Grazie a un progetto di miglioramento della didattica promosso dall'Università degli Studi Padova ho avuto modo di approfondire un autore ungherese che mi ha sempre affascinato: Jókai Mór. Oggi desidero condividere con voi il testo che ho steso per tale attività, confidando di riuscire a tradurre in italiano qualche sua opera.
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Con il romanticismo si accentua il fascino per il passato, l’interesse per
la sua rievocazione e ciò
contribuisce a porre in primo piano, tra i vari generi letterari della prosa,
il romanzo storico. È il periodo in cui questo genere si diffonde in tutta
Europa con la fortuna delle opere di Walter Scott che funsero da stimolo e modello
anche in Ungheria, dove ebbe lunga fortuna e assorbì l’intento sociale.
Nel genere del romanzo in Ungheria predomina il romanzo storico a tal punto
che è possibile coprire tutta la storia ungherese con romanzi: se andassero
distrutte tutte le opere storiografiche, la storia ungherese potrebbe essere
ricostruita sulla base dei romanzi storici. Ciò implica che gli storiografi
devono tenere conto anche delle opere letterarie, in quanto gli autori hanno
già compiuto prima di loro un’enorme mole di lavoro per ricostruire le epoche
passate.
Se volessimo delineare l’evoluzione di questo genere ottocentesco, dovremmo iniziare da un romanzo sociale, Bélteky-ház (“Casa Bélteky”, 1832) di Fáy András: attraverso il contrasto tra due generazioni, il suo autore vuole servire la causa delle riforme. Nella figura del padre si trovano riuniti i difetti dell’Ungheria feudale, mentre il figlio incarna le virtù dell’Ungheria in sviluppo. Come primo vero e proprio romanzo storico ungherese si colloca Abafi (1836) di Miklós Jósika che segna l’inizio della sua carriera di romanziere. I romanzi di Jósika sono immersi nell’atmosfera della storia intesa come una bella favola compiuta e hanno come vero protagonista la vicenda stessa che lega i personaggi al loro ambiente. A seguire si colloca l’opera del letterato e ministro dell’istruzione pubblica József Eötvös che trasse dalla storia gli agganci ai problemi sociali del proprio tempo, non proiettando la contemporaneità nel passato, ma dalle vicende passate traendo insegnamenti per la nobiltà affinché provvedesse alle giuste riforme. Tra le sue opere ci limitiamo a menzionare A Karthusi (Il certosino, 1839-1841) che tratta di problemi sociali e nazionali dell’epoca.
La sintesi di
tutti questi aspetti e l’apice sia ha nell’opera di Mór Jókai (1825-1904), il romanziere più prolifico della letteratura
ungherese, non v’è infatti ungherese che non abbia letto almeno due o tre dei
suoi romanzi.
Jókai Mór |
Jókai nacque nel 1825 a Komárom e fin dall’età di nove anni iniziò a comporre lirica. Studiò a Pozsony, a Pápa, dove fu compagno del poeta Petőfi Sándor e accanto a lui lo ritroviamo anche nel 1848 allo scoppio della rivoluzione ungherese; anche lui partecipa con il suo ardore giovanile all’epica dell’Ottocento e parte di questo slancio permane anche nella sua opera in temi o entusiasmi ivi espressi.
Si avviò alla
carriera forense, ma poi si dedicò interamente alla letteratura e alla
politica: diresse riviste e giornali, fu deputato e senatore, direttore di
società letterarie. Era tenace anche come lavoratore: si alzava ogni giorno
all’alba e fino alle dieci di sera dedicava la maggior parte del suo tempo al
lavoro. I francesi lo definirono “una forza della natura”, equiparandolo a
Victor Hugo e a Dumas padre. Prima di divenire romanziere fu poeta e
commediografo, attività che coltivò anche in seguito, pur limitandosi a mettere
in versi solo gli accadimenti a lui coevi più importanti. I critici più severi
prediligono Jókai novelliere, in quanto nella forma concisa del
racconto non commette errori di caratterizzazione e ambientazione storica e non
schiaccia i personaggi con il carico della propria fantasia. Il pubblico invece
decretò
la maggiore popolarità dei suoi romanzi. Anche le numerose traduzioni ne testimoniano
la vasta diffusione: nel mercato librario tedesco ne furono vendute circa un
milione di copie fino alla prima guerra mondiale. Le sue opere vennero tradotte
in numerose lingue, venendo accolte anche in America; fa eccezione l’Italia che
fu una delle ultime nazioni a conoscere l’opera del nostro romanziere. Jókai coltivò
ogni genere di romanzo per dare libero sfogo alla sua inventiva e alla sua vena
di narratore. Anziché dedicarsi al vero e proprio romanzo storico preferì
coltivare una terza tipologia che potremmo definire “a cornice”, perché quanto
più lontana è la vicenda dal punto di vista spazio-temporale, tanto maggiore è
lo spazio d’inventiva di cui gode la sua fantasia, che potrà distaccarsi
maggiormente dalla realtà. Nel collocare nella
cornice storica vicende e personaggi scaturiti dalla sua fantasia, Jókai si
riserva invero una notevole libertà di manovra, sostenendo che il romanziere
può essere indipendente dallo storico, quindi, talvolta, anche infedele: è
questo forse l’aspetto più caratteristico del “romanzo storico” jókiano.
L’elemento cardine
del romanzo jókiano è il popolo. Ma non sono le singole figure, i singoli
personaggi a destare l’interesse dello scrittore, ma piuttosto il popolo nel
suo insieme. Per Jókai il bene e il male non
ammettono sfumature. Ne consegue che i suoi personaggi sono tagliati con
l’accetta, i buoni e i cattivi si fronteggiano senza alcuna possibilità di
commistione. Ciò rende facile e schematica la lettura dei suoi romanzi e in ciò
sta forse la chiave del grande successo popolare riscosso da subito da Jókai in
Ungheria, ma anche all’estero.
Tra le centinaia delle sue opere (oltre trecento), ci limitiamo a menzionare quelle più note e lette ancora oggi. Alcune riguardano il periodo della dominazione turca in Ungheria: Erdély aranykora (“I tempi d’oro della Transilvania”), Törökvilág Magyarországon (“Mondo turco in Ungheria”). Altri riguardano il periodo delle riforme come Egy magyar nábob (“Un nababbo ungherese”), affresco della vita sociale in Ungheria nel primo quarto del xix secolo, e Kárpáthy Zoltán che ne costituisce il prosieguo. Altri, i migliori, riguardano un’epoca più recente: Az új földesúr (“Il nuovo proprietario terriero”) esalta la forza di assimilazione e attrazione della nazione ungherese (infatti fu tradotto in italiano con il titolo Fascino magiaro). La vicenda si svolge nel periodo più duro dell’assolutismo del 1849: il nuovo proprietario terriero è un generale austriaco che, quotidianamente in contatto con il popolo ungherese, finisce per condividerne il desiderio d’indipendenza e ad attuare assieme la cosiddetta resistenza passiva. Questi tre romanzi potrebbero essere chiamati “semistorici” perché l’autore mette in risalto il carattere storico degli accadimenti, senza che tuttavia siano già passati alla storia: nel riferirli si basa sulla propria esperienza diretta e sulla testimonianza dei contemporanei, pertanto a caratterizzarli è l’equilibrio tra osservazione e fantasia. Alla guerra del 1848-1849 il nostro romanziere dedica il romanzo A köszívű ember fiai (I figli dell’uomo dal cuore di pietra”, 1869).
Le aperture democratiche, collegate all’onnipresente tematica nazionale, diventano più spiccate nelle opere successive. In Fekete gyemántok (“Diamanti neri”, 1870) la sua visuale si sposta sulla forza del nascente capitalismo alleato dell’oppressore austriaco. Altra denuncia del capitalismo è presente in Az aranyember (“L’uomo d’oro”) che l’odierna critica ungherese considera una delle opere migliori non solo di Jókai, ma del periodo detto del realismo (che corrisponde al verismo italiano). In Jókai il realismo si manifesta principalmente come descrizione e valutazione di elementi del folklore e trova massima espressione in Sárga rózsa (“La rosa gialla”), che costituisce probabilmente il capolavoro della sua vecchiaia: con la sua ambientazione nella puszta, esprime al meglio l’anima popolare ungherese che traspare dalle tradizioni, usanze sociali e dai costumi.
Non mancano nella sua produzione temi estranei all’Ungheria, in cui parla di tempi e territori lontani, talvolta irreali, dove libero da ogni problematica Jókai si abbandona alla gioia del narrare e dell’inventare. Tipico in questo caso è A két Trenk (“I due Trenk”) che ha per protagonisti due cugini, due baroni tedeschi. Sembra scritto da un regista cinematografico per la grande inventiva e potrebbe essere un precursore del genere western. Nel corso degli anni Cinquanta dell’Ottocento l’autore nutrì uno spiccato interesse per la storia antica e il destino delle tribù magiare che si credeva fossero rimaste nella protopatria (őshaza) asiatica. Si innesta in questo filone il romanzo breve intitolato A Varchoniták (“I varchonitai”, 1852): il popolo chiamato varchonita è situato nel favoloso territorio di aranyhegyek (i “monti d’oro”) ed è con ogni probabilità stato ripreso dall’opera in sei volumi dello storico inglese Edward Gobbin (1737-1794), The decline and fall of the Roman Empire (1776-1789) dove si fa menzione di siffatto popolo stanziato in Asia. Jókai dimostra di essere anche un grande conoscitore delle ataviche tradizioni ungheresi connesse al táltos, ovvero allo sciamano magiaro: prova di ciò è fornita nel suo romanzo storico Bálványosvár (“La fortezza di Bálványos”, 1883), ambientato nel Medioevo ungherese, dove nel capitolo XIX, intitolato Az elrejtőzött (“Il nascosto”) ricorre al termine elrejtőzik per denotare la condizione estatica in cui operava il táltos o, in genere il sapiente degli antichi magiari; vi ritroviamo invero un’affermazione che compare anche nelle testimonianze etnografiche raccolte dalla voce del popolo, ovvero «Ő nem halt meg, csak el van rejtőzve!» («Non è morto, si è solo nascosto!»).
Tra le ricostruzioni storiche ve ne sono alcune che riguardano l’Italia, come il romanzo Egy az Isten (“C’è un dio solo”, tradotto in italiano con il titolo Quelli che amano una volta, Fiume 1898) che si svolge a Roma nel 1848 in cui coglie le analogie tra il ’48 italiano e quello ungherese. Venne molto spesso nel nostro Paese, rimanendone ogni volta incantato. Era affascinato da Verona, dalla costa napoletana e soprattutto da Firenze, in merito alla quale scrisse: «Fossi pittore o scultore o architetto, lascerei disperato Firenze, come uno che è innamorato di una donna straniera e sa che mai la potrà far sua».
Jókai è in grado di rinnovare e trasformare anche la tematica più usuale e
quotidiana. Il suo linguaggio ha una fluidità attraente che si conserva in
tutte le sue opere. Per questo con lui il romanzo diviene la letteratura di
tutti: scrive per il popolo, compiendo nella prosa l’aggancio diretto con la
fantasia e l’emotività del popolo che Petőfi aveva realizzato nella lirica.
Bibliografia
Ruzicska 1963. Paolo
Ruzicska, Storia della letteratura ungherese, Nuova Accademia Editrice,
Milano.
Tempesti 1969. Folco
Tempesti, La letteratura ungherese, Sansoni – Accademia, Milano.
Ventavoli 2004. Storia
della letteratura ungherese (2 voll.), a cura di Bruno Ventavoli, Lindau,
Torino.