giovedì 10 febbraio 2022

Francesco Maiello - La necessità di guardare in faccia la realtà

 

Chi è Francesco Maiello, e, soprattutto, perché scrive?

Sai che di fronte a questa domanda ho rischiato una denuncia per oltraggio a pubblico ufficiale? Ero in Francia non lontano da Treguier nella Bretagna del nord. Ero andato a visitare i luoghi di Ernest Renan, uno degli autori francesi che amo di più. Inoltre Treguier ha una cattedrale che mi affascina moltissimo. Stavo per andare via quando mi sfuggono le chiavi dell’auto di mano e mi abbasso per raccoglierle. Ecco che spunta un poliziotto che pensa forse io mi stia nascondendo.
Mi fa: «E lei chi è?».
Resto sorpreso... poi mi viene naturale dirgli: «Ascolti, io posso dirle come mi chiamo, dove abito, che lavoro faccio, mostrarle i miei documenti, ma mi creda alla domanda precisa che lei mi pone non so rispondere. Io non so chi sono».
Lui mi guarda perplesso. In quel momento viene raggiunto da un collega che evidentemente ha sentito perché ha un volto con un’espressione divertita, non ostile. Poi il primo dice: «Lo sa che potrei arrestarla per oltraggio a pubblico ufficiale? Lei si sta prendendo gioco di me».
Io gli faccio: «Mi creda signore, tutt’altro. Mi prenderei gioco di lei se le rispondessi. Perché io veramente non so rispondere alla sua domanda. Comunque, – dico – se oltre ai documenti personali vuole anche quelli del veicolo mi lasci raccogliere le chiavi e aprire l’auto. Lei mi pone una domanda che da Socrate a Freud non ha trovato risposta. Immagini se posso trovarla io».
Fu il secondo poliziotto a risolvere la questione fingendo un colpo d’occhio ai documenti e chiedendomi dove alloggiavo.
Capisci? Non ho le idee più chiare di quanto le avessi allora. Non so rispondere. Io non so chi sono. Vilayanur S. Ramachandran, che come sai è uno dei massimi studiosi di neuroscienze, sostiene che anche il concetto di “io” è un miraggio. E lo motiva bene nei suoi libri.

Francesco Maiello

Perché scrivo? Ti racconto un altro aneddoto. Un giorno ero a Parigi a rue Monticelli, a casa del grande medievista Jacques Le Goff che mi onorava (si dice così?) della sua amicizia. Stavamo registrando l’intervista sulla storia che sarebbe poi uscita presso Laterza.
Durante la “pausa pranzo” gli chiesi qualcosa circa l’insorgere della sua passione per la storia. Lui mi disse con un’aria meravigliata con se stesso: «Sa, Francesco, io non so perché, non ho una spiegazione, ma sin da piccolo ho sempre pensato che avrei fatto lo storico». E allargò le braccia. Sin da piccolo ho sempre pensato che avrei fatto lo scrittore, ma, contrariamente a Le Goff mi sono deciso a farlo da vecchio. Ho fatto tanti altri mestieri, prima. Il mio primo romanzo è del  2018, pubblicato con uno pseudonimo. Avevo 72 anni.

Come ti è venuta l’idea di La necessità del male?

Questa è una domanda molto bella, anche se nessuno ci pensa. Non è la stessa cosa di quando ti si chiede: «Quando hai deciso di scrivere?», oppure; «Perché hai scelto questa trama, questo argomento?». C’è una bellissima frase del grande Claude Lévi-Strauss a proposito dei miti (e io ho sempre pensato che valga anche per la letteratura e per l’arte in generale): è quando lui scrive che nella riflessione sulla mitologia si può anche abolire il soggetto perché i miti dopotutto parlano tra loro.
Ora, la domanda che mi poni invita a pensare – almeno al suo livello letterale – che le idee ti “vengano”. Cioè sono loro a muoversi verso di te.
Purtroppo l’italiano è infelice a proposito dei sogni. “Fare un sogno” è una stupidaggine incredibile. I sogni, come i miti, i romanzi, l’arte, non si “fanno”, giungono.
Spesso, come uno sciamano, lo chiedo al mio libro come mai sia “venuto”. Non ci crederai, ma lui mi risponde. In primo luogo mi dice che per essere esatti lui è “esploso” oltre me giungendo nel momento della mia vita in cui ha realizzato che non avrei avuto altro futuro da vivere se non quello che si immergeva nel passato. Ha capito che sono vecchio – ho quasi 77 anni – e posso avere un futuro solo perché alle mie spalle si distende un oceano.

Perché ritieni che il male sia necessario? 

Semplicemente perché il male è la nostra vita. Non ricordo chi fu a scrivere che la pace, cui tutti agogniamo, è solo un breve intervallo fra due guerre. Lo stesso vale per il bene. Il bene è solo un momento di distrazione del male, che è la normalità. Non ricordo se fu Voltaire, Marco Aurelio o Ernest Renan a dire che gli uomini sono portati a farsi domande cui non sanno rispondere. Se la sostanza del mio ricordo è esatta, sono portato a fare una modifica e dire che gli uomini hanno la tendenza a porsi domande cui non possono rispondere.
Il concetto che noi moderni occidentali abbiamo del bene è devastante per la psiche umana. Siamo sempre in uno stato di inadeguatezza rispetto alla vita, agli amici, alle persone che ci circondano, alla società, agli dèi, all’universo tutto. È ciò che chiamiamo male a dominare il mondo a esserne la sua vera natura a costituirne la sostanza. Senza il male il mondo crollerebbe in pochi secondi. Occorre rendersi conto di questa realtà in uno slancio liberatorio e intellettualmente sano. Occorre ribellarsi al fascismo del politicamente corretto.
D’altronde, se non fosse così, non si capirebbe come tutte le mitologie e le religioni del mondo, nessuna esclusa, parlino dell’uomo come di un essere catapultato in un mondo dominato dalle avversità e dagli spiriti del male. L’uomo è sempre un essere decaduto.

Quanto c’è di autobiografico in La necessità del male?

La necessità del male è la mia autobiografia, nel senso più stretto del termine. Anche là dove qualcuno, sbagliando, potrebbe ritenere che io attinga al mondo del fantastico.

Qual è la cosa che ti dà più fastidio al mondo e quella che invece apprezzi maggiormente?

Il non voler vedere le cose per quelle che sono. Questa ostinazione vile a dare alle cose un nome diverso da quello che sono. Il non voler vedere in faccia la realtà. Non amo gli struzzi. Mi piacciono le persone come la Yourcenar, che voleva entrare nella morte a occhi aperti. Ho sempre avuto la netta sensazione che questo stato di cose servisse ai potenti per tenere sotto controllo i derelitti, per tenerli in un costante e permanente condizione di inadeguatezza.
Ciò che apprezzo maggiormente e che amo è il mondo infantile. Ma viviamo in un tempo in cui rischio il carcere se lo ripeto un’altra volta. Passo ore e ore, intere giornate, a giocare con Riccardo un nipotino che amo oltre ogni cosa. 

Ti è mai capitato di vivere la sindrome della pagina bianca?

Mai. Appena apro la pagina bianca il mio problema è come arginare l’esondazione di una gigantesca diga che è in procinto di cedere. 

A quando la seconda “puntata” di La necessità del male?

Credo entro quest’anno. Sono in ritardo solo per la revisione e la pubblicazione. Perché, come nel caso del primo volume, lui improvvisamente è arrivato e io l’ho trascritto. L’ho dovuto trascurare per un po’ preso dalla traduzione e dalla cura di un importante lavoro etnologico in quattro volumi.

Cosa consiglieresti a chi vuole diventare scrittore? 

Di lasciar perdere. Scrittori lo si è per elezione divina, non lo si diventa. Occorre essere degli sciamani in contatto con il mondo invisibile. E infatti gli scrittori sono pochi: Omero, Shakespeare, Proust, Eliot (ci metto anche i poeti), Dante. Si contano sulla punta delle dita.
Se poi si vogliono scrivere dei libri, che è un’altra cosa, be’, credo che i consigli siano inutili, se non quello di non cedere ai gerghi del momento che dopo soli quattro cinque anni diventano ridicoli.

venerdì 14 gennaio 2022

Cronaca del Baltico in fiamme, la recensione del Sole 24 ore

 


LE LOTTE DEL ‘500 PER I MERCATI CON SBOCCO SUL MARE

Balthasar Russow

 

Il Sole 24 ore

Recensione di Armando Torno

 

Ivan, figlio di Vasilij III, quarto dei gran principi di Mosca, il 13 dicembre 1546 dinanzi al metropolita e ai bojari dichiarò di assumere il titolo di zar della Russia universa. Si sentiva il discendente dei romani imperatori e luogotenente di Dio. Nato nel 1530, morirà nel 1584; da quel momento diventa Ivan il Minaccioso (Groznyi), che in altri idiomi fu inteso come “Terribile”.

Si sarebbe potuto tradurre anche “Spaventoso”, ma quel “Terribile” si rivelò perfetto. In una lettera del 1577 al principe Andrej Kurbskij, lo zar scrive: «Sebbene i miei delitti siano più numerosi dei granelli della sabbia marina, pure spero nella divina grazia». Se si volessero conoscere alcuni dei suoi crimini, eccoli in un testo nella prima traduzione italiana. Si tratta della cinquecentesca Cronaca del Baltico in fiamme del pastore Balthasar Russow, vergata in basso tedesco e curata da Piero Bugiani. L’opera narra lo scontro tra russi, svedesi, polacchi-lituani e danesi; le pagine sembrano un campo di battaglia con avidi mercenari (non pochi sono scozzesi e calvinisti).


Un libro che parla della Guerra di Livonia, combattuta tra il 1558 e il 1583, nella regione baltica estesa tra la Lettonia e l’Estonia. Area di transito di popoli presto entrati in contrasto, questa terra fece il suo ingresso nella storia europea dal IX secolo, quando scandinavi, russi, lituani iniziarono a percorrerla. I tedeschi arrivarono nel XII secolo per evangelizzare (e conquistare).

Russow, secondo Bugiani, è un estone; sufficientemente equidistante da russi (considerati feroci) e tedeschi (maestri nell’opprimere). Le crudeltà ideate dalle schiere zariste evocano Ivan e si consumano a Wenden: «Diversi uomini prima li frustò, poi, feriti e sanguinanti, li gettò vivi nel fiume. A un borgomastro che ancora respirava fece estrarre il cuore, a un predicatore strappò la lingua dalla gola; i restanti vennero ammazzati tra inauditi martiri e sofferenze». Infine «accatastò in un unico mucchio i corpi degli uccisi, dandoli in pasto a uccelli, cani e bestie selvatiche». E le violenze su donne e bimbi a Novgorod? Tantissime, tanto che «il letto del fiume fu completamente ostruito dai cadaveri».

I tedeschi? Specialisti nelle punizioni corporali e rapaci con roba e denaro. «Quando un contadino e sua moglie morivano – scrive Russow – e lasciavano dei bambini, i figli venivano presi in custodia: rimanevano nudi, senza niente, presso il focolare dello junker oppure andavano a mendicare in città senza ereditare i beni paterni, mentre il padrone si appropriava di tutto ciò che i loro genitori avevano abbandonato». Che dire? Sono cinquecenteschi esempi di lotte per i mercati con lo sbocco sul mare.