sabato 4 novembre 2023

Il giallo introspettivo di Franco Ceradini


Franco Ceradini ha di recente pubblicato per Tracce ǝ Ombre il romanzo giallo La lingua di Menelik. Cerchiamo di scoprire qualcosa di più su di lui e sul suo ultimo parto letterario.

Partiamo dalla domanda più difficile: chi è Franco Ceradini?

Difficile parlare di sé. Mi ritengo una persona curiosa, che a sessantotto anni compiuti non smette di indagare e di studiare. 

Chi ti segue come scrittore ti conosce soprattutto come romanziere di ampio respiro, che ama entrare nei personaggi, nelle loro psicologie e peculiarità caratteriali. Cito, a titolo di esempio, Saturnino e le ombre, pubblicato circa dieci anni fa da Vocifuoriscena. Come mai, adesso, il passaggio al genere giallo con La lingua di Menelik?

Il giallo mi ha sempre affascinato. L’incontro con Georges Simenon, qualche anno fa, mi ha convinto a provarci a mia volta. Di Simenon avevo letto qualche Maigret, ma sono stati i suoi romanzi “duri” a conquistarmi, con trame semplici ma con approfondimenti psicologici miracolosi. Un altro autore che mi ha coinvolto è stato Chandler. Il suo Marlowe, a metà fra l’eroe alla John Wayne e il picaro, schiacciato dalle forze avverse e mai morto, incarna bene un lato del carattere americano, spaccone e rude nei modi, ma fragile nel profondo, sempre in pericolo e mai disposto ad arrendersi. 

In generale, mi piace del giallo la possibilità che offre di accoppiare vari elementi. C’è l’inchiesta, la ricerca del colpevole, e c’è la descrizione d’ambiente, la costruzione meticolosa del personaggio. Questi sono gli aspetti della scrittura che ritengo più consoni alla mia sensibilità e le cose che, anche a giudizio di chi mi legge, mi riescono meglio. Diciamo che nei miei gialli c’è ovviamente il delitto e qualcuno che tenta di venirne a capo individuando il colpevole, ma soprattutto c’è il resto. I miei personaggi sono prima di tutto alle prese con i propri problemi. Il giallo non è un genere facile, ci sto lavorando. Spero di riuscire a raggiungere una pienezza di stile nel giro di un paio di altri lavori.


Perché hai ambientato il romanzo in un paesino (fittizio) del Trentino?

Non sarei mai in grado di scrivere qualcosa che fosse ambientato in luoghi che non conosco, con cui non abbia un legame emotivo. Non potrei mai, per dire, scrivere un giallo internazionale, o un romanzo storico. Ci ho anche provato, ma non mi usciva nulla, non c’era sintonia. Il Trentino lo conosco un po’. A Valcava di Segonzano io e mia moglie abbiamo una casetta. È il nostro rifugio, ci sono le nostre cose, lì abbiamo amici, ambiente, atmosfera, tutto quello che ci serve per essere sereni. Quando mi sono sentito pronto per il giallo, mi è venuto spontaneo prendere quei luoghi famigliari come riferimento. La Valsolda del romanzo è ispirata alla Valcava reale. Ma non solo, ho mischiato le carte. Dopo La lingua di Menelik vorrei scrivere ancora qualcosa di “trentino”, ma vediamo. Valpolicella e Verona mi attirano. 

Quanto di autobiografico c’è in Giulio Marcarino, protagonista di La lingua di Menelik?

C’è abbastanza. Come in tutti gli altri personaggi del romanzo, ma in lui di più, ovviamente. Un autore vive nei suoi personaggi ed è ovvio che in ognuno di loro infili qualcosa di sé, inconsapevolmente. Nell’ispettore Giulio Marcarino credo che di mio ci siamo due, tre cose: l’ardore per la verità, una ingenuità di fondo che lui tenta di correggere facendo appello al suo senso critico, la morbidezza del carattere. Mettiamoci anche la testardaggine, con tratti di rigidità. È un uomo con molte risorse, ma irrisolto, tormentato. 

In generale, quando scrivi hai tu il controllo dei personaggi o loro fanno quello che vogliono?

Ho sempre lasciato correre i personaggi, con pochi controlli. Saturnino e le ombre è stato il punto di arrivo del mio vagabondare nella scrittura. All’epoca ero preso dalla lettura della Récherche, e credo si senta. Il passaggio al giallo rappresenta anche il tentativo di mettere ordine, di arrivare a uno stile asciutto e a intrecci con una geometria meno variabile, diciamo così. Sentivo l’esigenza di limiti precisi e nel giallo li ho trovati. Per la stesura di Menelik devo però ringraziare una certa Claudia Maschio, superego implacabile che mi ha tenuto a bada, impedendomi di smarrire la strada (ride). 

Quale dei tuoi personaggi, di questo o precedenti romanzi, vorresti essere e perché? 

Giulio Marcarino. Inesauribile nella ricerca, ma disincantato circa la possibilità di pieno successo; innamorato della giustizia, ma consapevole che i codici non ne esauriscono il campo, che oltre le leggi scritte, lo ius, vi è lo spazio infinito dell’aequitas, che va oltre le regole che l’uomo si è dato.
Detto di Giulio, posso aggiungere che anche tra i vecchi personaggi sicuramente potrei trovare chi mi sia consono. Ma non me li ricordo… (ride

Quanto ti rattrista il vedere un libro trasformato in oggetto di vendita, in merce?

Intendiamoci: sarei felicissimo di vendere un milione di copie di La lingua di Menelik, e credo lo sarebbe anche l’editore. Tutti quelli che scrivono aspirano a essere letti. Il destinatario c’è sempre: anche chi scrive un’autobiografia aspira a un lettore. Ma credo che il riferimento sia ad altro, all’industria che sforna libri come una catena di montaggio. Da qualche anno leggo principalmente gialli e una buona parte di essi, specialmente i best-seller, sono noiosi, ripetitivi. Dopo il primo successo e trovata la chiave, tanti autori non fanno che riproporre lo stesso libro. Si somigliano tutti, non tanto nelle trame, ma nell’intreccio schematico e sempre uguale, nel tipo dei personaggi, disancorati dal contesto sociale, privi di spessore psicologico, stereotipati. Vendono a carrettate, ma non mi piacciono e cerco di evitarli. Ma buon per loro. Devo dire però che in giro ci sono anche dei maestri. Uno di questi è lo scozzese Ian Rankin. Uno scrittore, un giallista formidabile che ho scoperto da poco e che mi sorprende sempre. 

Cosa vuol dire, secondo te, avere successo come scrittore?

Scrivere con uno stile mio, e ci sto arrivando, è già un successo. 



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