arrivati a questa fase, non si dovrebbero mai accettare modifiche, ma tant’è, a Vocifuoriscena siamo fatti un po’ così…). E il titolo. Selvagge, poco musicale, infine fu soppiantato da Indomite, con quel bell’accento sulla terzultima.
E la scelta della copertina, e il fascio degli ancora nuovi ritocchi…
Tante cose resterebbero da dire dell’opera certosina che ha portato il libro alla sua veste attuale.
Un libro compatto, senza incrinature. Affascinante e da leggere, senz’altro.

Franco Ceradini


 

giovedì 26 novembre 2020

"C'era una volta o forse non c'era...", recensione di East Journal

 


Affezionati lettori, vi segnaliamo la recensione del nostro volume di fiabe popolari ungheresi intitolato C'era una volta o forse non c'era... Fiabe cosmologiche ungheresi, a cura di Elisa Zanchetta, scritta da East Journal, quotidiano online d'informazione su politica, cultura e società dell'Europa centro-orientale e del Vicino oriente.

Seguite il link... and enjoy your reading!

https://www.eastjournal.net/archives/112842





sabato 14 novembre 2020

Come nasce un romanzo: E sopra splendeva un cielo stellato


Intervista di Oliviero Canetti a Claudia Maschio

Gli anni che porto sulle spalle, tra letteratura e impegni universitari, mi hanno insegnato perlomeno una cosa: l’intervista a un autore non riuscirà mai a mettere davvero in luce i tratti fondamentali del suo romanzo. E, nel caso di E sopra splendeva un cielo stellato, l’operazione è ancor più ardua, perché si tratta di un romanzo surreale e insieme profondamente razionale. Stilisticamente una raffinata confezione, e poi dentro un regalo insolito, di quelli capaci di stupirti a più riprese.
Così ho deciso di impostare quest’intervista nel modo più semplice possibile: domande brevi, ma precise e, laddove necessario, incalzanti.

Claudia, raccontaci come è nato E sopra splendeva un cielo stellato?

Tutto è partito da un racconto, scritto nell’arco di due settimane, che racchiudeva il succo dei miei studi sull’etica, ma anche dagli scambi di vedute a tarda ora con Carlo Dalla Pozza, amico, amato, e per sempre nel mio cuore.
Non mi interessava pubblicarlo: era stato concepito per “divertire” alcuni amici, persone a me care, amanti della filosofia e del perenne dubbio interiore.

Un dubbio interiore che ti appartiene…

Wittgenstein ha scritto che il dubbio viene dopo la certezza. Un concetto che mi ha illuminato non sulla via di Damasco, ma in un viaggio in treno tra Verona e Trento. E che mi ha fatto rileggere tutta la mia vita, soprattutto l’infanzia, con occhi diversi.
Appartengo a una famiglia tradizionalista, fortemente cattolica. Mio nonno andava a messa tutte le mattine e, da piccola, mi obbligava a recitare il rosario: le preghiere prima di andare a dormire per me e i mei cugini duravano un’ora sana!
Ovviamente non eravamo sempre con i nonni, e resta il fatto che io li ho amati tantissimo. Mi mancano tantissimo.
Però c’era quella sporcatura lì. Quell’ingombrante presenza: Dio.

Ho come il sospetto che non tutti i lettori del blog apprezzeranno, ma mi interessa. Com’è andata a finire?

Per me, da bambina, Dio era un’indiscutibile certezza. Una di quelle certezze di Wittgenstein, indispensabili per far sorgere il dubbio.
Appena fatta la prima comunione, tenni un pezzetto di particola per darla alla mia criceta Enia: anche gli animali, secondo me, erano meritevoli della grazia di Dio.
Mia madre, quando glielo dissi, si mise le mani nei capelli e mi portò dal parroco, rossa in volto dalla vergogna. Don Gino mi fece un predicozzo poco convincente. Continuavo a chiedermi: se tutti siamo creature di Dio, perché i criceti no?
Di seguito – il dubbio dopo la certezza – mi posi molte altre domande, che divennero sempre più impertinenti via via che crescevo. Come fa una vergine a restare incinta? Se Dio ama le sue creature, perché tanto male nel mondo? Se siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio, anche Dio potrebbe fare l’amore? E, nel caso, con chi e perché?
Poi ho letto Darwin.

Poiché mi sembra tu abbia di gran lunga superato il confine dell’eresia, oso una domanda pressoché inevitabile: quanto condividi dell’affermazione di Dostoevskij “Se Dio non esiste, allora tutto è permesso”?

Grazie per questa domanda, che ci porta dritti nel mio romanzo. Anche perché è esattamente il suo punto di partenza: un mondo in cui è stato dimostrato, senz’alcun dubbio, che Dio è una bufala. E quindi tutti ritengono, come stuzzicava quel genio di Fëdor, che tutto sia permesso.
Va da sé che un mondo simile non può funzionare. Così troviamo, per garantire la pace sociale, negozi che vendono coscienze o sensi di colpa.
Ma anche questo non basta.

Certo che no, ma vorrei sentire il tuo perché.

Perché il dubbio non può essere qualcosa che decostruisce certezze pregresse, deve anche saper costruire nuove certezze, o nuovi modi di vivere. In questo caso, di eticità del vivere. Un percorso che io stessa ho compiuto, sia studiando, sia scontrandomi, facendo a pugni e poi pace con la realtà.
Insomma, credo non serva lo sguardo severo di un Dio o di un padre per comportarsi eticamente.
Come ebbe a dire Kant, serve “il cielo stellato sopra di me, e la morale dentro di me”.
In sintesi, sapere scientifico (conoscere l’universo, cosa che cerca instancabilmente di fare la fisica) ed etica autonoma, quindi consapevole e cercata.

Non anticipiamo altro su questo punto e veniamo ad aspetti squisitamente letterari. Il tuo amore per il surrealismo, in E sopra splendeva un cielo stellato, si spinge a una classificazione delle forme di vita senzienti, comprendendo anche gli oggetti, alcuni protagonisti del romanzo, come Vocabolario, Bar Sport e la Strada. Secondo te, cosa potrebbero dirci gli oggetti inanimati che non possono dirci gli esseri umani?

Io sono solita parlare con i miei due cani, ma anche con gli oggetti. Se è per questo, parlavo anche con i miei figli mentre li avevo in pancia e quando avevano pochi giorni. Ho continuato a farlo – vedi un po’ che strano – mentre li allattavo e crescevano poco a poco. Eppure non mi capivano, impossibile, quindi avrei dovuto stare zitta? O è solo immergendolo in un mondo linguistico che un bambino impara a parlare?
Con gli animali è la stessa cosa: non parli loro sperando che ti capiscano, ma per instaurare un rapporto. E metto la mano sul fuoco che i miei due cani capiscono un sacco di parole che dico loro! Le hanno imparate perché ho parlato con loro.
Ovviamente, quando un bambino è piccolo, o anche con un animale, sappiamo che non comprende effettivamente tutto quel che diciamo.
Ma con un oggetto?
Alla fine è la stessa cosa: cerchiamo di tessere rapporti con chi ci sta intorno, e gli oggetti, quando parliamo loro, di riflesso ci rispondono, come specchi. Allo stesso modo degli occhi di un neonato o di un cagnolino quando gli esprimiamo le nostre emozioni.
Se ho dato vita agli oggetti, da un punto di vista letterario, è perché questa scelta offre un inusitato ribaltamento del punto di vista sulla realtà. Lo stesso che viviamo tutti quando siamo capaci di esprimere, indipendentemente se ascoltati o meno, quel che siamo e pensiamo.

Perché il surreale in un romanzo che parla di etica?

Adoro il surrealismo, perché sa trasmettere in modo intenso suggestioni, pensieri, idee, mondi. Il simbolismo riesce a farlo limitatamente ai concetti, e per questo le semplici similitudini o piatte metafore mi stanno strette.
In un romanzo il surrealismo ha una forza travolgente: trasporta il lettore nel mondo che meglio conosce, quello onirico, di sua natura surreale, e gli racconta storie in sintonia con i sogni che fa ogni notte. Solo che in questo caso si ha una sorta di inversione del processo: si sta leggendo, non sognando, l’impatto è più forte e non si rischia di dimenticare la verità che il sogno voleva comunicarci.

Quale senso di colpa consiglieresti di acquistare?

Il senso di colpa sottende un concetto del peccato di stampo prettamente cattolico, e quindi assai poco in intimità con la sfera etica tout court.
Certo, potrei consigliare sensi di colpa rispetto ai comportamenti poco responsabili, per non dire menefreghisti, nei confronti dell’ambiente in cui viviamo. Oppure sensi di colpa che facciano vergognare per i soprusi e le violenze nei confronti di chi è più debole e indifeso, per l’indifferenza nei confronti di chi, per ragioni a me incomprensibili, viene ritenuto diverso.
Ma non servirebbe a nulla: il senso di colpa è un’arma a doppio taglio, che fa star male chi lo subisce e non sa cambiare la realtà.
Sono convinta che la sola strada sia il raggiungimento di una consapevolezza interiore.
Un imperativo kantiano che porti a considerare gli altri (il prossimo tuo) come un fine, e mai come un mezzo.

domenica 1 novembre 2020

"Thanathopia", recensione di Oliviero Canetti

 

Rubén Darío, Thanathopia. Racconti fantastici, esoterici e del terrore, a cura di Anna Laura Perugini


«...quella figura si voltò verso di me, scoprì il volto e, oh, spavento degli spaventi!, quel viso era vischioso e marcio; un occhio penzolava sulla guancia ossuta e putrida; arrivò a me un umore di putrefazione.
» (La larva)


Vi segnaliamo la recensione scritta dal professor Oliviero Canetti relativa al volume Thanathopia, opera dello scrittore nicaraguense Rubén Darío (1867-1916), una delle penne più influenti della letteratura ispanoamericana del suo tempo. 


La recensione 


«Era un bambino. Era immensamente buono... Né or­goglioso, né astioso, né ambizioso. Non aveva nes­­suno dei peccati angelici, lontano più di ogni altro dai pec­cati dia­bolici, non conosceva altri peccati che quelli del­la carne. La sua anima era purissima.» In queste parole, Ra­­món María del Valle-Inclán racchiuse lo spirito e il carattere di Rubén Darío, appena scomparso: tra i due grandi scrit­tori era corsa un’amicizia pari soltanto alla reciproca ammirazione

Definizione in fondo paradossale, in quan­­to il gran­de poeta nicaraguense si era formato sot­to il se­gno della bohème francese e del parnasse contem­po­rai­n. Aveva con­dotto una vita sregolata, ec­ces­siva, di­spen­­­diosa, destinata a portarlo a una pre­ma­tura morte per cirrosi epa­tica a soli quarantanove anni. Ciò nono­stan­te, Darío non era mai riuscito a raggiungere del tutto la sta­tura, a cui forse un po’ aspirava, di poeta “male­detto”. Come Edgar Al­lan Poe, di cui aveva un vero e proprio culto, o come Ver­­laine, soprattutto, ido­­latrato fin dagli anni della gio­­vinezza. Ma Val­le-Inclán aveva ra­gione: Rubén Darío era trop­po since­ro, ingenuo e generoso. La fiducia e la simpatia che suscitava contribuirono alla sua affer­ma­zione come poe­ta e valsero a perdonargli gli aspetti più con­troversi della sua esi­­sten­za.

Rubén Darío era un uomo fragile: cedevole ai vizi, sen­sibile al fascino femminile, non riuscì mai a trovare un equilibrio con i sensi di colpa dovuti alla sua edu­cazione cattolica. Era tutt’anima, nudo, indifeso. La sua fede, vissuta tra lacerazioni e tor­menti, si con­frontava quotidianamente con il so­pran­­naturale, il dia­bolico, il m­agico, si mescolava alle super­stizioni e al­le leggende del Nicaragua e traeva forza dai ter­rori e dagli incubi che lo tormentavano fin dal­l’in­fanzia. Il suo desiderio di pe­ne­trare nel mistero dell’in­co­no­sci­bile lo portò a cercare una risposta alle proprie an­sie nell’esoterismo, nella teo­­­so­fia, nello spiritismo. Credeva e discredeva a tutto, seguendo le sue inclinazioni, i suoi timori, la sua in­fal­libile bussola poetica, ma spesso con scarso senso criti­co. Le co­siddette “scienze occul­te” lo at­traevano in ma­niera mor­­­bosa ma pure, inevitabil­men­te, lo riem­pi­va­no di in­­quietudine e di angoscia: gli ricordavano l’ap­pros­si­mar­­si del mistero della morte, che egli rap­pre­sentava come una donna bellissima e algida, una Diana implacabile, trion­fante, eternamente vergine.

In queste cifre si racchiudono alcune delle numerose te­ma­ti­che che attraversano la sua poesia – che ha trasformato la letteratura spagnola e per la quale Darío è giu­stamen­te famoso –, ma che sono anche fondamen­tali nei suoi testi in prosa. Ingiustamente oscurati dalla grandezza dell’opera poetica, i racconti di Darío sono invece una parte indispensabile del suo mondo letterario. Simbolisti, surreali, a volte metafisici, mol­to spesso autobiografici, i racconti dariani attingono a piene mani a tutto l’armamentario post-romantico, decaden­­ti­sta e modernista. A partire dai testi giovanili, in cui il narratore rievoca il mondo meraviglioso della mitologia greca, riscrive le leggende cavalleresche, attualizza i racconti di fate, viene sedotto dagli scenari esotici­ delle Mille e una notte e ripropone una sensualità neopagana in chiave moder­na, il Darío ma­turo si avventura in ter­ritori più oscuri e inquietanti. Dagli apologhi “morali”, ispirati alla Bib­bia o alle leg­gende agiografiche, in cui predomina l’afflato mistico, si arriva al vero e proprio racconto del ter­rore, do­ve al­lu­cinazioni indotte dalle droghe, ma­te­rializ­zazioni se­­­­­polcrali, feno­me­ni inspiega­bili e presenze dia­boliche, uni­te a un opprimente, in­delebile senso del pec­cato e della morte, trasfor­ma­no il suo mon­­do di ninfe, fate e principesse in una successione di incubi ter­rificanti.


Quest’edizione in due volumi (Voce lontana e Thanathopia) dei racconti fantastici di Rubén Darío, la più ampia fino a oggi pubblicata nel nostro Paese, è grosso modo organizzata secondo una scan­­sione tematica e cer­ca di dissipare la matassa delle mol­teplici influenze cul­turali e umane che filtrarono nel vasto corpus prosastico del grande autore nicaraguense. La cu­ratrice, A. Lau­ra Perugini, qui alla sua prima espe­­rienza di traduzione professionale, si è affidata alla com­­­pe­tenza e al­l’intuito di Dario Chioli – scrittore egli stes­so, nonché profondo cono­scitore di letteratura mi­stica ed esoterica – per mettere a fuoco quelle “zone di confine” della poe­­tica dariana che, sol­tan­to negli ultimi anni gli stu­diosi han­no cominciato ad analizzare in ma­­­niera critica. 
Da parte mia, posso solo augurarmi che la curatrice, rispettando una promessa che le ho estor­to, ci conse­gni presto le traduzioni dei racconti ancora inediti di Rubén Darío.

Oliviero Canetti
Cagliari, 3 novembre 2016


Recensione del blog La libreria di Yely:


Per maggiori informazioni, seguite i nostri link!

Thanathopiahttp://www.vocifuoriscena.it/catalogo/titoli-thanathopia.html
Voce lontanahttps://www.vocifuoriscena.it/catalogo/titoli-voce_lontana.html




domenica 25 ottobre 2020

Ma gli ungheresi hanno un Kalevala?

 


Ma gli ungheresi hanno un Kalevala?

Questa è la domanda che ha dato avvio al mio affare con le fiabe popolari ungheresi. Ebbene sì, una semplice domanda, che ora mi fa arrossire al solo ricordo, tale è la sua aura di innocenza e infantilità, mi ha portato a dedicarmi assiduamente alla traduzione e all’analisi di un granello di sabbia dell’immenso patrimonio popolare magiaro. Ma cosa c’entra il poema epico finlandese con l’Ungheria e perché mai oso mescolare due culture sorelle, ma che da tempo abitano in alloggi separati?

Alienazione artica

Correva l’anno 2010 quando mi iscrissi alla facoltà di Lingue e letterature moderne dell’Università di Padova, scegliendo di dedicarmi allo studio della lingua tedesca e inglese, nonché alla filologia germanica. Da sempre appassionata di lingue, letteratura e mitologia, mi sentivo, finalmente, a mio agio. Ma non avevo fatto i conti con la mia fylgja ribelle e ferita: staccandosi nottetempo dal mio corpo mi conduceva attraverso le immense distese di betulle dell’Artico, tra renne e neve, dove mi potevo sentire aliena a me stessa. Aliena per il semplice fatto che non capivo il finlandese e mi sentivo cullare dal suonare di kantele e dai dolci dittonghi. Cominciai a sentire il bisogno di intraprendere un nuovo viaggio linguistico che mi portasse lontano, lontano dalla quotidianità, che mi aiutasse a staccarmi completamente dal dolore interiore che provavo in quel periodo. Decisi di iniziare a studiare finlandese da autodidatta, per gioco, per illuminare le mie notti insonni e cariche di presagi funesti. Il finlandese fu un vero toccasana, perché compresi una volta per tutte che il mio Lebensraum era fatto di lingue sempre nuove e con esse i loro miti. Investii i miei risparmi per iscrivermi a un corso di lingua finlandese a Helsinki e grazie a esso riuscii ad approfondire la mia, all’epoca sommaria, conoscenza del Kalevala. Da quel giorno iniziai a nutrirmi di korvapuusti, Kalevala e gradazione consonantica, a cui aggiungevo sempre un cucchiaino di Snorra Edda. La semplice infatuazione lasciò ben presto spazio a un profondo amore celeste: oramai il mio sogno boreale era ciò che mi permetteva di svegliarmi all’alba sempre con il sorriso.

La puszta sotto l’albero di Natale

Dopo quasi un anno di armonica convivenza con il finlandese, mi trovai di fronte alla possibilità di scegliere una terza lingua curriculare per il mio percorso universitario. Presi la decisione in una nebbiosa notte settembrina: avrei iniziato a studiare ungherese solo per puro interesse di comparazione linguistica e mitologica. Ero curiosa di poter comparare il lessico di due lingue ugrofinniche e, se fossi stata così brava, anche le loro strutture più profonde. All’inizio ero molto scettica: tutti quegli accenti e quei gruppi consonantici dell’ungherese non facevano per me. Arrancavo, ero in perenne ritardo con le esercitazioni, la grammatica ungherese era come un Kugelhupf carico di frutta candita: allettante e goloso alla vista, mattone calcareo da digerire per la sottoscritta. Quell’anno decisi che avrei trascorso le festività natalizie solo con l’ungherese: desideravo capire se eravamo fatti uno per l’altra, oppure se semplicemente non c’era affinità. E così ebbe inizio un grande amore per la grammatica ungherese, talmente profondo che ci scambiavamo bigliettini con messaggi grammaticali e ci sussurravamo all’orecchio la suffissazione dei suffissi locativi.

La grande delusione

L’Epifania si portò via una volta per tutte i miei dubbi e tornai a frequentare i corsi di lingua e letteratura ungherese con rinnovato interesse. Ora che iniziavo a leggere in lingua originale, avrei voluto saperne di più sulla mitologia magiara, ma non riuscivo a trovare nulla. Così un giorno mi arrischiai e chiesi alla mia docente se esisteva un Kalevala ungherese. Provo tutt’ora la pelle d’oca al ricordo della sua espressione allibita. La sua risposta fu che gli ungheresi non avevano un poema epico, non esisteva una mitologia ungherese: mi sentii travolta da centinaia di orde vichinghe, schiaffeggiata dal vento gelido sulla cima di un fiordo…

Il mio affare con la mitologia ungherese

Ma non mi detti per vinta. Iniziai a cercare nomi di antropologi e filologi ungheresi, così mi imbattei in Hoppál Mihály. Dai suoi articoli appresi ben presto che gli ungheresi non disponevano di carmi epici, ma che la loro mitologia era polverizzata in molte fonti popolari. Decisi che avrei iniziato proprio dalle fiabe popolari per ritrovare quella manciata di figure e luoghi mitologici ungheresi che a malapena conoscevo. Nel portale online MEK (Magyar Elektronikus Könytár, “Biblioteca elettronica ungherese”) trovai molto materiale raccolto da Benedek Elek, ma chi fosse questo signore io proprio non lo sapevo. Solo molto tempo dopo appresi con grande stupore l’importanza dell’opera di Benedek, grande personalità poliedrica e dinamica del Romanticismo magiaro.

Iniziai a leggere alcune fiabe e ne divenni ben presto dipendente. Adoravo leggerle a voce alta per cullarmi nella musicalità delle loro formule allitteranti, attendendo con loro lo spuntare dell’alba. Mi tennero compagnia anche quando la mia adorata nonna mi lasciò sola nella nostra Stube. Fu questa seconda grande perdita a farmi affezionare ancora di più all’ungherese. I fogli con i testi delle fiabe non erano solo carichi dei miei geroglifici con le traduzioni dei termini che non conoscevo, ahimè all’epoca troppi: erano macchiati di lacrime, stropicciati per la rabbia, si trovavano ovunque, anche in bagno e nel frigorifero. Mi arrabbiai con me stessa: non avevo condiviso con nessuno quelle poche conoscenze, perché non le avevo messe per iscritto. Solo allora mi resi conto che dentro di me avevo una pastasciutta di concetti e relazioni, un groviglio che mi avrebbe soffocata se non lo avessi dipanato e riavvolto, dandogli forma scritta. Non mi accontentavo più di leggere e capire, dovevo scrivere per mettere ordine dentro di me, schematizzare tutto ciò che apprendevo, per poterlo rendere usufruibile anche ad altri, fosse anche solo una fiaba oppure la descrizione di un essere mitologico da far leggere a qualche anima, per strapparla dalla quotidianità schiacciante, per donarle una coccola culturale. Così mi misi a lavorare a un glossario di personaggi e luoghi mitologici, un sandwich golosissimo per me, in cui mettevo tutte le informazioni che riuscivo a racimolare, traghettandole dall’ungherese all’italiano. Solo in seguito mi misi a tradurre le fiabe perché credevo che, un giorno, avrei potuto leggerle ai miei “nipotini”, educandoli ad apprezzare le lingue e le mitologie dei popoli.

 

mercoledì 21 ottobre 2020

Come nasce un libro: Il funerale di Edward Block

 



Qualche anno fa un’amica, che lavora per una grossa casa editrice italiana, mi disse: «Senti, ho letto il romanzo di un ragazzo, Zeno Toppan, e mi sembra molto promettente». 
«Bene, mi fa piacere. Quando lo pubblicate?»
Silenzio. Dopo una decina di secondi, ecco la risposta: «Io credo che ogni romanzo abbia bisogno della casa editrice giusta, non so se mi spiego…». 
Ci misi un attimo a fare due più due. Primo, la mia amica non intendeva proporlo alla casa editrice per cui lavorava. E, di conseguenza, lo stava proponendo a me
Ma perché?
«Perché le grandi case editrici vogliono vendere, commercializzare», mi rispose. «Invece a voi non importa nulla dei soldi.»
Oddio, anch’io devo arrivare alla fine del mese… Ma come rifiutare?

Il funerale di Edward Block???

Quando arrivò il manoscritto di Zeno Toppan, mi incuriosì il titolo. Pensai che ci voleva del coraggio per sceglierne uno simile, e anche che, nel caso avessi pubblicato il romanzo, lo avrei cambiato di corsa
Lessi la sinossi, qualche pagina random e ne rimasi colpita. 
In quel periodo, tuttavia, stavo già lavorando ad altri due editing, così passai Il funerale di Edward Block a un selezionatore di Vocifuoriscena. 
«L’incipit non funziona, devo proseguire?», questo il riscontro che ricevetti dopo una settimana. 
Gli dissi di lasciar perdere, volevo occuparmene io: per esperienza, so che gli incipit dei romanzi sono il punto dolente di ogni scrittore, così come tante volte i finali di capitolo
In effetti le prime pagine erano un po’ ridondanti, non arrivavano al dunque con la giusta immediatezza. 
Continuai ugualmente a leggere.
Ogni tanto inciampavo in qualche passaggio (e mi segnavo a lato “da migliorare,”), tornavo indietro a rileggere, annotavo appunti, e mi ponevo dubbi uno dietro l’altro.
Mi rendevo conto che la struttura c’era, che la trama riusciva a calamitarmi, ma ogni volta che mi confrontavo con gli altri “addetti ai lavori” di Vocifuoriscena sentivo sempre la stessa tiritera: «Sei sicura di volerlo pubblicare?». 
Sicura no, non lo sono mai. Ma sentivo che non era il caso di mollare.

Cosa mi ha convinto

A tratti Edward Block mi ricordava Bartleby lo scrivano, l’uomo insignificante, metodico e a suo modo ribelle di Melville, o meglio ancora il giardiniere Chance nel romanzo Being There (in italiano Presenze) di Jerzy Kosinski (consacrato al successo dalle strepitose interpretazioni di Peter Sellers e Shirley MacLaine nel film Oltre il giardino).
Con una differenza: Edward Block, una volta diventato – con suo immenso stupore – un artista di fama mondiale, sa benissimo cosa significa.
Ed è proprio da questa consapevolezza che nasce il suo travaglio interiore: era questo che voleva?
E, se sì, a che prezzo?
Nel romanzo c’erano dubbi, non una verità a portata di mano. C’era lo sguardo di un artista sul mondo e la sua pochezza.
O almeno è questo che ho visto io. 

Il lavoro di editing

Seppur ormai decisa a pubblicare Il funerale di Edward Block, mi rendevo conto che alcune ingenuità e spiegazioni di troppo rischiavano di appesantirlo. 
Così ne parlai a Zeno Toppan: dei passaggi andavano rivisti, soprattutto l’incipit. 
Devo dire che rimasi stupefatta dalle sue parole: «So bene di avere ancora molto da imparare: lavoriamo insieme a rendere migliore il mio romanzo, se sei disposta a farlo». 
Ma come?
Non era uno dei soliti autori supponenti che si inalberano se solo gli contesti una virgola?
Mia risposta: «Dammi del tu. E cominciamo». 
Dopo tre mesi di confronto, lavoro di limatura e sistemazione, Il funerale di Edward Block era pronto per la pubblicazione.
E, inutile dirlo, a quel punto avevo compreso che il titolo scelto da Zeno Toppan era perfetto.  


lunedì 19 ottobre 2020

Comunicazione vincitori concorso letterario "Scriviamo il futuro"

 

“Scriviamo il futuro”: ecco i vincitori

Nato da un progetto condiviso tra Vocifuoriscena, il web magazine Duegradi e gli attivisti di Fridays for future Verona, e il concorso letterario “Scriviamo il futuro” è stato pensato per dare voce a chi avverte l’emergenza climatica come un problema non procrastinabile. 
L’idea di sensibilizzare attraverso la letteratura è uno dei tanti modi per superare la coltre di indifferenza che spesso accompagna i comportamenti personali; ma anche di sfatare i negazionisti dei cambiamenti climatici, che sempre più spesso si oppongono alla scienza come se i suoi risultati costituissero mere opinioni.

I risultati del concorso

Nonostante sperassimo in qualche sorpresa positiva, nessun romanzo si è rivelato all’altezza delle aspettative
E, tra i tanti pervenuti, solo quattro racconti a nostro avviso meritano la pubblicazione in una raccolta, che sarà coedita da Vocifuoriscena e Duegradi. 
Abbiamo scelto, nella speranza di disincentivare almeno un po’ la competizione tipica del nostro sistema malato, di non stabilire alcuna classifica, ma di considerare i quattro racconti a pari merito. In ordine alfabetico:

1. Michele Cannas Azzurro e grigio

2. Luca Fancello Sui campi di Chiliama

3. Donatella Salvetti Il topografo

4. Andrés Vicentini Il nulla è relativo

Nei prossimi due mesi verrà effettuato un lavoro di editing sui racconti, in concerto con gli autori, e una volta pronta la pubblicazione della raccolta ve ne daremo notizia.

domenica 18 ottobre 2020

Icaria


Lo scrittore di romanzi, si sa, vola alto. Si potrebbe paragonare a Icaro, il che, specialmente in relazione all’esito della celebre bravata di costui, non depone propriamente a favore di chi si lanci in imprese troppo ardite. Il rischio di lasciarci le penne, alla lettera, è molto alto. A impallinare l’autore di romanzi (per non dire di racconti, di poesie…) è quasi sempre il selezionatore. Figura temutissima, sorta di Caronte. Sono pochissimi coloro che sopravvivono al suo vaglio. A quasi tutti gli scrittori, all’inizio della loro attività, sarà arrivata la lettera, in genere succinta, in cui con formule cortesi si annuncia che, nonostante gli indubbi pregi, ma a causa degli irrimediabili difetti, il manoscritto è stato rifiutato. Non sono pochi i grandi autori che, prima di essere riconosciuti tali, hanno subito questo affronto.

Bene. La vicenda che mi è capitata recentemente è andata in modo molto diverso.
Da qualche tempo affianco Claudia Maschio nella direzione di “Ciottoli”, la collana di narrativa di Vocifuoriscena, soprattutto nella scelta delle opere da pubblicare. Compito gravoso, simile per molti versi all’andar per funghi. 
Come per i funghi, infatti, serve levarsi all’alba e sfacchinarsi una scarpinata micidiale, arrampicandosi sui pendii per sentieri a volte quasi invisibili o addirittura aggrappandosi alle radici degli alberi. Se si è fortunati, e se da lì non è già transitata la torma dei vostri concorrenti, anche loro sguinzagliati per il bosco da prima del sorgere del sole, arrivati sui posti “buoni” potrete avere la vostra soddisfazione e portarvi a casa qualche buon porcino. 
Così va il mondo dei cercafunghi. 
E così vanno le cose per i lettori di manoscritti. La prima selezione va via veloce: basta una rapida scorsa per orientarsi. Se proprio non funziona, il manoscritto viene messo da parte rapidamente. Inutile fingere: ne arrivano così tanti che, per non restare bloccati, è inevitabile affidarsi in prima istanza all’intuito. Con qualche benevolenza nei confronti del selezionatore, si potrebbe pensare a una sorta di fiuto: anche il cercafunghi esperto sa cogliere nell’aria umida del mattino l’aroma inconfondibile del porcino. In questo caso, si ferma e si guarda in giro, perlustrando con accuratezza ogni anfratto. In caso contrario, passa ad altro. Così per i manoscritti. 
Quelli che passano la prima cernita (che viene effettuata da Claudia), finiscono nella cartella “da_leggere” del PC. La lista mi arriva in genere nel cuore della notte (Claudia, al contrario del sottoscritto, non si alza all’alba: lei all’alba se mai va a dormire…). Si procede in ordine di arrivo, in modo da non far torto a nessuno, e dopo aver chiarito i tempi di valutazione – che variano a seconda delle opere in coda – e chiesto agli autori di avvisarci nel caso prendessero accordi con un’altra casa editrice. 
Ottenuta la loro assicurazione, si passa alla lettura. Se va bene, due, tre settimane di levatacce. A volte meno, a volte di più. Non lo nego, devo anche fare i conti con la mia pigrizia (non sempre scatto puntuale al suono della sveglia) e con le mille incombenze domestiche: pare impossibile, ma con l’arrivo della pensione si sono moltiplicate… Ogni manoscritto, poi, fa storia a sé, e tra il capolavoro intoccabile e il romanzo che zoppica irrimediabilmente c’è un’amplissima “zona grigia” che comprende testi che per vari motivi non possono essere pubblicati così come sono e che pure meriterebbero di esserlo (con tutta una serie di interventi di cui parlerò prossimamente…).

Ma veniamo al dunque. Qualche tempo fa mi è capitato di leggere un testo piuttosto pregevole. L’autore, chiamiamolo Icaro. Struttura originale: vari episodi di intonazione surreale, indipendenti ma annodati insieme da un filo comune, con personaggi che sembrano smarrirsi per poi ricomparire poco oltre, in un nuovo contesto. Anche il resto era convincente: buone descrizioni, ritmi incalzanti il giusto e senza cadute, linguaggio pulito e appropriato, con qualche guizzo di originalità. Insomma, da pubblicare. Nella scala di colori della nostra griglia, decisamente sul “grigio chiaro”.
Mi confronto con Claudia. Anche da lei parere decisamente positivo (ma già l’aveva scorso al suo arrivo e se n’era fatta un’idea). Anzi, come mi aspettavo, vista la sua inclinazione al surreale, mi chiede di curare personalmente l’editing, con tutto quello che segue: ritocchi, aggiustamenti, controlli e ricontrolli incrociati (i refusi!). Favore che le concedo senza rimostranze. Ne uscirà, siamo sicuri, un buon libro.
A questo punto, resta da contattare l’autore e prendere i necessari accordi. A stretto giro, trovo sul cellulare un WhatsApp di Claudia: “Non ci crederai, vai a questo link…”. Vado e trovo il nostro manoscritto. Copertinato e in vendita su Amazon. Da non crederci, in effetti: in venti giorni, dalla nostra email di preavviso, Icaro è riuscito nell’impresa di trovare un altro editore, passare il vaglio della lettura, revisionare il testo, scegliere la copertina e pubblicare, con ISBN e tutto. 
Complimenti! Tornando alla metafora del cercafunghi: trovato il posto buono, ma mentre si faceva sosta a dissetarsi dalla borraccia, qualcuno è passato e ha spazzolato il raccolto. Buon per lui.

E buon per Icaro. Buon viaggio…