martedì 28 gennaio 2025

Vilmos Diószegi e lo sciamanismo ungherese

 


 

Nel 2023 abbiamo ricordato il centenario della nascita di Vilmos Diószegi (1923-1972), linguista, orientalista ed etnografo ungherese, che dedicò la propria vita allo studio dello sciamanismo siberiano e ugrofinnico, in particolare ungherese. In occasione di tale ricorrenza, la nostra casa editrice  pubblica l’edizione italiana della sua più importante opera dedicata allo sciamanismo ungherese A pogány magyarok hitvilága (1967) con il titolo La religione dei magiari pagani (http://www.vocifuoriscena.it/catalogo/titoli-la_religione_dei_magiari_pagani.html). Si tratta di una monografia finalizzata a ricostruire la Weltanschauung magiara anteriore allo Honfoglalás (“Occupazione della patria”, 896), e in particolare ad analizzare la figura del táltos, erede degli sciamani uralici, altaici e siberiani.


Diószegi Vilmos


La concezione sciamanica del mondo

Secondo le antiche credenze ungheresi il cosmo è tripartito in felső, középső e alsó világ (“mondo superiore, intermedio e inferiore”), tra loro congiunti dall’égigérő fa (albero che tocca il cielo”), ovvero l’axis mundi della mitologia ungherese. La peculiarità dell’albero cosmico ungherese consiste nella presenza di corpi celesti lungo il tronco, e di animali (teste di bovidi e cervidi) tra i rami, concezione sconosciuta agli indoeuropei, ma comune alla tradizione sciamanica uralica, altaica e siberiana. La presenza degli animali non costituisce un vezzo decorativo, ma trova la propria ragion d’essere nella concezione dell’anima duplice (“anima-respiro” e “anima-ombra”): attraverso la comparazione con il materiale altaico e siberiano, Diószegi spiega come le teste teriomorfe simboleggiano le anime dei rispettivi animali, la cui raffigurazione è volta a propiziarne la riproduzione.

Ai piedi dell’albero che tocca il cielo si stende il mondo inferiore, che nel folklore viene dipinto come il regno delle rane, delle lucertole e dei serpenti, descrizione presente nei resoconti relativi alle iniziazioni del táltos: prima di poter svolgere tale mansione, il neofita, nel corso di un sonno che si protrae ininterrottamente per più giorni, viene infatti rapito dagli spiriti e dai táltosok anziani e condotto nel mondo inferiore per ottenere la conoscenza. Anche in ambito sciamanico uralico e altaico alle radici dell’albero cosmico si trovano serpenti, rane, lucertole e pesci.

 

Il táltos: lo sciamano ungherese

L’attività del táltos è di ordine superiore, fin dalla nascita egli sa di essere destinato a tale ruolo. Da piccino si comporta in modo diverso rispetto ai coetanei, in quanto è irrequieto, solitario, si nutre prevalentemente di latte, e teme le nubi temporalesche. Con il progredire dell’età i sintomi patologici peggiorano e subentrano visioni, si manifestano esseri soprannaturali che lo rapiscono. Vana è la resistenza posta dal neofita e dai congiunti, perché se questi “malvagi” non riescono nel nel loro intento, il giovane viene storpiato. Anche presso i popoli uralici e altaici, se il candidato non accetta l’incarico di sciamano, diviene mentecatto, sciancato per il resto della vita, oppure viene ammazzato.

Secondo la credenza popolare ungherese, i bambini destinati a divenire creature soprannaturali vengono al mondo con i denti o undici dita. Prima di acquisire la conoscenza il futuro táltos si ammala: in seguito a violente percosse, il futuro táltos sprofonda nel sonno, “si nasconde”, pur continuando a respirare e il cuore a pulsare, e durante questo stato di catalessi ottiene la conoscenza. Presso i popoli limitrofi l’acquisizione di conoscenza da parte di operatori del magico equiparabili al táltos si discosta notevolmente, in quanto avviene “attivamente” , mentre nella tradizione magiara ha luogo in modo passivo”, poiché il táltos soltanto in seguito alla violenza perpetrata dalle creature soprannaturali sarà costretto ad accogliere tale ruolo.

Il “tormento” costituisce un tratto caratteristico anche dello sciamanismo: la “chiamata” del futuro sciamano ha luogo in concomitanza con il raggiungimento della maturità sessuale; il giovane sprofonda in un’acuta crisi nervosa accompagnata da attacchi isterici, visioni, che si protraggono per settimane, nel corso delle quali lo spirito protettore che lo ha scelto per tale ruolo, gli compare nel sonno, gli impone di accettare l’incarico e di accoglierlo come suo spirito adiutore.

Mentre il táltos giace esanime, il corpo sottostà allo spezzetttamento”, finalizzato a constatare la presenza di questo osso sovrannumerario, in assenza del quale il neofita non può aspirare a fungere da sciamano/táltos.

“Chiamata” e “smembramento” risultano tuttavia vani se il candidato táltos non riesce a portare a termine la scalata di un albero altissimo o di una scala a pioli assai perigliosa. Anche nel patrimonio fiabesco ungherese, l’eroe scala l’égigérő fa per liberare la principessa rapita dallo sárkány. A riuscire in tale impresa, è sempre un fanciullo, proprio come giovane è del pari il neofita che ottiene la conoscenza. Giunto sulla cima dell’albero, entra al servizio di una creatura sovrannaturale, e al termine del periodo di lavoro chiede come compenso il peggior ronzino della mandria, che egli tuttavia sa essere un táltos-ló (“cavallo-táltos”). Il cavallo-táltos simboleggia il tamburo dello sciamano magiaro, ovvero la sua cavalcatura”, termine tradizionalmente impiegato nello sciamanismo per denotare il tamburo. Anche i paraphernalia dello sciamano altaico vengono ricavati da un imponente albero sacro. Fintanto che il táltos non ne entra in possesso, il cavallo-táltos è un ronzino brutto, magro e sciancato. Dopo averlo lavato e strigliato, il cavallo-táltos si metamorfosa in un bel destriero dal manto dorato, il quale si pasce di brace ardente. Questo gruppo di credenze non trova corrispettivo presso i popoli limitrofi, pertanto costituisce una peculiarità ungherese.

Il tamburo-cavallo del táltos presenta numerosi tratti comuni con il tamburo della tradizione sciamanica, non solo in quanto a struttura (singolo fondo e pendagli) e funzione, ma anche per la concezione del tamburo come cavalcatura dello sciamano, e per il rituale della “resurrezione”. Il cavallo-táltos deve invero essere “resuscitato” prima di poter fungere da cavalcatura, pertanto viene lavato con acqua, nutrito con latte o carboni ardenti. Questa descrizione, presente anche nell’immaginario fiabesco magiaro, trova corrispondenza nella cerimonia di “resurrezione” del tamburo presso i popoli a credenza sciamanica: prima della “cavalcata”, ovvero della seduta sciamanica con il conseguente viaggio siderale, lo sciamano vivifica il proprio strumento aspergendolo con acqua e latte, e in particolare tenendolo al di sopra del fuoco: questa pratica è finalizzata a tendere la membrana in pelle per acuirne il rumore prodotto dalla percussione, così favorendo l’invocazione degli spiriti. Sopravvivenze di questo tamburo si riscontrano anche nei regösénekek (canti sciamanici della tradizione ungherese, cantati il 26 dicembre), e Gyula Sebestyén ipotizza che parimenti i regösök, che si reputano successori degli antichi sciamani, si servissero del tamburo dal singolo fondo. Dall’analisi delle filastrocche traspare che il tamburo, accostato al setaccio e al crivello, figura come strumento per divinare il futuro attraverso il tambureggiamento di chicchi di granturco, ma anche per operare guarigioni.

Peculiare risulta anche il costume del táltos che ha come tratto costante il copricapo provvisto di piume d’oca, di gallina o gallo, oppure di corna (di cervide e bovide). Questa credenza non si riscontra tra i popoli limitrofi, ma possiamo ritrovare il copricapo piumato o dotato di corna tra i popoli a credenza sciamanica, pertanto anche sotto questo aspetto la tradizione ungherese si rivela custode di una concezione invero atavica, che gradualmente è stata associata quasi esclusivamente alle streghe.

Quando cadono in trance l’anima dei táltosok inizia a vagabondare. L’estasi in ungherese è detta rejtezés, termine che letteralmente significa “nascondimento”: il táltos rimane infatti assopito, come morto, per un certo lasso temporale; dopodiché si desta ed è in grado di rispondere ai quesiti postigli. La kamlanie degli operatori del magico ungheresi si discosta da quella dei popoli limitrofi: si tratta di un’eredità di matrice sciamanica anteriore allo Honfoglalás. Questa ipotesi viene avvalorata anche dai dati linguistici, tanto più che il verbo révül/rejt è di origine ugrofinnica, e nello specifico ugrica. Il “nascondimento”, l’estasi e il “rapimento” del táltos sono analoghi a quanto si riscontra nello sciamanismo uralico e altaico. Corrispondenze si rintracciano anche in tratti di secondaria rilevanza, e Diószegi si focalizza in particolare sullo sbadiglio e sul calore collegati all’estasi: conformemente alla tradizione sciamanica, lo sbadiglio indica che lo sciamano/táltos è pronto ad accogliere dentro di sé lo spirito, la cui presenza è segnalata dall’aumento del calore corporeo dell’individuo in trance.

Per l’espletamento delle sue funzioni, il táltos assume sembianze teriomorfe, solitamente di tori dal pelame chiaro o scuro, più raramente di stalloni. Si dice che durante il “nascondimento” i táltosok mutano di aspetto per combattere contro un táltos antagonista, e tale scontro è accompagnato da burrasca e forte vento. Questa concezione risulta del tutto assente presso i popoli limitrofi, mentre nella tradizione sciamanica è nota la lotta in sembianze zoomorfe (toro, renna, cervo, stallone). Durante lo scontro il táltos non fa affidamento solo sulle proprie forze, ma chiede aiuto ai conscenti, i quali devono picchiare l’avversario con la forca, il badile, al fine di agevolare la vittoria del proprio táltos; del pari, anche gli sciamani chiedono alle persone di picchiare l’avversario servendosi della lancia o del rompighiaccio. Al termine dello scontro il táltos è esausto, e lo stesso si riscontra presso i popoli sciamanici, perché quanto accade all’anima-animale dell’incantatore si ripercuote sul possessore, sotto forma di eccessiva spossatezza, ferite, e finanche la morte. Dal confronto con la concezione sciamanica si evince anche il significato del teriomorfismo del táltos: l’aspetto assunto rappresenta la sua anima-animale che abbandona il corpo nel corso della kamlanie, pertanto i danni da essa subiti, si ripercuotono sul possessore.




Durante il sonno conseguente al “nascondimento”, il táltos canta, e del pari il rituale di guarigione della “donna sapiente” è accompagnato dalla preghiera e dal canto. Questa tipologia di canto risale all’epoca pagana e sue sopravvivenze sono conservate nei canti popolari associati a determinati rituali (termine del digiuno quaresimale, periodo natalizio). Tutti questi canti sono accomunati dall’interiezione “haj”, “hó”, che contribuisce a formare il verso magico magiaro. Ad attirare l’attenzione del nostro ricercatore è soprattutto il verso «haj regö rejtem» (“ehi, ti incanto con il canto”), la cui semantica originaria risulta oggi del tutto oscurata. Secondo le numerose interpretazioni, questo verso descrive l’azione attribuita agli sciamani d’epoca pagana, ovvero quella di cadere in estasi e operare incanti cantando. Attraverso il confronto con i canti sciamanici dei popoli uralici e altaici si può desumere che questo verso costituisce un’espressione con cui invocare gli spiriti: anche lo sciamano ricorre a peculiari interiezioni per farli giungere a sé.

Riprendendo le parole dell’autore stesso, possiamo concludere che lo sciamanesimo siberiano e ungherese sono due ingranaggi che si incastrano a perfezione, la cui disamina comparata consente di rintracciare per le credenze magiare esatti corrispettivi nella Weltanschauung sciamanica. Si può allora constatare che la cultura popolare ungherese presenta uno strato molto arcaico che affonda le radici nello sciamanismo.

 

 

Per maggiori informazioni sul libro:

Diószegi Vilmos, La religione dei magiari pagani, a cura di Elisa Zanchetta, Vocifuoriscena. Viterbo 2023.

(Link: http://www.vocifuoriscena.it/catalogo/titoli-la_religione_dei_magiari_pagani.html)

 

(di Elisa Zanchetta)

 


Di saga in saga. Parte seconda






Gull-Þóris saga

(“Saga di Þórir-oro”), detta anche Þorskfirðinga saga (“Saga degli abitanti del Þorskafjǫrðr”) è una islandingasaga del xiv sec., basata su un’edizione del xiii sec. andata perduta, menzionata da Sturla Þórðarson nella sua versione della Landnámabók (il “Libro dell’insediamento [in Islanda]”). La saga, conservata solo parzialmente (i capitoli 11 e 12 mancano in tutti i manoscritti), riguarda inizialmente i colonizzatori del Þorskafjǫrðr (Islanda occidentale), nove figli dei quali, su iniziativa di Þórir, stringono il legame di fratellanza di sangue [Il norreno fóstbróðir indica l’instaurazione di un legame fraterno tra non consanguinei, la cui solidarietà è sancita da un particolare rituale] e partono per un avventuroso viaggio verso la Norvegia. Qui aprono un tumulo sepolcrale per cercare tesori nascosti, ma il suo abitante, un troll di nome Agnarr, o propriamente uno zio di Þórir, li distoglie dal loro intento e consegna loro doni magici. Grazie a essi e al coraggio di Þórir, conquistano un tesoro custodito da un drago in Norvegia settentrionale; Þórir lo porta con sé in Islanda servendosi di ceste. A causa della sua avidità rimane coinvolto in una serie di faide che costituiscono il climax della vicenda. La prima parte della saga è più affine alle più recenti fornaldarsǫgur d’impronta fiabesca anziché alle islandingasǫgur e anche la seconda parte consta di lotte abbastanza stereotipate e senza motivazione psicologica. Le avventure di Gull-Þórir vengono brevemente menzionate nella Hálfdanar saga Eysteinssonar (“Saga di Hálfdan figlio di Eysteinn”).

 

Gríms saga loðinkinna

(“Saga di Grímr guancia-irsuta”), breve fornaldarsaga risalente al xiv sec., che consiste essenzialmente nella ricerca, da parte di Grímr, figlio dell’eroe della Ketils saga hængs (“Saga di Ketill salmone”), della moglie Lopthæna che gli era stata rapita. In verità la donna era stata tramutata dalla matrigna in una donna-troll che Grímr riuscirà a salvare. La saga si conclude con una dettagliata genealogia dei discendenti di Grímr, accennando anche al figlio di quest’ultimo, Ǫrvar-Oddr (“Oddr l’arciere”), eroe dell’omonima saga.


Áns saga bogsveigis

(“Saga di Ánn il curvatore di archi”) è una fornaldasaga risalente al xv secolo relativa a un norvegese originario di Hrafnista, il quale entra in combutta con il re Ingjaldr e pertanto viene bandito; infine riesce tuttavia a vendicarsi e a trascorrere in pace la vecchiaia. La saga presenta solo alcuni tratti tipici delle fornaldarsǫgur e per la vicenda realistica potrebbe essere annoverata piuttosto tra le íslandingasǫgur se non fosse per l’ambientazione e dalla successione temporale degli accadimenti. Una versione più datata di questo materiale è già presente dei Gesta Danorum (VI, 4) in merito ad Ano sagittarius. La popolarità della saga che contiene componimenti recenti, taluni anche di scherno e di contenuto amoroso, traspare non solo dall’elevato numero di manoscritti in cui è tràdita, ma anche dalle Áns rímur bogsveigis sorte in un secondo momento e basate su una versione più ampia della saga andata perduta; la redazione di questa rielaborazione in versi risalirebbe alla prima metà del xvi secolo e sarebbe ascritta al poeta islandese Sigurður blindur (“il cieco”, ca. 1470-1545).

 

Bandamanna saga

(“Saga dei confederati”). Una delle più brevi e migliori fornaldarsǫgur che, come dice il titolo, ha per protagonisti otto avidi goðar che si alleno per incrementare ancor di più le loro ricchezze impiegando mezzi sospetti. Oddr Ófeigsson, l’eroe della saga, ha commesso un errore formale in un processo contro un assassino e suo padre Ófeig riesce a porvi rimedio soltanto ricorrendo alla corruzione, in modo che l’omicida venga condannato. In seguito gli otto goðar si confederano e accusano Oddr di corruzione, allo scopo di farlo bandire e di impossessarsi del suo patrimonio. Tuttavia Ófeigr ne corrompe due e gli altri nel processo devono corrispondere solamente una cifra ridicola e diventano lo zimbello di tutti. Il tono ironico e umoristico della saga sembra essere stato influenzato dai fabliau europei anziché dai carmi eddici di contenuto mitologico come la Lokasenna; è tràdita in due versioni originatesi da un unico originale andato perduto, probabilmente composto attorno alla metà del xiii secolo. Oddr Ófeigsson è il protagonista anche dell’Odds þáttr Ófeigssonar (il “Racconto di Oddr Ófeigsson”) e figura anche nello Hemings þáttr (il “Racconto di Hemingr”).




 

Háldanar saga Eysteinssonar

Hálfdanar saga Eysteinssonar (“Saga di Hálfdan figlio di Eysteinn”). Fornaldarsaga risalente agli inizi del xiv secolo e una delle migliori narrazioni rientranti nel novero delle saghe vichinghe dai tratti fiabeschi. L’autore conosceva e ha impiegato opere storiche come la Landnámabók (“Libro dell’insediamento [in Islanda]”), come pure la Ynglinga saga (“Saga degli Ynglingar”) e altre fornaldarsǫgur, come la Ragnars saga loðbrókar (“Saga di Ragnarr brache-villose”) e la Vǫlsunga saga (“Saga dei Vǫlsungar”), ma sussitono anche stretti contatti tra la presente saga e la Egils saga einhenda (“Saga di Egill il monco”). La trama consiste essenzialmente nel racconto di una richiesta di matrimonio con numerose avventure bellicose. La vicenda si protrae e si complica perché la principessa Ingigerðr corteggiata dall’eroe nel momento cruciale si scambia con la sua cameriera, così che il malvagio vichingo Úlfkell sposa la falsa principessa e Hálfdan infine si congiunge con quella vera. Nonostante i motivi stereotipici la saga è strutturata con momenti di suspence e risulta di piacevole lettura.

  

Hálfs saga ok Hálfsrekka

(Saga di re Hálfr e dei suoi campioni”). Fornaldarsaga sorta nel tardo xiii secolo e conservata in circa quaranta testimoni. Era in qualche forma già nota a Sturla Þórðarson (1214-1284), il quale ripropone un episodio nella sua versione della Landnámabók. La saga, dalla trama assai disconnessa, si svolge in Norvegia e attinge soprattutto alle saghe eroiche citando anche antichi canti eroici. L’antica datazione della vicenda è dimostrata dal fatto che la kenning per designare il fuoco, Hálfs bani (“uccisore di Hálfr”), è impiegata nell’Ynglingatal composto nel x secolo. Il filone principale della storia narra di re Hálfr che, con i suoi eroi, dopo diciotto anni di spedizioni vichinghe ritorna nel suo regno e, nonostante un sogno premonitore, viene ingannato da re Ásmundr e bruciato nella sua sala. Gli unici due superstiti della susseguente strage compongono canti sull’accaduto. La saga termina con la partenza del nipote di re Hálfr per l’Islanda.

 

Harðar saga ok Hólmverja

(“Saga di Hǫrðr e dei difensori dell’isola”). Fornaldarsaga del xiv secolo relativa alla vicenda astorica di Hǫrðr Grímkelsson, orfano di madre e cresciuto senza l’amore del padre. All’età di quindici anni lascia l’Islanda assieme ai malvagi fratelli di sangue Geir e Helgi e trascorre quindici anni all’estero. Acquista fama di eroe e sposa la figlia di uno jarl del Götaland. Ritornato in Islanda, le sue sorti peggiorano: il fratello di sangue Helgi uccide un ragazzo innocente e Hǫrðr, temendo ripercussioni, ne ammazza anche il padre, così i due vengono proscritti. Tuttavia non lasciano l’Islanda, ma radunano attorno a sé una schiera di delinquenti e stabiliscono la propria base su un isolotto affacciato alla costa, da dove intraprendono razzie (e da qui deriva il titolo della saga). Infine si attirano lo sdegno di tutti i contadini dei dintorni, compresi i congiunti di Hǫrðr. La masnada viene attirata fuori dalla base e tutti i componenti vengono uccisi.

Al termine della saga si trova un rimando a Styrmir inn fróði (“il saggio”), quale informatore sugli accadimenti della vita di Hǫrðr. Si è pertanto supposto che Styrmir sia l’autore di questa saga e che coincida con la Harðar saga Grímkelssonar (“Saga di Hǫrðr figlio di Grímkell”), menzionata da Sturla Þórðarson nella sua edizione della Landnámabók; di questa versione risalente al xiii secolo è conservato un singolo foglio.


Hávarðar saga Ísfirðings

(“Saga di Hávarðr di Ísafjǫrd”). Saga degli islandesi ben composta ma prevalentemente frutto d’invenzione, relativa a un padre che si vendica dell’assassinio del figlio. L’azione si svolge nel x secolo in Islanda occidentale e ricorda il materiale della Hrafnkels saga Freysgoða (“Saga di Hrafnkell goði del dio Freyr”): un ricco capo (Þorbjǫrn) fa pressione sui suoi vicini; uno di questi, Hávarðr, ha un figlio di nome Óláfr che lavora come pastore e viene ammazzato da Þorbjǫrn. Il vecchio Hávarðr ha un crollo, ma, spronato dalla consorte, con l’aiuto di amici e congiunti, riesce a vendicarsi su Þorbjǫrn e i suoi.

Questa saga sarebbe stata composta attorno al 1330, ma si basa su una più antica versione andata perduta, che Sturla Þórðarson impiegò nella sua Landnámabók e che intitolò Þorbjarnar saga ok Hávarðar (“Saga di Þorbjǫrn e Hávarðr”). Nella saga sono tràdite anche quattordici lausavísur del protagonista, tra cui due alludono chiaramente al Sonatorrek di Egill Skallagrímsson e una alla strofa di un componimento dello jarl Rǫgnvald; in parte queste strofe sono conservate in pessimo stato, tanto che si pensa siano originali e vadano datate all’xi secolo.


Heiðarvíga saga

(“Saga della battaglia nella brughiera”). Nota anche come Víga-Styrs saga dal nome dell’eroe della prima parte, è generalmente ritenuta la più antica saga degli islandesi. Fu presumibilmente composta attorno al 1200, forse a Þingeyrar, in prossimità del luogo di residenza dei principali protagonisti dalla saga. Le vicende si svolgono nel primo quarto dell’xi sec.

Rispetto alle altre íslendingasǫgur, la Heiðarvíga saga è redatta in una prosa peggiore ed è stilisticamente più semplice. La vicenda si riparte in due sezioni tra loro non saldamente connesse: la prima tratta del violento Víga-Styrr che infine cade vittima di un giovane vendicatore, il quale viene portato in salvo da alcuni goðar a Borgarfjord. Il genero di Víga-Styrr, il goði Snorri, guida una spedizione punitiva e uccide uno di questi goðar; su questa parte della saga si basa la Eyrbyggja saga (“Saga degli uomini di Eyr”) che adduce espressamente la Heiðarvíga saga come fonte. La seconda parte tratta prevalentemente delle faide scaturite dalla vendetta, le quali volgono a termine nella famosa battaglia nella brughiera di Tvídægra.

I primi quindici capitoli del manoscritto pergamenaceo perirono in un incendio nel 1728 e ci sono noti unicamente da una sintesi datata 1730; i restanti ventotto capitoli sono conservati nel manoscritto originale risalente alla metà del xiii sec.

 

Gǫngu-Hrólfs saga

“Saga di Hrólfr-appiedato”. Corposa fornaldarsaga composta agli inizi del xiv sec. e che presenta tutti gli elementi delle recenti opere rientranti in questo genere: una trama avventurosa, in parte fantastica, ambientazione sempre diversa che coinvolge tutta l’Europa e un eroe quasi sovrumano. Hrólfr, troppo grande per poter cavalcare – da qui il suo appellativo -, viene identificato con il personaggio storico di Rollone, il quale conquistò la Normandia e nel 911 ne divenne il primo principe. Non si ha tuttavia alcun riguardo ai fatti storici e la trama non ha nulla a che vedere con la storia di Rollone.

Dopo una concisa introduzione, si narra di Hrólfr che promette allo jarl Þorgnýr dello Jutland di riuscire a procurargli la mano della figlia di re Hreggvid di Russia. La maggior parte della saga è pertanto dedicata all’avventuroso viaggio di Hrólfr per ottenere la fanciulla desiderata dallo jarl (capp. 12-27). La principessa, dopo aver sottoposto Hrólfr a una serie di prove, viene condotta dallo jarl, ma l’eroe deve nuovamente mettersi per via, al fine di vendicare il padre; riesce nel suo intento dopo una battaglia di tre giorni la cui descrizione rientra tra i più lunghi e fantasiosi resoconti di guerra contenuti nelle saghe (capp. 30-33). L’ultima parte della saga narra del viaggio di Hrólfr per conquistare l’Inghilterra; la descrizione del paese e della Danimarca è arricchita con dati geografici tratti dalla Knýtlinga saga.

Sebbene da un punto di vista odierno la saga vada incasellata nella letteratura d’intrattenimento, il piacere dell’autore nel presentare l’argomento, la trama varia e carica di suspence e i personaggi sapientemente scelti, concorrono a creare un’opera davvero piacevole.

 


(di Elisa Zanchetta)



martedì 7 gennaio 2025

Di saga in saga. Parte prima

 


Con oggi prende avvio una nuova rubrica intitolata “Di saga in saga”. L’idea mi è venuta durante uno dei miei viaggi di ritorno da Padova, dopo aver trascorso ore intense di studio e ricerca nella biblioteca del Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari. Il materiale che vi proporrò andrà a formare il glossario che sto stilando per accompagnare i volumi della Religione degli antichi germani di Jan de Vries, ma che per necessità di condividere la mia passione, ho deciso di ridurre e trasformare in post, dapprima caricati sulle nostre piattaforme social, e da oggi disponibili in blocchi più corposi anche nel nostro blog.

Dopo anni mi sono riappropriata del mio “primo amore”, la letteratura e la lingua norrena, e per me significa ritornare in un cantuccio della mia anima che era rimasto chiuso da molto tempo (forse per paura di non farcela, forse per le necessità della vita), ma che ora si è dischiuso, facendomi respirare aria fresca, leggera. Quindi, di comune accordo con l’editore Dario Giansanti, in questa rubrica, vi presenterò le saghe ancora poco conosciute, non tradotte in italiano, in cui mi imbatto quotidianamente quando traduco e faccio ricerca. Saranno post brevi, che mirano a incasellare la saga dal punto di vista spazio-temporale, a proporre una sinossi e a indicare i tratti salienti. Se qualcuno necessitasse dei riferimenti bibliografici, non esiti a scriverlo nei commenti. La bibliografia viene omessa per necessità “social”.

Commenti, osservazioni, correzioni sono accolti a braccia aperte. Amo il confronto perché mi aiuta a crescere e migliorarmi, perciò mi auguro che questa rubrica possa favorire un dialogo costruttivo.

Spero che questo piccolo contributo alla divulgazione della cultura e letteratura nordica possa essere d’aiuto o, per lo meno, possa farvi compagnia.


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Fornaldarsǫgur

Fornaldarsǫgur (sing. fornaldarsaga, “saghe del tempo antico”), dette anche fornaldarsǫgur norðrlanda (“saghe del tempo antico delle terre del Nord”) e “saghe leggendarie”, fanno riferimento a un genere letterario in prosa dominante nel XIV nel panorama letterario islandese. La designazione fornaldarsǫgur venne coniata dal filologo danese Carl Christian Rafn (1795-1864) che tra il 1829 e 1830 raccolse le saghe germaniche risalenti a un’epoca anteriore alla colonizzazione dell’Islanda e all’introduzione del cristianesimo nelle contrade nordiche e che attingevano a materiale eroico. Il “tempo antico” copre un arco temporale molto ampio che si estende all’incirca dal V al X secolo, e all’interno del quale si possono discernere due distinte “età eroiche”, ovvero quella delle grandi migrazioni (375-568) e l’epoca vichinga. Per la disomogeneità delle saghe, alcuni studiosi hanno ulteriormente suddiviso questo sottogenere in “saghe eroiche”, “saghe vichinghe” e “saghe d’avventura”, o più genericamente in saghe di tradizione eroica e saghe d’invenzione. Esse intrecciano il nudo realismo con elementi magici, accadimenti fantastici, arricchendolo di creature sovrannaturali e di una moltitudine di mondi altri.


Ála flekks saga

(“Saga di Áli flekkr”). Fornaldarsaga di contenuto fiabesco sorta attorno al 1400.

Dopo la nascita, Áli viene abbandonato, allevato da schiavi e infine ripreso dai genitori. Come predetto dal padre prima della nascita, Áli ha una vita difficile e fin dall’infanzia entra costantemente in conflitto con i troll, che rendono difficoltosa la sua esistenza con ricorrenti maledizioni (álǫg, sing. álag). Anche quando riesce a separarsi dalla donna-troll chiamata Nótt (“Notte”), che una di queste maledizioni gli aveva assegnato quale consorte, e a sposarsi con la bellicosa principessa Þornbjǫrg, a causa di una nuova maledizione, durante la prima notte di nozze si tramuta in úlfheðinn (plurale úlfheðnar; “uomo-lupo”, letteralmente “casacca di lupo”, laddove heðinn identifica un corto capo di vestiario senza maniche, ma fornito di cappuccio in pelo). Solo la madre adottiva riesce a liberarlo dall’incantesimo e, con l’aiuto dell’amichevole donna-troll chiamata Hlaðgerðr, figlia di Nótt, riesce infine a portare a termine tutte le avventure.

Il massiccio ricordo al motivo della maledizione e l’episodio della licantropia fanno di questa saga una delle più note di questo genere.

 

Bárðar saga Snæfellsáss

(“Saga di Bárðr, lo spirito benigno del monte Snæfell”). Si tratta solo formalmente di una saga degli islandesi, poiché la vicenda si svolge prevalentemente in Islanda, ma l’eroe non è umano, bensì un lanvættr, una sorta di álfr o spirito benigno, e la saga presenta anche altri elementi soprannaturali. Bárðr è il figlio del re gigante Dumbr del mar Glaciale Artico e figlio adottivo del re Dofri di Dofrafjall, parimenti un gigante, di cui sposa la figlia. Bárðr migra in Islanda e si stabilisce a Snæfellsness, da dove conduce la figlia Helga su un lastrone di ghiaccio fino alla Groenlandia; qui la fanciulla incontra Miðfjarðar-Skeggi che giace con lei e la riporta in Islanda. Poiché lui è già coniugato, la fanciulla torna dal padre e attraversa inqueita l’isola dormendo in forre. Bárðr successivamente lascia la propria masseria e dimora nel ghiacciaio Snæfellsjǫkull da cui corre in aiuto di coloro che sono minacciati da giganti o troll.

La seconda parte della saga viene detta anche Gests saga Bárðarsonar, perché riguarda prevalentemente il figlio Gestr che Bárðr aveva avuto con la figlia di Miðfjarðar-Skeggi.

Questa saga, composta presumibilmente attorno al 1350, presenta motivi comuni a un’altra saga fantastica (Gull-Þóris saga) e a recenti fornaldarsǫgur. Si baserebbe su narrazioni e credenze popolari relative a un álfr di Snæfell, che a partire dalle genealogie contenute nella Landnámabók e dai motivi delle fornaldarsǫgur sarebbero state rielaborate per dare vita a tale racconto.

 

Víga-Glúms saga

(“Saga di Glúmr-sanguinario”). Significativa íslendingasaga sorta nella metà del xiii sec. e che si svolge nel ix sec. nell’Eyjafjǫrð (Islanda settentrionale), fatta eccezione per due episodi ambienti in Norvegia.

Il capitolo introduttivo riguarda Eyjólfr, padre del protagonista, che in Norvegia compie azioni eroiche e poi in Islanda acquisisce l’autorità di góði del padre.

Glúmr è il tipico eroe kolbítr (“cenerentolo”; espressione diffusa per indicare un giovane pigro che siede sempre accanto al focolare) che, all’età di quindici anni, durante un viaggio per raggiungere il nonno in Norvegia, rivela la sua indole eroica, uccidendo un berserkr. In Islanda riesce a proteggere la madre dai partenti avidi, ammazzandone uno e scacciando gli altri. Grazie a lotte e conoscenze giuridiche, Glúmr si afferma e per quarant’anni rimane l’uomo più potente del distretto. Riporta la vittoria nn molte sanguinose faide, ma deve fuggire a causa di inganni e giuramenti fasulli, finché viene infine condannato e messo al bando. Anni dopo, Glúmr cerca invano di vendicarsi dei suoi nemici e infine, prima della cristianizzazione dell’Islanda, si converte alla nuova fede, morendo subito dopo.

La saga, intercalata da strofe composte dal protagonista, dovrebbe basarsi su tradizioni orali e taluni episodi sono noti anche da altre saghe (Reykdœla saga, Valla-Ljóts saga).

 

Fóstbrœðra saga

(“Saga dei fratelli giurati”). Interessante íslendingasaga conservata in una serie di manoscritti tra loro considerevolmente diversi, in parte anche come sezione della Óláfs saga helga. A causa di questa intricata tradizione, sussistono divergenze di datazione, per cui al principio si datava il testo all’inizio, più di recente si tende piuttosto a incasellarlo alla fine del xiii sec.

La narrazione si svolge in Islanda occidentale, Norvegia e Groenlandia agli inizi dell’xi sec. e riguarda due amici che stringono il vincolo della fratellanza di sangue: il bellicoso e forte Þorgeirr e il poeta e donnaiolo Þormóðr. Già a quindici anni Þorgeirr vendica il padre, ma si tratta sono dell’inizio di una lunga serie di omicidi. Nella loro prima giovinezza, i due allestiscono un vascello e depradano le coste dell’Islanda occidentale, durante la quale attività uccidono anche contadini innocenti e per tale ragione Þorgeirr viene infine bandito dal paese; ma prima di ciò desidera sfidare a duello il “fratello di sangue” per constatare chi dei due è il miglior combattente. Þormóðr si rifiuta, e si separano senza sapere che non si rivedranno mai più.

Þorgeirr raggiunge la Norvegia dove entra nel séguito di re Óláfr inn helgi, a fianco del quale partecipa ad alcune spedizioni militari. Anni dopo, sulla rotta del ritorno, viene ucciso da un groenlandese. Þormóðr resta in Islanda e inizia una relazione con una donna esperta di magia, finché questa mette in atto misure contro di lui ed è costretto a rivolgere le proprie attenzioni a una fanciulla chiamata Kolbrún, per la quale compone una poesia d’amore, ricevendo di conseguenza l’appellativo kolbrúnarskáld. Quando apprende della morte di Þorgeirr, raggiunge la Norvegia ed entra anch’egli nel séguito di Óláfr inn helgi. Si reca in Groenlandia e riesce a vendicare l’amico. Tornato in Norvegia, partecipa con il sovrano alla battaglia di Stiklarstaðir (1030) dove cadono entrambi.

La Fóstbrœðra saga, nonostante la suspence, è strutturata in maniera meno rigida rispetto ad altre íslendingasǫgur, ed è piuttosto composta da episodi.

 

Hallfreðar saga vandræðaskálds

(Saga di Hallfreðr poeta turbolento”). Una delle più antiche íslendingasǫgur relativa alla biografia di Hallfreðr Óttarson vandræðaskáld. In due corpose sezioni tratta sopratutto la sua storia d’amore con Kolfinna e in seguito il suo matrimonio con Gríss e il rapporto con il re Óláfr Tryggvason che lo converte al cristianesimo, non senza iniziali difficoltà che hanno dato adito al soprannome di “poeta turbolento”.

Questa saga, redatta nel miglior stile del suo genere, contiene anche numerose strofe autobiografiche. Composta attorno al 1220, è conservata in numerose versioni, tra cui il testo preservato nella Mǫðruvallabók (Libro di Mǫðruvellir [Islanda settentrionale]”) è sì completo, ma notevolmente abbreviato, mentre la versione presente della Óláfs saga Tryggvasonar in mesta (La grande saga di Óláfr Traggvason”), contenuta nella Flateyjarbók, è più dettagliata, seppur incompleta.

 

Bjarnar saga hítdœlakappa

(Saga di Bjǫrn, campione dei valligiani di Hítardalr”). Íslendingasaga che essenzialmente contiene i medesimi elementi narrativi della Gunnlaugs saga ǫrmstungu (Saga di Gunnlaugr lingua di serpente”).

Bjǫrn è un giovane scaldo islandese che va all’estero lasciando che la moglie lo attenda per tre anni. In Norvegia incontra un altro scaldo, Þórðr, il quale ritorna in Islanda prima di lui e diffonde la notizia della morte di Bjǫrn, sposandone così la presunta vedova. Frattanto Bjǫrn, ignaro dei fatti, acquisisce fama durante battaglie in Russia e Francia, meritandosi l’appellativo di hítdœlakappa (campione dei valligiani di Hítardalr”). Ritornato in Islanda, Bjǫrn dimora per un periodo presso Þórðr e la moglie, ma poi l’ostilità tra i due uomini prorompe, terminando con la morte di Bjǫrn.

La saga sarebbe stata composta attorno al 1220 e viene menzionata nel capitolo 58 della Grettis saga (“Saga di Grettir”). L’incipit è andato perduto e il capitolo termina con una lacuna.

 

Friðþjófs saga ins frækna

(“Saga di Friðþjófr il valoroso”). Fornaldarsaga la cui versione più antica risale alla fine del xiii o agli inizi del xiv, mentre la versione più recente e più lunga è sorta, probabilmente con l’impiego di rímur, nel xv secolo. La saga, ambientata quasi esclusivamente nel Sognefjord norvegese, descrive la dolce-amara storia d’amore tra la principessa Ingibjörg, e il contadino Friðþjófr. Helgi e Hálfdan, i fratelli di Ingibjörg, cercano di impedire il rapporto, sistemando la sorella, durante una campagna militare, in un santuario del dio Baldr, dove gli amanti continuano a incontrarsi. In seguito all’esito negativo di una campagna militare, Ingibjörg viene promessa al vecchio re Hringr, mentre Friðþjófr viene spedito in una pericolosa missione nelle Orcadi. Quando ritorna trova l’amata sposata e la masseria ridotta in cenere. Accusa i figli del re di tradimento, ma in seguito al rogo del tempio di Baldr, è costretto a fuggire. Dopo campagne vichinghe di numerosi anni giunge travestito alla corte del re Hringr, ma viene riconosciuto dalla coppia reale ed entra al loro servizio. Ripetutamente dimostra la sua fedeltà all’anziano re, anziché trarre vendetta. Questi gli promette pertanto ricchezze e la donna dopo la propria morte, così che Friðþjófr si trova infine nuovamente unito a Ingibjörg e può vendicarsi sui suoi fratelli infedeli.

Questa storia d’amore si discosta notevolmente dalle altre fornaldarsǫgur, e sebbene anche alcune delle strofe ivi contenute siano più antiche della saga stessa, il materiale romantico rinvia chiaramente all’influsso delle riddarasǫgur (“saghe dei cavalieri”) e forse anche ad altra letteratura di corte e addirittura orientale. La descrizione del culto pagano di Baldr è anacronistica e non ha alcun riferimento alla realtà.

 

Gísla saga Súrssonar

“Saga di Gísli Súrsson”. Islendingasaga composta attorno alla metà del xiii secolo e conservata in due versioni tra loro abbastanza divergenti, delle quali il testo più lungo è tramandato parzialmente. La Gísla saga Súrssonar rientra tra le opere drammatiche della letteratura islandese. Si narra la storia dei fratelli Gísli, Þorkell e Þórdís che devono migrare con i genitori in Islanda dove si sposeranno. Dopo che i fratelli Gísli e Þorkell hanno voluto stringere il legame della fratellanza di sangue (norreno fóstbróðir) con il marito di Þórdís, Þorgrímr, e con il cognato di Gísli, Vésteinn, subiscono un oltraggio che porta inarrestabilmente alla tragica fine e alla morte della maggioranza dei componenti della famiglia. Dai frammenti di una spada maledetta viene forgiata una lancia con cui Þorgrímr uccide Vésteinn e in seguito Gísli si vendica su Þorgrímr. Entrambi gli omicidi rimangono dapprima celati, ma quando Þórdís casualmente apprende che Gísli ha ucciso il suo primo marito, fa in modo che il suo secondo uomo, Bǫrkr, proscriva Gísli; questi, sostenuto dalla sua fedele consorte, Auðr, per molti anni riesce a rimanere nel paese, finché Eyjólfr, congiunto di Bǫrkr, lo scopre. Rimarrà ucciso dopo un eroico scontro. Nel frattempo i figli di Vésteinn vendicano il padre uccidendo Þorkell, mentre Þórdís cerca di ammazzare Eyjólfr.

La Gísla saga Súrssonar a causa della sua tragicità, dovuta al destino apparentemente ineluttabile, e alla classica triangolazione (Þorkell – Ásgerðr – Vésteinn) è stata accostata alla saga eroica (come la vicenda di Sigurðr e Brynhildr, il declino dei Nibelunghi), ma presenta anche chiari tratti cristiani.

 

Gautreks saga (konungs)

(“Saga di re Gautrekr”), raramente detta anche Gjafa-Refs saga, è una fornaldarsaga del xiii sec., conservata in due edizioni, di cui quella più lunga contiene la storia di Starkaðr. La Gautreks saga si divide in tre episodi abbastanza slegati ma narrati magistralmente. Il primo riguarda re Gauti del Gotland che, smarritosi durante una battuta di caccia, si imbatte in una famiglia dimorante nel bosco. Gauti giace con una delle figlie e dalla loro unione viene alla luce Gautrekr, l’eroe della saga, che costituisce l’anello di congiunzione dei tre episodi. La figura principale della seconda sezione è l’eroe Starkaðr, la cui vicenda viene narrata con maggiore perizia di dettagli nei Gesta Danorum di Saxo Grammaticus. Disceso dai giganti, Starkaðr viene allevato da Óðinn, in questo caso chiamato Hrosshárs-Grani (“dai mustacchi come crini di cavallo”). Dopo aver trascorso la giovinezza come un kolbítr (“cenerentolo”), Starkaðr dall’età di dodici anni diviene un guerriero che intraprende spedizioni vichinghe assieme al fratellastro Víkarr. Il suo destino viene predeterminato dagli dèi: mentre il padre adottivo Óðinn gli conferisce tre vite, ricchezza e l’arte poetica, questi doni vengono controbilanciati dalle maledizioni del geloso Þórr, così che in ognuna delle sue tre esistenze dovrà commettere un misfatto, non possiederà mai territori e in ogni battaglia riporterà serie ferite e non potrà mai ricordare le poesie composte. Il primo misfatto compito da Starkaðr è il tradimento perpetrato ai danni di Víkarr, il quale viene sacrificato a Óðinn, e di conseguenza Starkaðr è costretto a lasciare la Norvegia; in Svezia compone un carme intitolato Víkarsbálkr (“Sezione di Víkarr”) su questa sua sciagura; i Gesta Danorum non riferiscono altro in merito al destino dell’eroe. La terza sezione della saga riguarda la narrazione fiabesca di Gjafa-Refr, il figlio di un contadino che grazie ai doni e ai consigli dello jarl Neri riesce a farsi amico di vari sovrani e infine sposa la figlia di re Gautrekr. Oltre ai Gesta Danorum, anche la Skjǫldunga saga fornisce un parallelo per il materiale eroico presente nella Gautreks saga. Per una traduzione italiana, v. Saga di Gautrekr, a cura di Massimiliano Bampi, Iperborea, Milano 2004.


 


domenica 28 aprile 2024

Il romanzo storico di Jókai Mór

 



Grazie a un progetto di miglioramento della didattica promosso dall'Università degli Studi Padova ho avuto modo di approfondire un autore ungherese che mi ha sempre affascinato: Jókai Mór. Oggi desidero condividere con voi il testo che ho steso per tale attività, confidando di riuscire a tradurre in italiano qualche sua opera.

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Con il romanticismo si accentua il fascino per il passato, l’interesse per la sua rievocazione e ciò contribuisce a porre in primo piano, tra i vari generi letterari della prosa, il romanzo storico. È il periodo in cui questo genere si diffonde in tutta Europa con la fortuna delle opere di Walter Scott che funsero da stimolo e modello anche in Ungheria, dove ebbe lunga fortuna e assorbì l’intento sociale.

Nel genere del romanzo in Ungheria predomina il romanzo storico a tal punto che è possibile coprire tutta la storia ungherese con romanzi: se andassero distrutte tutte le opere storiografiche, la storia ungherese potrebbe essere ricostruita sulla base dei romanzi storici. Ciò implica che gli storiografi devono tenere conto anche delle opere letterarie, in quanto gli autori hanno già compiuto prima di loro un’enorme mole di lavoro per ricostruire le epoche passate.

Se volessimo delineare l’evoluzione di questo genere ottocentesco, dovremmo iniziare da un romanzo sociale, Bélteky-ház (Casa Bélteky, 1832) di Fáy András: attraverso il contrasto tra due generazioni, il suo autore vuole servire la causa delle riforme. Nella figura del padre si trovano riuniti i difetti dell’Ungheria feudale, mentre il figlio incarna le virtù dell’Ungheria in sviluppo. Come primo vero e proprio romanzo storico ungherese si colloca Abafi (1836) di Miklós Jósika che segna l’inizio della sua carriera di romanziere. I romanzi di Jósika sono immersi nell’atmosfera della storia intesa come una bella favola compiuta e hanno come vero protagonista la vicenda stessa che lega i personaggi al loro ambiente. A seguire si colloca l’opera del letterato e ministro dell’istruzione pubblica József Eötvös che trasse dalla storia gli agganci ai problemi sociali del proprio tempo, non proiettando la contemporaneità nel passato, ma dalle vicende passate traendo insegnamenti per la nobiltà affinché provvedesse alle giuste riforme. Tra le sue opere ci limitiamo a menzionare A Karthusi (Il certosino, 1839-1841) che tratta di problemi sociali e nazionali dell’epoca.

La sintesi di tutti questi aspetti e l’apice sia ha nell’opera di Mór Jókai (1825-1904), il romanziere più prolifico della letteratura ungherese, non v’è infatti ungherese che non abbia letto almeno due o tre dei suoi romanzi.


Jókai Mór


Jókai nacque nel 1825 a Komárom e fin dall’età di nove anni iniziò a comporre lirica. Studiò a Pozsony, a Pápa, dove fu compagno del poeta Petőfi Sándor e accanto a lui lo ritroviamo anche nel 1848 allo scoppio della rivoluzione ungherese; anche lui partecipa con il suo ardore giovanile all’epica dell’Ottocento e parte di questo slancio permane anche nella sua opera in temi o entusiasmi ivi espressi.

Si avviò alla carriera forense, ma poi si dedicò interamente alla letteratura e alla politica: diresse riviste e giornali, fu deputato e senatore, direttore di società letterarie. Era tenace anche come lavoratore: si alzava ogni giorno all’alba e fino alle dieci di sera dedicava la maggior parte del suo tempo al lavoro. I francesi lo definirono “una forza della natura”, equiparandolo a Victor Hugo e a Dumas padre. Prima di divenire romanziere fu poeta e commediografo, attività che coltivò anche in seguito, pur limitandosi a mettere in versi solo gli accadimenti a lui coevi più importanti. I critici più severi prediligono Jókai novelliere, in quanto nella forma concisa del racconto non commette errori di caratterizzazione e ambientazione storica e non schiaccia i personaggi con il carico della propria fantasia. Il pubblico invece decretò la maggiore popolarità dei suoi romanzi. Anche le numerose traduzioni ne testimoniano la vasta diffusione: nel mercato librario tedesco ne furono vendute circa un milione di copie fino alla prima guerra mondiale. Le sue opere vennero tradotte in numerose lingue, venendo accolte anche in America; fa eccezione l’Italia che fu una delle ultime nazioni a conoscere l’opera del nostro romanziere. Jókai coltivò ogni genere di romanzo per dare libero sfogo alla sua inventiva e alla sua vena di narratore. Anziché dedicarsi al vero e proprio romanzo storico preferì coltivare una terza tipologia che potremmo definire “a cornice”, perché quanto più lontana è la vicenda dal punto di vista spazio-temporale, tanto maggiore è lo spazio d’inventiva di cui gode la sua fantasia, che potrà distaccarsi maggiormente dalla realtà. Nel collocare nella cornice storica vicende e personaggi scaturiti dalla sua fantasia, Jókai si riserva invero una notevole libertà di manovra, sostenendo che il romanziere può essere indipendente dallo storico, quindi, talvolta, anche infedele: è questo forse l’aspetto più caratteristico del “romanzo storico” jókiano.

L’elemento cardine del romanzo jókiano è il popolo. Ma non sono le singole figure, i singoli personaggi a destare l’interesse dello scrittore, ma piuttosto il popolo nel suo insieme. Per Jókai il bene e il male non ammettono sfumature. Ne consegue che i suoi personaggi sono tagliati con l’accetta, i buoni e i cattivi si fronteggiano senza alcuna possibilità di commistione. Ciò rende facile e schematica la lettura dei suoi romanzi e in ciò sta forse la chiave del grande successo popolare riscosso da subito da Jókai in Ungheria, ma anche all’estero.

Tra le centinaia delle sue opere (oltre trecento), ci limitiamo a menzionare quelle più note e lette ancora oggi. Alcune riguardano il periodo della dominazione turca in Ungheria: Erdély aranykora (I tempi d’oro della Transilvania), Törökvilág Magyarországon (Mondo turco in Ungheria). Altri riguardano il periodo delle riforme come Egy magyar nábob (Un nababbo ungherese), affresco della vita sociale in Ungheria nel primo quarto del xix secolo, e Kárpáthy Zoltán che ne costituisce il prosieguo. Altri, i migliori, riguardano un’epoca più recente: Az új földesúr (Il nuovo proprietario terriero) esalta la forza di assimilazione e attrazione della nazione ungherese (infatti fu tradotto in italiano con il titolo Fascino magiaro). La vicenda si svolge nel periodo più duro dell’assolutismo del 1849: il nuovo proprietario terriero è un generale austriaco che, quotidianamente in contatto con il popolo ungherese, finisce per condividerne il desiderio d’indipendenza e ad attuare assieme la cosiddetta resistenza passiva. Questi tre romanzi potrebbero essere chiamati “semistorici” perché l’autore mette in risalto il carattere storico degli accadimenti, senza che tuttavia siano già passati alla storia: nel riferirli si basa sulla propria esperienza diretta e sulla testimonianza dei contemporanei, pertanto a caratterizzarli è l’equilibrio tra osservazione e fantasia. Alla guerra del 1848-1849 il nostro romanziere dedica il romanzo A köszívű ember fiai (I figli dell’uomo dal cuore di pietra, 1869).

Le aperture democratiche, collegate all’onnipresente tematica nazionale, diventano più spiccate nelle opere successive. In Fekete gyemántok (Diamanti neri, 1870) la sua visuale si sposta sulla forza del nascente capitalismo alleato dell’oppressore austriaco. Altra denuncia del capitalismo è presente in Az aranyember (L’uomo d’oro) che l’odierna critica ungherese considera una delle opere migliori non solo di Jókai, ma del periodo detto del realismo (che corrisponde al verismo italiano). In Jókai il realismo si manifesta principalmente come descrizione e valutazione di elementi del folklore e trova massima espressione in Sárga rózsa (La rosa gialla), che costituisce probabilmente il capolavoro della sua vecchiaia: con la sua ambientazione nella puszta, esprime al meglio l’anima popolare ungherese che traspare dalle tradizioni, usanze sociali e dai costumi.

Non mancano nella sua produzione temi estranei all’Ungheria, in cui parla di tempi e territori lontani, talvolta irreali, dove libero da ogni problematica Jókai si abbandona alla gioia del narrare e dell’inventare. Tipico in questo caso è A két Trenk (I due Trenk) che ha per protagonisti due cugini, due baroni tedeschi. Sembra scritto da un regista cinematografico per la grande inventiva e potrebbe essere un precursore del genere western. Nel corso degli anni Cinquanta dell’Ottocento l’autore nutrì uno spiccato interesse per la storia antica e il destino delle tribù magiare che si credeva fossero rimaste nella protopatria (őshaza) asiatica. Si innesta in questo filone il romanzo breve intitolato A Varchoniták (I varchonitai, 1852): il popolo chiamato varchonita è situato nel favoloso territorio di aranyhegyek (i “monti d’oro”) ed è con ogni probabilità stato ripreso dall’opera in sei volumi dello storico inglese Edward Gobbin (1737-1794), The decline and fall of the Roman Empire (1776-1789) dove si fa menzione di siffatto popolo stanziato in Asia. Jókai dimostra di essere anche un grande conoscitore delle ataviche tradizioni ungheresi connesse al táltos, ovvero allo sciamano magiaro: prova di ciò è fornita nel suo romanzo storico Bálványosvár (La fortezza di Bálványos, 1883), ambientato nel Medioevo ungherese, dove nel capitolo XIX, intitolato Az elrejtőzött (Il nascosto) ricorre al termine elrejtőzik per denotare la condizione estatica in cui operava il táltos o, in genere il sapiente degli antichi magiari; vi ritroviamo invero un’affermazione che compare anche nelle testimonianze etnografiche raccolte dalla voce del popolo, ovvero «Ő nem halt meg, csak el van rejtőzve!» («Non è morto, si è solo nascosto!»).

Tra le ricostruzioni storiche ve ne sono alcune che riguardano l’Italia, come il romanzo Egy az Isten (C’è un dio solo, tradotto in italiano con il titolo Quelli che amano una volta, Fiume 1898) che si svolge a Roma nel 1848 in cui coglie le analogie tra il ’48 italiano e quello ungherese. Venne molto spesso nel nostro Paese, rimanendone ogni volta incantato. Era affascinato da Verona, dalla costa napoletana e soprattutto da Firenze, in merito alla quale scrisse: «Fossi pittore o scultore o architetto, lascerei disperato Firenze, come uno che è innamorato di una donna straniera e sa che mai la potrà far sua».

Jókai è in grado di rinnovare e trasformare anche la tematica più usuale e quotidiana. Il suo linguaggio ha una fluidità attraente che si conserva in tutte le sue opere. Per questo con lui il romanzo diviene la letteratura di tutti: scrive per il popolo, compiendo nella prosa l’aggancio diretto con la fantasia e l’emotività del popolo che Petőfi aveva realizzato nella lirica.

 

 

Bibliografia

Ruzicska 1963. Paolo Ruzicska, Storia della letteratura ungherese, Nuova Accademia Editrice, Milano.

Tempesti 1969. Folco Tempesti, La letteratura ungherese, Sansoni – Accademia, Milano.

Ventavoli 2004. Storia della letteratura ungherese (2 voll.), a cura di Bruno Ventavoli, Lindau, Torino.