giovedì 9 novembre 2023

Il sapersi reinventare di Massimo Rubulotta

 

Uno dei primi titoli pubblicati da Tracce ǝ Ombre è stato Cento di 100 di Massimo Rubulotta.
Massimo, ritieni che questa sia una grossa responsabilità?

Altro che! Conosco la curatrice (Claudia Maschio) della casa editrice da tanto di quel tempo che le tracce e anche le ombre delle nostre frequentazioni si perdono tra le mille case dove ognuno di noi ha vissuto, i bar, le strade e la sua macchina per scrivere elettrica, semicomputerizzata (almeno, ricordo avesse una sorta di memoria).
Quello era il perno delle nostre serate. Lei scriveva e io suonavo.
Anch’io scrivevo. Poesie, e a volte lei mi aiutava a mettere i titoli che mi sorprendevano per i punti di vista sempre lontani dai miei, ma che facevano assumere un sapore completamente nuovo alle mie parole.
Le dicevo «Voglio pubblicare un altro libro di poesie», (ne avevo fatto uno pochi anni prima, a vent’anni). Ho sempre scritto poesie.
Lei mi diceva «Sì, le poesie mi piacciono, soprattutto le tue, ma non ho nessuno strumento per valutarle».
La casa editrice ancora non esisteva. Quando Claudia e Dario Giansanti ne hanno fondata una (Vocifuoriscena) sono tornato all’attacco: «Pubblica le mie poesie».
«Ti ho detto che non saprei neanche da che parte prenderle in mano. Però, facciamo così: scrivi un romanzo e mettici dentro una ventina di poesie. Mi sembra un buon compromesso, no?»

Entusiasta della sua proposta cominciai a buttare giù parole e parole che non erano poesie, ma racconti dei miei cani, di musica, pensieri e tutte quelle cose che vanno a comporre un romanzo. Comprese venti poesie. Fu un’esperienza bellissima. Scrivere per raccontare è stupendo.
Ma non poteva bastarmi la pubblicazione di Mai affezionarsi a una ricetta (questo il titolo del romanzo) e dicevo che un libro di poesie sarebbe stato bene nello scaffale della casa editrice.
Ho paura di aver preso la povera donna per sfinimento. Anche se non lo ammetteranno mai, ho il sospetto che abbiano creato la collana “S’i’ fosse foco” solo per farmi stare zitto. Quindi anche di questo mi sento grandemente responsabile, non solo per essere uno dei primi titoli di Tracce ǝ Ombre.

Non è la prima volta che pubblichi un libro. Non ti senti un tantino in colpa?

Mah, forse dovrei. Ma allora dovrei scusarmi con le orecchie di chi ha ascoltato i milioni di note venire fuori dalle mie percussioni.
Non ce la faccio a mettere le mie cose nel cassetto. A suonare di nascosto in cameretta. Ho bisogno di condividere con gli altri quello che sento.
Ho bisogno di far vedere/sentire le mie elaborazioni di ciò che mi circonda.

In Cento di 100 hai scelto la forma narrativa dell’haiku corredato da rispettivo quadro (sempre farina del tuo sacco). C’è una ragione particolare?

Tempo fa sono stato in ospedale a lungo. Circondato da gente che soffriva. Io stesso soffrivo. E soffrivo la mancanza delle mie amate percussioni, della musica che era il mio lavoro, la mia vita.
Avevo un vecchio telefonino che per poter scrivere ero costretto a usare soltanto la tastiera alfanumerica.
L’unica applicazione per scrivere e salvare le mie annotazioni conteneva solo cento caratteri. Cominciai a scrivere costretto a stare entro quel limite.
Avevo deciso che in cento caratteri (non uno di più, non uno di meno) dovevo farci stare le mie osservazioni e il mio pensiero. Era bello studiare il modo di farci stare tutto. Accorciare, allungare, togliere, cambiare frasi. Era un haiku, solo che al posto del monaco Zen c’ero io che cominciavo a misurarmi coi miei nuovi limiti e non scrivevo sul fianco delle montagne, come il monaco, ma su un telefonino dentro un ospedale.
Sempre in quel periodo mi hanno inserito in un percorso che prevedeva l’arteterapia e ho cominciato a dipingere.
Sono rimasto legato ai cento caratteri degli haiku tecnologici e alla pittura che adesso è parte del mio linguaggio.
A volte i titoli dei quadri sono gli haiku. A volte viceversa.

Qual è, a tuo parere, il messaggio principale contenuto nel tuo libro?

Forse che la bellezza è una sola e sono tante allo stesso tempo e, quando si riesce a vederla in tutte le cose che ci circondano, bisogna solo abbandonarsi e cercare di farne parte.
La vita segue tante logiche. Ha infiniti punti di vista. Bisogna sapersi adattare e seguire le strade che ci propone.
Non so perché faccio arte. Non so cosa significhi fare arte e non so cosa vuol dire “arte”. Forse sentire il bisogno forte, incessante di partecipare a quello che vedo; che sento. Sento che un tramonto, il mare, l’alba, la pioggia hanno un messaggio per me (per tutti), ma non riesco a decifrarlo. Però è forte. Avvolgente. Allora provo a usare lo stesso loro linguaggio e li dipingo; li suono. Uso parole per dar loro una forma che sia umana e anche… come definirla? extraumana?
La mia capacità di interazione col mondo si è ridotta del 50% o forse più. Adesso ho pochissime mani, braccia, gambe per esprimermi. Pazienza! Faccio con quello che ho a disposizione. L’importante è non legarsi a quello che si era prima. Cambiare. Sapersi adattare. Come la mia gatta.

Cosa cavolo c’entrano le dieci ricette?

L’idea delle ricette è nata pensando di inserire, assieme agli haiku e le croste, anche la forma d’arte più golosa che esista: la cucina. Per poter leggere, guardare un dipinto e anche masticare con gusto quello che c’è nel libro. Gustarlo nel vero senso del termine.
Volevo fosse Claudia a scriverle, ma non ne capiva il senso o forse non lo trovava sufficientemente letterario. Sentivo, però che il suo non era un “No” a prescindere. Che c’era ancora un margine di discussione.
E allora continuai a perorare la mia causa fino a che le dissi «Magari, invece di ricette vere e proprie, potremmo fare delle prese in giro dei detti tipo “il latte versato”; “se non è zuppa è pan bagnato”; “indorare la pillola” e via dicendo».
Nonostante tutte le nostre conversazioni riguardanti il libro fossero via email, quando lesse della presa in giro dei detti, mi arrivò lo scintillio dei suoi occhi.
Cominciò a scriverle ed erano bellissime. Divertentissime.
La mia idea iniziale, del libro da mangiare, era completamente stravolta ma almeno così alleggerivamo un po’ la pesantezza degli haiku e gli scarabocchi delle cento croste.

Qual è, se c’è, il libro migliore che hai letto, quello che ti ha cambiato la vita?

Tutti i libri che leggo mi cambiano la vita, in un modo o nell’altro ma l’unico che ho letto tre volte (penso quarant’anni fa) è stato Herzog di Saul Bellow.

Cosa vuol dire, secondo te, avere successo come scrittore?

Penso vendere tanti libri. Essere invitati ai festival, fare presentazioni.
La stessa cosa per un musicista. Sostituisci le parole “libri” e “presentazioni” con “dischi” (anche se non si usano più) e “concerti”.
Penso, comunque che ha successo chi ha carisma. A prescindere dal valore di quello che si scrive o si suona.


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