sabato 18 settembre 2021

Milan Nápravník e la tecnica dell'inversaggio

 


Un pomeriggio di novembre inoltrato del 1976, nella coincidente convergenza del mio particolare stato d’animo, della singolare luminosità, del freddo e del luogo, mentre vagabondavo senza meta per le ampie paludi delle Hautes Fagnes, mi chinai per raccogliere un pezzo di legno, che si trovava a margine di un piccolo e cupo stagno, e che somigliava a una grande chiave arrugginita. In quel periodo ero preda di una tensione depressiva evocata da una certa tragedia personale, che mi ricordava, in modo più che insistente, la mia particolare e frequentemente maledetta solitudine spirituale nel mondo nel quale sono costretto a vivere, solitudine solo sporadicamente interrotta dall’amore delle donne, che per tutta la vita mi ha condotto fuori dai vicoli ciechi dei monologhi e della disperazione. Questa volta, questo ponte verso la vita era caduto. Cercavo la solitudine in un paesaggio deserto, in modo che non dovessi affrontare la mia solitudine tra la gente...

La chiave adagiata davanti a me nell’erba lunga, allettata e mezza secca, questo oggetto strano e intenzionalmente forgiato, era lunga almeno trenta centimetri, con un grande occhio su un lato, e sull’altro una dentatura ingegnosamente barocca, e con le sue sembianze sembrava appartenere ad uno di quegli oggetti inaspettati e simbolici che di solito incontriamo in sogno. All’improvviso ebbi l’intensa sensazione che mi si rivolgesse la parola. Come se fossi il destinatario involontario di un messaggio incomprensibile ma pressante. Incapace di muovermi, mi resi conto che il molle terreno della palude cedeva sotto i miei piedi. Finalmente mi concentrai abbastanza da riuscire a muovermi. Cercai di raggiungere la chiave, volendo liberarla dai vincoli erbosi. Nel momento che la toccai, però, il materiale di quell’oggetto, evidentemente marcio, si frantumò in briciole marroni.

Sorpreso, per un attimo rimasi a contemplare quel mucchietto di polvere legnosa, la cui precedente interezza e apparente saldezza non avevano lasciato presagire che un lieve tocco di mano, o anche di un solo dito in un unico punto, potesse addirittura distruggere completamente quell’oggetto reale. L’improvvisa disintegrazione, o meglio l’improvvisa esplosione di questo legno marcio mi riempì di stupore, perché contraddiceva la mia aspettativa, basata sulla percezione visiva. D’un tratto ebbi l’intensa sensazione come di un intervento estraneo, di un fenomeno psicocinetico, la cui inscrutabile ragione andava oltre la portata della mia comprensione.

Prima di riprendermi dallo stupore, la cui intensità non era in alcun modo adeguata al significato pratico dell’evento, il mio sguardo errante, ingannato e confuso, si posò su un punto lontano solo un passo, su un punto che limitava la rugginosa superficie d’acqua del piccolo stagno e la sponda bassa, coperta dalle radici di un salcio nano. In quel momento, però, il senso di sconcerto divenne ancora più incombente: quel groviglio di terriccio, erba e radici e il suo riflesso inverso sulla cupa, immobile acqua dello stagno si fusero in un insieme simmetrico, nel volto di un demone, che mi osservava con uno sguardo penetrante e apertamente denigratorio, e il cui corpo ingobbito si perdeva sotto la superficie d’acqua. Fui colto dalla sensazione di essere involontariamente diventato oggetto del volere di qualcun altro. Questa sensazione, inoltre, era accompagnata da una speciale delizia numinosa, tipica di quei momenti straordinari che sanciscono i nostri incontri con fatti che vanno al di là della realtà codificata; di quegli attimi in cui riusciamo a penetrare dal mondo delle cose reali nella sfera dei misteri irrazionali. Allo stesso tempo, l’incontro sincronizzato di chiave e demone confermò in me la convinzione di essere il destinatario di qualche messaggio segreto, il cui significato, purtroppo, mi sfuggiva.

Finalmente, dopo un attimo, la numinosità dell’evento, unita ad una temporanea catalessi, perse il suo potere ipnotico. Mi resi conto di dove mi trovavo. Percorsi con lo sguardo l’infinito paesaggio dell’ampia palude, dove risaltavano sporadici cespugli nella nebbia bassa. Un vento gelido sfregava il mio viso, in lontananza si udiva lo strascicato latrare di un cane. Nel frattempo, il sole era calato all’orizzonte. Le ombre si allungavano. Una sensazione di gelo implacabile e soprannaturale si insinuò in me. Fui assalito dal timore di poter addirittura morire se non fossi riuscito a muovermi...




La magia di questo incontro singolare fu così intensa che decisi, il giorno seguente, di ritornare sul posto con la macchina fotografica per poter fotografare il demone e per catturare quella stupefacente atmosfera autunnale del paesaggio. Ma nonostante vagassi per lunghe ore per la palude e avessi l’impressione di riconoscere ogni cespuglio, cunetta e viottolo che avevo percorso il giorno precedente, non riuscii più a trovare il cupo stagno col demone. Dalla strada lontana mi giungevano le grida di scolaretti raggianti di gioia per la gita. Era un altro giorno.

Quando oggi, a distanza di molti mesi, riconsidero quella mia esperienza, non posso dubitare nemmeno per un attimo che la mia immaginazione, che quel pomeriggio autunnale creò una chiave davanti ai miei occhi da un pezzo di legno marcio, mi offriva, seguendo l’ordine del subconscio, la chiave per la mia disagevole situazione emozionale nella quale versavo in quel momento, ma, allo stesso tempo, rischiarava la straordinaria interferenza di tempo, stato d’animo e luogo, alla cui intersezione mi ritrovai involontariamente, grazie a lei. Questa chiave era come se dovesse mostrarmi la vicinanza di una doppia porta: la porta-via d’uscita dalla mia crisi personale, il cui influsso depressivo avevo cercato fino ad allora, con poco successo, di scacciare e, allo stesso tempo, su un alto piano e in coincidenze più complesse, la porta verso una svolta dimensionale, che conduceva dal paesaggio di oggetti e relazioni familiari e comuni alla sfera della conoscenza magica. Nell’attimo in cui sfiorai la chiave, essa si sbriciolò, in modo che d'un tratto trasecolassi di delusione, simbolizzante un disappunto più fondamentale, nel cui campo emozionale mi ritrovavo, ma allo stesso tempo in modo che non fossi distolto dal reale significato della sua esistenza, che era meramente simbolica, intermediaria e che denotava un elemento esterno. Il frantumarsi della chiave, che in campo simbolico riverberava il frantumarsi delle mie speranze personali, mi provocò una intensa sensazione depressiva, che sbloccò e mi liberò da quella sensazione di depressione più radicata che aveva dominato l’intera sfera del mio conscio. Allo stesso tempo, la visione animistica del demone mi collocava nella spietata critica del subconscio compensante, non come un soggetto deplorevole, ma, al contrario, ridicolo.

Ma non solo quello: al contempo ne rimasi ammaliato e, parallelamente, fui preso da una sensazione di delizia inconsueta. Ero penetrato inaspettatamente nel nucleo della realtà celata dietro la porta dalla percezione razionale della realtà concepita: avevo puntato il mio sguardo sul volto della realtà magica. Invece di acqua, erba e terriccio scorsi la realtà dall’altra riva e mi ritrovai nel punto focale di un’emozione potente e deliziosa derivante dalla conoscenza irrazionale. La qualità  di quell’esperienza, quella violenta eccitazione e delizia per la scoperta del miracoloso, che provai grazie alla magica inversione percettiva, era di quelle che, una volta risvegliate, rimangono ancorate nel nostro subconscio per poi, al momento giusto, poter agire spontaneamente come stimolatori di atti di rivolta. È una qualità che, ugualmente a ragione, può essere definita magica e poetica, poiché la poesia non è altro che una disciplina della magia. In questo modo, in senso residuale, ricevetti un’ulteriore prova oggettiva, assolutamente non per la prima né per l'ultima volta, che questa poesia, così come l’intende anche il surrealismo contemporaneo, non è una questione di intelletto, istruzione, stile, abilità letteraria o fantasia speculativa, per quanto scurrile, ma piuttosto esclusivamente una questione di intuizione ed esperienza magica della realtà.

Il mondo nel quale, con mio grande dolore, sono nato e nel quale cerco di vivere secondo le mie capacità, non è un mondo di naturale equilibrio tra libertà e necessità, un mondo dove, in qualunque momento, sia possibile dar sfogo ad un anelito creativo, come nel caso del quale parlavo poc'anzi.  È, al contrario, un mondo di attività lavorative organizzate in maniera repressiva, sterile e assurda, il cui senso è in gran parte estraniato da qualsivoglia funzione immanente, e, in primo luogo, è estraniato dalla vita, che invece vorrebbe realizzarsi in delizia creativa. Questo stato morboso, pietrificatosi nel corso di migliaia di anni nella norma tabuizzata della civiltà, costringe me e milioni di altre persone nell'ambiente opprimente di una società lavorativa, la cui prima e ultima regola è la mostruosa produzione di un'utilità che limita lo spirito. E così, come milioni di altre persone, invece di lasciarmi guidare dagli impulsi creativi, capaci di compensare l'apaticità e la riduzione permanente delle capacità e dei bisogni emozionali dell'uomo, e quindi della deformazione dell'intera sua psiche, mi ritrovo il più delle volte occupato a mettere in atto movimenti prescritti che costituiscono quei valori apparenti capaci di soddisfare i bisogni presunti. Per questo motivo, ci vollero mesi prima che l'esperienza da me descritta potesse maturare e permettermi di comprendere la possibilità - e svegliare in me anche il bisogno - di realizzare i metodi magici basati su di essa.

In una giornata cupa, piovosa, mentre, incapace di concentrarmi e quasi assopito, sfogliavo svogliatamente e con superficialità una pubblicazione di storia dell'illustrazione medica, notai alcune incisioni anatomiche, con le quali gli enciclopedisti illuministi, che cercavano di comprendere la vita sulla base della parzializzazione meccanica e di analisi riduzionistiche, ornavano le loro esposizioni di scienza naturale. Queste incisioni, naturalmente, non mi erano ignote, ma non mi avevano mai spinto oltre un superficiale interesse per la tecnica usata dall'incisore e per l'atmosfera di quei tempi passati. D'un tratto, però, tra le pagine del libro, davanti al mio sguardo interiore, dietro l'incisione di una testa per metà privata della pelle, vidi quel volto di demone a margine del cupo stagno della palude, volto composto da due parti rovesciate, quell'effetto inverso sulla superficie dell'acqua che per l'intrico di terriccio, erba e radici appariva come la malignità gnomica di una smorfia contratta. E soltanto in quel momento, dentro di me, conversero due traiettorie indipendenti, permettendomi di riconoscere qualcosa di semplice ma al tempo stesso formidabile, vale a dire che l'unione inversa di parti bilateralmente simmetriche di una singola struttura è uno dei principi morfologici fondamentali della natura, l'archetipo organizzatore del macro e del microcosmo. In quel momento mi fu chiaro il contenuto magico del messaggio che mi aveva raggiunto in quella nebbiosa giornata autunnale. Soltanto allora mi fu evidente che la forza numinosa di quella mia visione non era il risultato della crisi soggettiva, quantunque sconvolgente. Il suo effetto ammaliante prendeva origine dal contatto magico del subconscio con l'archetipo dell'universo, dal cogliere, sul campo irrazionale, uno dei segreti più profondi della realtà. La demonizzazione animistica di quest'attimo fu, poi, conseguenza della percezione magica, che registra sempre la realtà interiore come una parte integrante della realtà psichica. Solo allora la mia vista interiore si rischiarì. Come in una sintesi onirica mi resi conto del principio simmetrico delle formazioni cosmiche, dei poli magnetici, delle strutture cristalline e biologiche. Nei giorni e nelle notti seguenti, in preda ad una trance superficiale, passai in rassegna ciò che mi circondava, riconoscendo all'improvviso dei e demoni di antiche religioni, i volti assorti, indagatori, beffardi e malevoli della realtà, privati delle maschere civilizzatrici dell'utilità e dell'applicabilità immediate. Arrivare alla decisione di usare questo potenziale magico per tracciare immagini col metodo della visione inversa fu quindi un breve passo.

Per far risaltare la sua forza magica, non era possibile usare nessun altro mezzo se non quello delle tecniche fotografiche capaci di riprodurre l'impressione della realtà con fedeltà naturalistica. Tecniche a metà tra macchina fotografica e laboratorio, che riorganizzai in cucina di alchimista, dove creavo una nuova realtà partendo dagli ingredienti che trovavo. Il fatto di trasfondere vitalità spirituale in alberi, pietre, micro e macrostrutture che di solito nel mondo reale passavano inosservati, elevava l'attività creativa al rango di reale creaturazione del mondo. Ciò produceva l'identificazione con animali, piante e minerali, processo questo favorito dalla magia e represso dalla civilizzazione: nel momento in cui la natura si psicologizza, l'essere umano ne diviene parte.

Per caratterizzare questo metodo nella maniera più precisa possibile, lo chiamai inversaggio, parallelamente alla denominazione dei metodi creativi surrealisti più antichi introdotti da Max Ernst. Questa mia scoperta l'ho connotata con la seguente definizione:

L'inversaggio è un metodo surrealista di creazione della realtà magica attraverso l'unione di due o più immagini inverse di oggetti reali, delle loro parti o di strutture immateriali, superficiali. Il principio dell'inversione non è basato su tendenze estetiche del conscio, ma preesiste come archetipo morfologico dominante nel subconscio, vale a dire nella realtà irrazionale. Il carattere archetipico dell'inversione dà luogo all'inversaggio, che origina dalle immagini fotografiche della realtà  creata dall'azione di acqua, fuoco, ghiaccio, calore, erosione, corrosione, gravità, divisione cellulare, crescita ecc., con una implicita forza numinosa. Il significato extra-estetico dell'inversaggio non può essere altro che il rivolgere la nostra attenzione verso una percezione alternativa, magica e, in questo modo, sconvolgere il monopolio della repressiva visione ottica cosiddetta “oggettiva” della costruzione unilateralmente razionalistica del mondo.

 

Maggio 1977

Milan Nápravník

(Traduzione di Antonio Parente)

 

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