giovedì 10 febbraio 2022

Francesco Maiello - La necessità di guardare in faccia la realtà

 

Chi è Francesco Maiello, e, soprattutto, perché scrive?

Sai che di fronte a questa domanda ho rischiato una denuncia per oltraggio a pubblico ufficiale? Ero in Francia non lontano da Treguier nella Bretagna del nord. Ero andato a visitare i luoghi di Ernest Renan, uno degli autori francesi che amo di più. Inoltre Treguier ha una cattedrale che mi affascina moltissimo. Stavo per andare via quando mi sfuggono le chiavi dell’auto di mano e mi abbasso per raccoglierle. Ecco che spunta un poliziotto che pensa forse io mi stia nascondendo.
Mi fa: «E lei chi è?».
Resto sorpreso... poi mi viene naturale dirgli: «Ascolti, io posso dirle come mi chiamo, dove abito, che lavoro faccio, mostrarle i miei documenti, ma mi creda alla domanda precisa che lei mi pone non so rispondere. Io non so chi sono».
Lui mi guarda perplesso. In quel momento viene raggiunto da un collega che evidentemente ha sentito perché ha un volto con un’espressione divertita, non ostile. Poi il primo dice: «Lo sa che potrei arrestarla per oltraggio a pubblico ufficiale? Lei si sta prendendo gioco di me».
Io gli faccio: «Mi creda signore, tutt’altro. Mi prenderei gioco di lei se le rispondessi. Perché io veramente non so rispondere alla sua domanda. Comunque, – dico – se oltre ai documenti personali vuole anche quelli del veicolo mi lasci raccogliere le chiavi e aprire l’auto. Lei mi pone una domanda che da Socrate a Freud non ha trovato risposta. Immagini se posso trovarla io».
Fu il secondo poliziotto a risolvere la questione fingendo un colpo d’occhio ai documenti e chiedendomi dove alloggiavo.
Capisci? Non ho le idee più chiare di quanto le avessi allora. Non so rispondere. Io non so chi sono. Vilayanur S. Ramachandran, che come sai è uno dei massimi studiosi di neuroscienze, sostiene che anche il concetto di “io” è un miraggio. E lo motiva bene nei suoi libri.

Francesco Maiello

Perché scrivo? Ti racconto un altro aneddoto. Un giorno ero a Parigi a rue Monticelli, a casa del grande medievista Jacques Le Goff che mi onorava (si dice così?) della sua amicizia. Stavamo registrando l’intervista sulla storia che sarebbe poi uscita presso Laterza.
Durante la “pausa pranzo” gli chiesi qualcosa circa l’insorgere della sua passione per la storia. Lui mi disse con un’aria meravigliata con se stesso: «Sa, Francesco, io non so perché, non ho una spiegazione, ma sin da piccolo ho sempre pensato che avrei fatto lo storico». E allargò le braccia. Sin da piccolo ho sempre pensato che avrei fatto lo scrittore, ma, contrariamente a Le Goff mi sono deciso a farlo da vecchio. Ho fatto tanti altri mestieri, prima. Il mio primo romanzo è del  2018, pubblicato con uno pseudonimo. Avevo 72 anni.

Come ti è venuta l’idea di La necessità del male?

Questa è una domanda molto bella, anche se nessuno ci pensa. Non è la stessa cosa di quando ti si chiede: «Quando hai deciso di scrivere?», oppure; «Perché hai scelto questa trama, questo argomento?». C’è una bellissima frase del grande Claude Lévi-Strauss a proposito dei miti (e io ho sempre pensato che valga anche per la letteratura e per l’arte in generale): è quando lui scrive che nella riflessione sulla mitologia si può anche abolire il soggetto perché i miti dopotutto parlano tra loro.
Ora, la domanda che mi poni invita a pensare – almeno al suo livello letterale – che le idee ti “vengano”. Cioè sono loro a muoversi verso di te.
Purtroppo l’italiano è infelice a proposito dei sogni. “Fare un sogno” è una stupidaggine incredibile. I sogni, come i miti, i romanzi, l’arte, non si “fanno”, giungono.
Spesso, come uno sciamano, lo chiedo al mio libro come mai sia “venuto”. Non ci crederai, ma lui mi risponde. In primo luogo mi dice che per essere esatti lui è “esploso” oltre me giungendo nel momento della mia vita in cui ha realizzato che non avrei avuto altro futuro da vivere se non quello che si immergeva nel passato. Ha capito che sono vecchio – ho quasi 77 anni – e posso avere un futuro solo perché alle mie spalle si distende un oceano.

Perché ritieni che il male sia necessario? 

Semplicemente perché il male è la nostra vita. Non ricordo chi fu a scrivere che la pace, cui tutti agogniamo, è solo un breve intervallo fra due guerre. Lo stesso vale per il bene. Il bene è solo un momento di distrazione del male, che è la normalità. Non ricordo se fu Voltaire, Marco Aurelio o Ernest Renan a dire che gli uomini sono portati a farsi domande cui non sanno rispondere. Se la sostanza del mio ricordo è esatta, sono portato a fare una modifica e dire che gli uomini hanno la tendenza a porsi domande cui non possono rispondere.
Il concetto che noi moderni occidentali abbiamo del bene è devastante per la psiche umana. Siamo sempre in uno stato di inadeguatezza rispetto alla vita, agli amici, alle persone che ci circondano, alla società, agli dèi, all’universo tutto. È ciò che chiamiamo male a dominare il mondo a esserne la sua vera natura a costituirne la sostanza. Senza il male il mondo crollerebbe in pochi secondi. Occorre rendersi conto di questa realtà in uno slancio liberatorio e intellettualmente sano. Occorre ribellarsi al fascismo del politicamente corretto.
D’altronde, se non fosse così, non si capirebbe come tutte le mitologie e le religioni del mondo, nessuna esclusa, parlino dell’uomo come di un essere catapultato in un mondo dominato dalle avversità e dagli spiriti del male. L’uomo è sempre un essere decaduto.

Quanto c’è di autobiografico in La necessità del male?

La necessità del male è la mia autobiografia, nel senso più stretto del termine. Anche là dove qualcuno, sbagliando, potrebbe ritenere che io attinga al mondo del fantastico.

Qual è la cosa che ti dà più fastidio al mondo e quella che invece apprezzi maggiormente?

Il non voler vedere le cose per quelle che sono. Questa ostinazione vile a dare alle cose un nome diverso da quello che sono. Il non voler vedere in faccia la realtà. Non amo gli struzzi. Mi piacciono le persone come la Yourcenar, che voleva entrare nella morte a occhi aperti. Ho sempre avuto la netta sensazione che questo stato di cose servisse ai potenti per tenere sotto controllo i derelitti, per tenerli in un costante e permanente condizione di inadeguatezza.
Ciò che apprezzo maggiormente e che amo è il mondo infantile. Ma viviamo in un tempo in cui rischio il carcere se lo ripeto un’altra volta. Passo ore e ore, intere giornate, a giocare con Riccardo un nipotino che amo oltre ogni cosa. 

Ti è mai capitato di vivere la sindrome della pagina bianca?

Mai. Appena apro la pagina bianca il mio problema è come arginare l’esondazione di una gigantesca diga che è in procinto di cedere. 

A quando la seconda “puntata” di La necessità del male?

Credo entro quest’anno. Sono in ritardo solo per la revisione e la pubblicazione. Perché, come nel caso del primo volume, lui improvvisamente è arrivato e io l’ho trascritto. L’ho dovuto trascurare per un po’ preso dalla traduzione e dalla cura di un importante lavoro etnologico in quattro volumi.

Cosa consiglieresti a chi vuole diventare scrittore? 

Di lasciar perdere. Scrittori lo si è per elezione divina, non lo si diventa. Occorre essere degli sciamani in contatto con il mondo invisibile. E infatti gli scrittori sono pochi: Omero, Shakespeare, Proust, Eliot (ci metto anche i poeti), Dante. Si contano sulla punta delle dita.
Se poi si vogliono scrivere dei libri, che è un’altra cosa, be’, credo che i consigli siano inutili, se non quello di non cedere ai gerghi del momento che dopo soli quattro cinque anni diventano ridicoli.

venerdì 14 gennaio 2022

Cronaca del Baltico in fiamme, la recensione del Sole 24 ore

 


LE LOTTE DEL ‘500 PER I MERCATI CON SBOCCO SUL MARE

Balthasar Russow

 

Il Sole 24 ore

Recensione di Armando Torno

 

Ivan, figlio di Vasilij III, quarto dei gran principi di Mosca, il 13 dicembre 1546 dinanzi al metropolita e ai bojari dichiarò di assumere il titolo di zar della Russia universa. Si sentiva il discendente dei romani imperatori e luogotenente di Dio. Nato nel 1530, morirà nel 1584; da quel momento diventa Ivan il Minaccioso (Groznyi), che in altri idiomi fu inteso come “Terribile”.

Si sarebbe potuto tradurre anche “Spaventoso”, ma quel “Terribile” si rivelò perfetto. In una lettera del 1577 al principe Andrej Kurbskij, lo zar scrive: «Sebbene i miei delitti siano più numerosi dei granelli della sabbia marina, pure spero nella divina grazia». Se si volessero conoscere alcuni dei suoi crimini, eccoli in un testo nella prima traduzione italiana. Si tratta della cinquecentesca Cronaca del Baltico in fiamme del pastore Balthasar Russow, vergata in basso tedesco e curata da Piero Bugiani. L’opera narra lo scontro tra russi, svedesi, polacchi-lituani e danesi; le pagine sembrano un campo di battaglia con avidi mercenari (non pochi sono scozzesi e calvinisti).


Un libro che parla della Guerra di Livonia, combattuta tra il 1558 e il 1583, nella regione baltica estesa tra la Lettonia e l’Estonia. Area di transito di popoli presto entrati in contrasto, questa terra fece il suo ingresso nella storia europea dal IX secolo, quando scandinavi, russi, lituani iniziarono a percorrerla. I tedeschi arrivarono nel XII secolo per evangelizzare (e conquistare).

Russow, secondo Bugiani, è un estone; sufficientemente equidistante da russi (considerati feroci) e tedeschi (maestri nell’opprimere). Le crudeltà ideate dalle schiere zariste evocano Ivan e si consumano a Wenden: «Diversi uomini prima li frustò, poi, feriti e sanguinanti, li gettò vivi nel fiume. A un borgomastro che ancora respirava fece estrarre il cuore, a un predicatore strappò la lingua dalla gola; i restanti vennero ammazzati tra inauditi martiri e sofferenze». Infine «accatastò in un unico mucchio i corpi degli uccisi, dandoli in pasto a uccelli, cani e bestie selvatiche». E le violenze su donne e bimbi a Novgorod? Tantissime, tanto che «il letto del fiume fu completamente ostruito dai cadaveri».

I tedeschi? Specialisti nelle punizioni corporali e rapaci con roba e denaro. «Quando un contadino e sua moglie morivano – scrive Russow – e lasciavano dei bambini, i figli venivano presi in custodia: rimanevano nudi, senza niente, presso il focolare dello junker oppure andavano a mendicare in città senza ereditare i beni paterni, mentre il padrone si appropriava di tutto ciò che i loro genitori avevano abbandonato». Che dire? Sono cinquecenteschi esempi di lotte per i mercati con lo sbocco sul mare.

 


venerdì 29 ottobre 2021

Come nasce un romanzo: “Non è un vento amico” di Vincenzo Zonno


Il 26 gennaio del 2015 arrivò in redazione la proposta di un romanzo che subito ci incuriosì. L’autore scriveva che era un “thriller ambientato nella Russia del 1800”. Un periodo storico “saturo di conquiste e avvenimenti cruenti”, in bilico tra fervori progressisti e governi reazionari, ancorati a tradizioni medioevali. “Il protagonista lotta, si innamora e soffre affrontando un mondo nel quale, scindere il vero dal falso è così difficile che l’intera vicenda potrebbe essere realmente accaduta a nostra insaputa.”

Dopo aver letto questa breve sinossi, risalii con lo sguardo al nome dell’autore: Vincenzo Zonno. Non che faccia la differenza, ma prima era un autore, poi aveva un nome, Vincenzo. In seguito ho scoperto che gli amici e, pare, addirittura i parenti, lo chiamano semplicemente “Zonno”, ma questa è un’altra storia.

All’epoca Vocifuoriscena aveva aperto i battenti da appena un anno, ed eravamo solo in due: Dario Giansanti e io. Fui io a leggere per prima Non è un vento amico, e mi colpì a tal punto da chiedere a Dario di darci almeno un’occhiata, prima di dare il nulla osta per la pubblicazione.
Mi affascinava la ricostruzione storica, ma soprattutto la verosimiglianza psicologica dei personaggi, e mi stupiva molto, addirittura tantissimo, che un brindisino cresciuto a pane, pomodori e olio extravergine di oliva, avesse avuto l’ardire di ambientare un romanzo nelle stesse scenografie di Tolstoj, Gogol’ e Dostoevskij.
Ammettiamolo, di fegato ce ne vuole proprio tanto!
Quando Zonno mi disse di conoscere poco o nulla i padri della letteratura russa, restai di stucco. Ma solo per un attimo. Mi spiego meglio: tante volte, quando si vuole emulare la prosa di uno scrittore famoso, si finisce inevitabilmente per produrre una brutta copia, che non interesserà mai a nessuno. Chi invece arriva “vergine” su un terreno coltivato da altri, forse può riuscire a individuare qualcosa di nuovo, di diverso, da far crescere su quel terreno. O perfino far notare che “l’imperatore è nudo”. 

Vincenzo Zonno

Dario alla fine lesse il romanzo dopo che avevo già detto di sì a Zonno. E, dopo che avevo suggerito qualche consiglio qua e là per migliorare le sfumature psicologiche dei personaggi, Dario propose alcuni aggiustamenti per adattare il romanzo alla realtà russa dell’epoca. Anche lui, come me, è cresciuto a pane e romanzoni russi, ma a differenza mia ha una conoscenza fin paurosa di dettagli e curiosità che i comuni mortali solo si sognano.
Quindi suggerì qualche notazione di cultura slava, introdusse particolari sugli usi e costumi del tempo dello zar e, soprattutto, approfondì quanto già conosceva sulle questioni teologiche e liturgiche dell’Europa orientale. Ricordo come fosse ieri il suo entusiasmo quando scoprì quanto fossero complesse le batterie di campane nelle chiese ortodosse, e sofisticato il modo di suonarle: potrei scommettere che gli riecheggiasse in cuore l’ultimo quadro dell’Andrej Rublëv di Tarkovskij.
Propose anche di dare una forma più realistica ai nomi dei personaggi, introducendo un sistema di patronimici, e uniformò le traslitterazioni dal russo (e dal polacco).

Gli rimase però il cruccio del nome del protagonista, che avrebbe voluto convertire in Jurij, ma che Zonno insisteva dovesse restare Georges.
I due, giunti ormai sul punto di battersi a duello per la questione (sembravano, credetemi, Puškin e d’Anthès sulle sponde del fiume Černaja!), decisero di rivolgersi all’indiscussa autorità del nostro maître à penser privato, Oliviero Canetti. Il professore, aspirando qualche boccata la pipa, diede ragione a Zonno, facendo notare che la borghesia russa del tempo usava francesizzare i nomi, e che uno Jurij, se voleva far bella figura in società, si sarebbe fatto chiamare da tutti Georges. Canetti ricordò come lo stesso protagonista di Guerra e pace viene sempre chiamato Pierre, e raramente Pëtr!
Zonno la ebbe dunque vinta, e il protagonista del suo romanzo poté tenere il nome di Georges. 

Canetti, in seguito, lesse il romanzo e ne fu folgorato. Scrisse anche un’interessante analisi interpretativa, parlando del romanzo come “metafora teologica”, analisi che, se vi interessa, è stata in seguito stampata in appendice alla seconda edizione di Non è un vento amico.
Zonno lesse con genuino interesse la recensione di Canetti, ma anche, sospetto, con malcelato divertimento, in quanto non riconosceva le sue intenzioni in nessuna delle interpretazioni del professore. In effetti non c’erano i classici russi alle spalle di Zonno, ma una visione assai più personale. La sua non era la Russia borghese di Tolstoj, delle anime morte di Gogol’ o dei demoni di Dostoevskij, ma un mondo i cui confini, lungi dall’identificarsi con quelli geografici, sono quelli che separano il giorno dalla notte, la superficie della ragione dagli abissi dell’inconscio.
Della Russia, Zonno aveva preso gli elementi disturbanti, i complotti, gli starcy, le sette religiose, i gruppuscoli anarchici, al fine di costruire una vicenda sospesa su un confine tra progressismo e fanatismo, tra ragione e follia.
Più che le implacabili necessità della storia che sorreggono l’impalcatura di Guerra e pace, viene in mente, avanzando tra le acquitrinose pagine di Zonno, lo sconsolato verso di Fëdor I. Tjutčev, “Con la mente non si può capire la Russia”.

venerdì 15 ottobre 2021

Vincenzo Zonno: gli alberi vivono più di noi


Vincenzo Zonno è un uomo dagli interessi più disparati: ha un passato come cantante e musicista, nonché di ballerino e coreografo di danza classica e contemporanea, passioni a cui è poi subentrata quella ancor viva per la scultura del legno e la liuteria.
È anche molto interessato alla fisica – forse il campo che lo appassiona maggiormente – ma il suo percorso ha virato decisamente verso il mondo dell’espressione artistica, lasciando l’indagine sulle leggi che governano l’universo in una sorta di limbo.

Scultura di Vincenzo Zonno

Vincenzo, qual è la cosa che più ti dà fastidio al mondo? 

Odio le corporazioni, di qualsiasi tipo, dalle società mafiose fino alle associazioni cattoliche. Non sopporto i gruppi, che si uniscono per vari motivi, ma che poi finiscono ad avere come unico obbiettivo tutelare sé stesse e sé stessi. Se fai parte del gruppo, il gruppo ti aiuterà, ti spingerà, farà di tutto affinché tu possa passare avanti anche a chi lo merita più di te. Credo che le corporazioni siano il male assoluto e che l’uomo tenda per natura a fare gruppo a discapito del bene comune.
“L’ingresso è consentito soltanto ai soci”, “La famiglia prima di tutto”, “Dobbiamo farlo vincere perché è dei nostri…”
Licio Gelli con i suoi fratelli, come il signor X e il suo club del libro, tutti uguali. E io non li sopporto.

E quella che apprezzi di più?

La natura, in particolare gli alberi. Gli alberi sono rappresentativi come nient’altro della vita. Poi vivono più di me e ciò mi affascina oltremodo.
L’uomo passa la vita a cercare di procurarsi l’immortalità, una cosa impossibile, e costruire, dalla notorietà alle cose materiali fino allo stesso accumulo di denaro, è un modo per ottenere una sorta di immortalità.
Gli alberi vivono più di noi uomini.
Non cercano l’immortalità ma vivono più di noi.
Hanno già vinto, e con indubbia classe. 

Come mai hai deciso di scrivere Non è un vento amico e per quale ragione un romanzo con ambientazione storica?

Non c’è un motivo particolare. Avevo un’idea che è divenuta un romanzo, l’ho vissuto e poi l’ho scritto. L’ambientazione storica è un colore che mi ha restituito l’energia perché la vicenda continuasse a evolversi.

La scelta della Russia di metà Ottocento sembra piuttosto curiosa, visto che sei un autore italiano. Cosa ti affascina della patria della vodka e di quel momento storico?

Ho letto molto sulle vicende della Russia, di quello come di altri periodi. Ho letto molto anche sulla Siberia, sull’Asia Centrale e tantissimo sul Tibet. Il romanzo prende una prima ispirazione dai fatti legati alle mogli dei decabristi che decidevano di seguire i propri mariti deportati in Siberia, poi si evolve attingendo alle reali e grottesche vicende accadute nello stesso periodo in quelle come in altre parti del mondo.

Il tuo romanzo si potrebbe collocare in più categorie: storico, noir, introspettivo. Tu cosa ne pensi?

Non saprei, scrivo un romanzo senza pormi il cruccio di dargli un genere. Non è da me etichettare le cose. È come quando suono o scrivo un brano musicale, per me è tutto rock oppure non lo è. Bisognerebbe capire se Non è un vento amico è rock oppure non lo è. Non so neanche questo.

Vincenzo Zonno

Che difficoltà hai incontrato nella ricostruzione dei dettagli storici e nell’elaborare la struttura?

La ricostruzione non è stata difficile perché tutto ciò che è descritto nel romanzo apparteneva già al mio bagaglio di conoscenze. Ho scritto quello che sapevo e non ho scritto ciò che ignoro. Mentre le supposizioni pericolose o le chiare invenzioni fantastiche erano nate nella mia testa già mentre apprendevo le vicende storiche, molto prima che nascesse la sola idea del romanzo: l’ipotesi che la prematura incoronazione dello zar fosse stata creata a tavolino per smuovere il movimento decabrista con l’obbiettivo portarlo allo scoperto e abbatterlo, per esempio.
Per i dettagli, quelli più ricercati, mi è venuto incontro l’editore Dario Giansanti che è persona molto più preparata di me in special modo sulla Russia e le sue diavolerie.

In quale dei personaggi di Non è un vento amico ti identifichi maggiormente e perché?

Il conte Bogdanov. Sì, è un personaggio molto ambiguo, ma l'ho costruito sulla mia persona. Non c’è un valido motivo, in ogni mio romanzo sono presente e non è detto che sia il protagonista. A volte mi identifico in più personaggi, anche nella stessa vicenda.
Più facile rispondere che non mi identifico, sono volutamente io così come ho scelto di vedermi in quel momento.

Cosa significa, per te, avere successo come scrittore?

Te lo dirò quando e se avrò successo. Ho successo come essere umano in mezzo ai miei amici umani, e ciò è molto figo. 

Non è un vento amico è stato pubblicato nel 2015. Da allora hai scritto e/o pubblicato qualcos’altro?

Ho pubblicato altri tre romanzi.
Un altro romanzo storico, un apocrifo di Sherlock Holmes ambientato nella Russia pre-rivoluzione. Il periodo di Rasputin, per intendersi. Poi ho pubblicato un thriller psicologico, Caterina, la storia di una ragazzina al seguito di un piccolo circo che affronterà vicende terrifiche e surreali. Infine un romanzo visionario che non saprei descrivere: L’ultimo spettacolo, la storia di Harpo, un uomo davvero poco comune in un contesto distopico.
Non pubblico spesso, ma ho scritto tanto in passato. Ho molti manoscritti pronti che cedo soltanto quando si presentano delle occasioni.
Il mondo dell’editoria è difficile e molto ambiguo e non val la pena perderci l’intelletto, ché lo scrittore dovrebbe usare soltanto per inventare favole.

lunedì 4 ottobre 2021

Lettera di Panu Rajala a Nicola Rainò, traduttore di Timo Mukka


Panu Rajala, noto drammaturgo e uno tra i più apprezzati critici letterari in Finlandia, ha scritto una lettera a Nicola Rainò per felicitarsi della traduzione del romanzo L'urlo della terra di Timo K. Mukka da noi pubblicato. Vi riportiamo il testo nella traduzione italiana gentilmente realizzata da Marcello Ganassini.


Egregio Nicola Rainò,

Mi scuso per la spropositata tardività del mio messaggio, il tempo passa troppo in fretta. Timo Mukka è momentaneamente annegato nei miei trambusti estivi.

Già allora avevo riflettuto sulla collocazione di questo scrittore finlandese nel contesto attuale della letteratura europea. Mukka non ha mai sfondato i confini del suo paese come avrebbe meritato. La Sua traduzione de L’urlo della terra (Maa on syntinen laulu) costituisce al riguardo una corroborante eccezione, come un messaggio in bottiglia da mondi lontani. In forma cinematografica il romanzo ha spezzato molti confini, in patria e anche in parte all’estero, sebbene io consideri l’interpretazione di Rauni Mollberg improntata a un eccessivo realismo: nel film manca infatti lo spirito originale della ballata. Ne sono in parte responsabile: nel mio contributo alla sceneggiatura ricordo di avere difeso la poeticità del testo ma Mollberg era affascinato soprattutto dalla sua estetica più sanguigna.



Anche opere come Tabu o Paura della neve (Lumen pelko) si presterebbero egregiamente a essere accolte nell’immaginario dell’Europa meridionale e, forse, più a oriente. La carica sessuale ed etnografica dello scrittore lo legava alla realtà nordica natìa al punto che, per noi, era difficile individuare più vaste dimensioni. Ora che la Lapponia è diventata una molla del turismo internazionale, anche questo elemento potrebbe contribuire a far volare l’opera di Timo Mukka sulle proprie ali, nonostante ricordi perfettamente quanto lo scrittore detestasse la massificazione della Lapponia come meta di viaggio e la mercificazione della sua terra.



Tutto ciò sono semplici corollari, la cosa importante è che i lettori italiani possano finalmente conoscere L’urlo della terra. Sarebbe stimolante sapere quanto quest’opera verrà letta e apprezzata da voi. La Finlandia sembra stia gradualmente dimenticando Mukka, come accade per molti altri classici moderni. La ringrazio per il libro che mi accingo a esaminare, e per l’interesse che ha voluto rivolgere a un autore cui è toccata una dura sorte.

Panu Rajala