Il 30
settembre ricorre l’anniversario della nascita di Benedek Elek
(1859-1929), scrittore, traduttore, giornalista, pedagogista ed etnografo
ungherese che ha dedicato la sua vita alla raccolta delle fiabe popolari
da lui definite «tesori dell’anima del popolo ungherese».
Per la sua
intensa attività di raccolta e scrittura di fiabe popolari, Benedek viene
ancora oggi ricordato come il nagy mesemondó, il grande
narratore di fiabe.
Dal 2005,
su iniziativa della Magyar Olvasástársaság (“Società ungherese di lettura”), il
30 settembre è divenuta, proprio in onore di Benedek, la giornata della
fiaba popolare (népmese napja). Questo stesso giorno si festeggia anche la giornata mondiale della traduzione, pertanto ho pensato di invitarvi in un breve viaggio tra fiabe e leggende ungheresi, proponendovi la traduzione inedita di un monda (“leggenda”) ispirato alla leggenda di Attila. Il nostro guscio di noce è attraccato lungo la sponda del Küküllő e attende solo voi per discendere le acque, talvolta ancora inesplorate, dei miti e delle leggende magiare. Jó olvasást!
La via
delle schiere
Titolo originale: A Hadak útja
Tratta da Benedek Elek,
Magyar mese- és mondavilág
Stasera
vi racconterò una fiaba sulla hadak útja, la “via delle schiere”, quella lunga fascia bianca e
splendente che nelle notti stellate fluttua lassù nel cielo, sentite un po’. Vi
narrerò di come questa fascia bianca, bianca e splendente, sia finita in cielo.
Riprendo da dov’ero rimasto ieri
sera. Attila aveva conquistato il mondo intero, perché da quando la Isten
kardja, “spada di Dio”, era ricomparsa in quel modo meraviglioso, non c’era
stato alcun popolo sulla terra che fosse riuscito a sconfiggere Attila e le sue
prodi truppe. Attila non portava con sé la Isten kardja, bensì la
lasciava a casa, chiusa dietro tre chiavistelli. Dal momento in cui la spada
era ricomparsa il suo cuore non era più pervaso dallo sconforto: sapeva che Dio
era con lui e che avrebbe accresciuto la forza delle sue braccia.
Spesso chiacchierando con la moglie Réka e i figli belli e prodi seduto davanti alla tenda, diceva: «Ora posso tranquillamente giacere nella bara, perché so a cosa ho aspirato e ora il mondo intero mi appartiene. Ogni popolo della terra è suddito delle mie prodi genti».
Ma quando era solo, rifletteva, si
arrovellava: e se il suo prode popolo conquistatore del mondo si fosse
disperso, andando in rovina? Avrebbe desiderato che suo figlio minore, Csaba,
fosse divenuto re degli unni dopo la sua morte. Tra i suoi numerosi figli, lui
era il più caro, il più prode. Amava Csaba e anche la madre lo vezzeggiava.
Un giorno, quando erano tutti
insieme nel bosco di Rika[1] dove si trovava il
castello preferito di Attila, lui e i figli furono pervasi da una grande
tristezza. La regina Réka era gravemente malata e sentendo approssimarsi la
morte, fece chiamare al suo capezzale il marito e i figli, tra i quali Aladár era il maggiore, Csaba il minore. Disse afflitta, con gli occhi
pieni di lacrime: «Sto per morire, ma non
seppellitemi prima che siano trascorsi sette giorni. Il settimo giorno venite
da me uno dopo l’altro, cari figlioli, e baciatemi gli occhi: colui il cui
bacio mi farà riaprire gli occhi, diventerà re degli unni.
Gli altri abbiano l’anima in pace:
è Dio ad averlo decretato, me l’ha annunciato in sogno».
Detto ciò Réka chiuse gli occhi e spirò. Non venne sepolta fino a quando non furono trascorsi sette giorni. Ecco che uno dopo l’altro i figli andarono a baciarle gli occhi, per primo Aladár, poi gli altri, ma gli occhi di Réka non si aprirono. Infine giunse Csaba che, in lacrime, abbracciò la madre, baciandole gli occhi, ed ecco che Réka li aprì, sorridendo al figlio prediletto: «Sarai tu il re degli unni, figlio mio. Il tuo bacio è stato il più caloroso. Ecco, accanto al mio letto c’è una freccia: prendila, è tua. Ne trarrai utilità nei momenti di grande bisogno».
Detto
ciò chiuse nuovamente gli occhi per non riaprirli mai più. Nei pressi del
castello, ai piedi del monte, scorreva un ruscello. La sua fossa venne scavata
lungo le sponde di questo corso d’acqua e qui fu sepolta. Attila vi rotolò
sopra un’enorme roccia staccata dal monte, in modo che, fino alla fine del
mondo, nessuna persona disturbasse la quiete di Réka.
Molti
ma molti anni dopo la morte di Réka, Attila ebbe a noia la sua vita solitaria e
contrasse un secondo matrimonio: amava una bellissima principessa chiamata
Mikolt. Stava proprio meditando di recarsi al di là del mare per vedere se ci
fossero popoli e paesi e, qualora li avesse trovati, li avrebbe conquistati. Ma
prima di mettersi in cammino, portando con sé le sue prodi truppe, si tenne il
matrimonio con Mikolt, affinché rimanesse a casa una donna, mentre loro erano
al di là del mare.
Ma
ecco, sentite un po’ cosa accadde! Attila morì la notte del matrimonio. Quando
si distese nel letto, cominciò a perdere sangue dal naso e il re conquistatore
del mondo soffocò nel suo stesso sangue.
Quanto
grande fu la tristezza in tutto il paese!
«Colui
che ha versato il sangue di molti prodi e morto nel suo stesso sangue!», si rammaricava il popolo. «Non ha neppure
potuto darci la sua benedizione!», dicevano i figli amareggiati.
Attila
venne sepolto con grande sfarzo. Il corpo fu posto in una tripla bara[2]: venne scavata una profonda
fossa sul fondo di un corso d’acqua dove venne riposta la tripla bara; affinché
nessuna mano umana potesse disturbarlo e nessuno venisse a conoscenza del luogo
in cui era stato sepolto, furono impiegati degli schiavi che, dopo averlo
interrato, si dovettero uccidere a vicenda...
Attila era appena stato sepolto che i popoli conquistati si mossero da ogni dove. Sapevano bene che non avrebbero più dovuto temere i prodi unni se avessero aizzato uno contro l’altro i figli di Attila. Teodorico[3], macchinatore di intrighi, fu il primo a giungere. In fronte portava sempre lo sfregio della freccia che Bendegúz gli aveva scoccato[4]: la freccia sulla fronte e la cattiveria nel cuore. All’epoca aveva minacciato Bendegúz: «Aspettate, aspettate, me la pagherete fino alla vostra settima generazione!».
Andò
dritto da Aladár e gli disse: «Come
puoi permettere, tu, figlio maggiore, che Csaba, il minore, diventi re degli
unni! La sovranità ti aspetta di diritto davanti a Dio e alle genti».
Aladár disse: «Hai
ragione, Teodorico, ma mia madre ha voluto che le cose andassero così. Fu Dio a
stabilire che a divenire re degli unni sarebbe stato colui il cui bacio le avrebbe
fatto riaprire gli occhi».
«Oh,
tu, scemo che più scemo non c’è al mondo!», disse Teodorico. «Dunque non ti è
passato per la testa che tua madre amasse di più Csaba? Se avesse amato di più
te, i suoi occhi si sarebbero riaperti al tuo bacio.»
La mente di Aladár si lasciò
persuadere da questo discorso maligno. Prestava fede a quanto detto da
Teodorico, e credeva che la madre lo avesse ingannato. Fece subito annunciare a
Csaba che facesse portare la Isten kardja, “spada di Dio”, nella sua tenda, perché quello
era il suo posto.
Csaba mandò in risposta: «La Isten kardja appartiene
agli unni, fratello caro. Non è mia e neppure tua».
«Se non me la dai con le buone, la
prenderò con la forza», disse Aladár.
Gli
unni si divisero in due fazioni, una dalla parte di Csaba, l’altra di Aladár. Si misero per via anche i goti e tutti i popoli
conquistati, ma Teodorico che aveva teso l’inganno, li istruì che una fazione
supportava Csaba e l’altra Aladár: quando le due
armate si sarebbero scontrate, loro non dovevano fare del male ai due capi,
bastava che uccidessero e massacrassero solamente gli unni.
Ma a Teodorico tessitore d’inganni non bastava aver messo Aladár contro Csaba e quando già da tre giorni infuriava lo scontro e fiumi e ruscelli straripavano dal sangue degli unni che in essi si era riversato, mandò a Csaba un uomo fidato travestito da vecchio veggente canuto che fece questa previsione al principe: «Ascoltami, principe Csaba, se vuoi divenire re degli unni, tira fuori la Isten kardja, altrimenti non riuscirai a sconfiggere Aladár».
Non
sappiamo se Csaba prestasse o meno fede a questo discorso, ma in ogni modo ci
rifletté, si spaccò la testa così a lungo tanto che alla fine fece aprire i tre
chiavistelli ed estrasse la Isten kardja. Gli anziani tentanto di
persuaderlo: «Lascia
la Isten kardja, principe Csaba, Dio sarà al nostro fianco fino a quando
questa spada non verrà immersa nel sangue del fratello».
Ma
Csaba non diede ascolto alle parole degli anziani. Radunò le sue truppe
decimate e, facendo brillare la Isten kardja, galoppò incontro alle
sterminate truppe avversarie. Da lontano gridò ad Aladár: «Ecco
qui la Isten kardja, fratello!».
Ed
ecco che, sentite un po’, i due fratelli si scontrarono con tale impeto da
squarciare cielo e terra. La Isten kardja mandava scintille e ardeva con tale violenza da privare molte
migliaia di persone della luce degli occhi. Aladár cadde morto dal suo
cavallo storno e accanto a lui numerosi prodi unni. A un tratto, sentite un po’
che meraviglia, la Isten kardja non mandò più scintille, smise di ardere.
Il sangue di Aladár era schizzato e
una goccia era divenuta fiamma ardente che prese ad ardere. Invano Csaba
brandiva la Isten kardja, la spada non inflisse più alcuna ferita. Se non
avesse avuto con sé la propria spada, anche lui sarebbe stato ucciso.
«Dio
mi ha punito!», sospirò Csaba in preda all’afflizione. «È la fine della
gloriosa stirpe unna, la fine!»
Della
sua schiera di eroi conquistatori del mondo non erano rimasti più di cinquemila
uomini. Gli altri, saranno stati diecimila, avevano il corpo coperto di sangue
e ferite.
Gli
doleva, quasi gli si spezzava il cuore che ora anche tutti quegli eroi feriti
perissero. Se almeno loro fossero rimasti! Se avesse potuto guarirli! Almeno
quel bel territorio sarebbe rimasto della stirpe unna.
E
così, mentre si affliggeva, il cielo si aprì e un turul[5] discese dal cielo su un
fascio celeste di luce verso gli eroi unni. Il turul scese sempre più e
prese a dire: «Non
scoraggiarti, Csaba! Prendi la freccia che tua madre ti donò sul suo letto di
morte. Scocca questa freccia e inseguila! Raccogli la pianta in cui si
conficcherà e con la sua linfa ungi le ferite dei tuoi eroi che guariranno immediatamente».
«Questa
è la voce della mia madre adorata!», gridò Csaba. Ma in quell’istante il turul
salì in volo più veloce del vento, per sparire nell’alta volta celeste.
«Era
proprio la sua voce!», gridarono anche gli eroi unni. «Era la voce di Réka!»
Portarono
subito la freccia meravigliosa, il principe Csaba la inserì nell’arco, la
scoccò attraversò la distesa di fiori su cui si trovavano e rincorse la freccia
più veloce del vento. E dunque la trovò conficcata in una pianta dalle foglie
larghe, ne raccolse in abbondanza e con la sua linfa unse le ferite degli eroi.
Divennero tutti più belli e più forti di quanto erano stati in precedenza.
Dopodiché
gli eroi unni si misero per via, dirigendosi verso oriente, seguendo la direzione
da cui Bendegúz aveva condotto gli
unni dalla Scizia fin su quelle terre.
«Riconducici dai magiari,» dissero
gli unni a Csaba, «e invitiamoli in questo bel territorio! Unendo le forze lo
riconquisteremo.»
«Lo avete detto con il cuore», disse il principe Csaba, «ed è ciò che voglio anch’io. Torniamo indietro, ma
non tutti. Che rimangano qui tremila eroi: risiederanno[6] qui fino a quando
torneremo con i nostri fratelli magiari. Nessuno potrà dire che abbiamo
abbandonato la terra di Attila con disonore.»
Quello stesso giorno si staccarono
tremila prodi dalle truppe di Csaba e si stabilirono lungo il confine del bel Székelyföld,
la “terra dei székelyek”. Prima che Csaba facesse ritorno in Scizia, furono
benedetti il fuoco, l’acqua, l’aria e la terra. Tutti coloro che erano in
procinto di partire giurarono, sotto il libero cielo di Dio, che, qualora il
nemico avesse assaltato i székelyek, sarebbero ritornati indietro anche
se si fossero trovati agli estremi confini del mondo. La notizia sarebbe stata
portata loro dal fuoco, oppure avrebbe provveduto l’acqua, se non l’acqua,
allora ci avrebbe pensato l’aria, o, altrimenti, la terra.
«Ritorneremo, ritorneremo!»,
gridarono, tanto che cielo e terra rimbombarono.
Alla fonte del fiume Olt fece un
altro giuramento. Allora il principe Csaba estrasse la Isten kardja e la
immerse nelle acque del fiume, dicendo a gran voce: «Acque del fiume Olt, rimuovete il
sangue di mio fratello dalla Isten kardja!».
Ed ecco che il sangue di Aladár defluì dalla Isten
kardja che ora brillava e scintillava come un tempo.[7] Venne riposta nuovamente
al sicuro dietro tre chiavistelli per essere riportata in Scizia.
Erano
appena partiti, non avevano ancora raggiunto i confini del Paese, che la terra
si scosse, gli alberi si piegarono, mandavano segnali come a dire: «Indietro,
indietro, i székelyek sono nei guai!».
Ed era
proprio come gli alberi avevano indicato: i székelyek erano stati
attaccati da una moltitudine di popoli.
«Indietro,
indietro!», gridò Csaba. «Addosso, eroi!»
E
galopparono più veloci del vento, persino più veloci del pensiero, sbaragliando
il nemico in modo che non ne rimanesse neppure la polvere.
Poi
partirono nuovamente alla volta della Scizia. Attraversarono monti e valli, boschi
e prati, e il settimo giorno, quando stavano per superare un grande fiume, ad
un tratto l’acqua si gonfiò, straripò, mugghiando
e urlando terribilmente, come se tutto quel mugghiare e urlare volesse dire
loro: «Indietro,
indietro, i székelyek sono nei guai!».
Galopparono
più veloci del vento, persino più veloci del pensiero, l’acqua aveva davvero
avuto ragione: i székelyek erano accerchiati da una moltitudine di
popoli. Csaba sbaragliò anche questi e di essi non rimase neppure la polvere.
Gli
unni partirono per la terza volta, erano riusciti a proseguire il cammino per
un anno intero, si aggiravano allora per le terre greche quando un giorno si
sollevò una violenta bufera, proveniente dalla direzione della terra dei székelyek.
Aveva preso avvio sotto forma di venticello forte, e poi volando sempre più, era
lì giunto come un vortice di bufera che ronzava
e sibilava, come se tutto quel ronzare e sibilare volesse dire loro: «Indietro, indietro,
i székelyek sono nei guai!».
Gli
eroi galopparono lungo la via del ritorno più veloci del vento, persino più
veloci del pensiero e anche per la terza volta sbaragliarono quel mare di
nemici.
Così
ripartirono per la Scizia per la quarta volta.
Il tempo passò, trascorsero cinquant’anni, cent’anni e nessun nemico aveva più disturbato i székelyek che potevano vivere in tranquillità. Ma invano attendevano il principe Csaba con i magiari. Credevano che non li avessero più ritrovati. Forse si erano fermati in Grecia. E invece li avevano ritrovati. Il principe Csaba aveva restituito la Isten kardja ai fratelli magiari dicendo loro: «Mio padre trovò la Isten kardja con cui conquistò il mondo intero. Quando chiuse gli occhi, uno spirito maligno si impossessò di noi e il fratello alzò la spada contro l’altro fratello. La mia anima ancora vacilla: immersi la Isten kardja nel cuore di mio fratello. Ma prima di partire, l’ho immersa nelle acque del fiume Olt: ed ecco, guardate, ora brilla e scintilla come un tempo. Venite, magiari, torniamo a occupare la terra di Attila!».
I
giovani eroi avevano una gran voglia di seguirlo, quante belle cose il principe
Csaba aveva narrato loro della terra di Attila. Ma gli anziani dissero: «Aspettate, non ci metteremo per
via fino a quando Dio non avrà scelto qualcuno tra noi che ci indichi se
partire o restare».
A tali parole i magiari si misero
l’anima in pace e continuarono a vivere in Scizia.
Nel frattempo anche i prodi székelyek
si erano moltiplicati e vivevano in pace. La fama del loro eroismo si era
diffusa in terre lontane e i nemici non osavano infastidirli. Ma tutta quella
miriade di popoli non riusciva a rappacificarsi e appena presero un po’ di
coraggio accerchiarono i székelyek da ogni lato. Se solo fossero stati
di più! Perfino i fili d’erba insorsero contro il nemico, ma per ogni székely
giunsero cento uomini. Invano volgevano lo sguardo verso la Scizia, nessuno
giunse in loro aiuto. Il principe Csaba era divenuto già da molto tempo polvere
e cenere e lo attendevano invano.
Ma sentite un po’ che meraviglia!
Proprio quando i székelyek si apprestavano a combattere l’ultima
battaglia, il cielo risplendette nel buio della notte ed ecco apparire, tra il
bagliore luminoso delle stelle, il principe Csaba con il suo seguito di eroi
che molti secoli prima avevano sbaragliato per tre volte i nemici dei székelyek.[8]
I székelyek non erano stati
abbandonati da Saturno, il loro astro, che aveva portato la notizia a Csaba
nell’alto dei cieli: «I székelyek sono nei guai!».
«Coraggio, in piedi, eroi!», gridò
Csaba, e gli eroi defunti si misero per via, attraversando al galoppo l’intera
volta stellata, più veloci del vento, persino più veloci del pensiero e, giunti
ai confini della terra dei székelyek, nel punto in cui il firmamento si inclina
fino a toccare i promontori, scesero dal cielo.
I nemici furono colti da un
terribile spavento alla vista degli eroi unni scesi dal cielo per non
abbandonare i fratelli székelyek in grave pericolo. Il mare di nemici
fuggì fuori di sé, non ci fu neppure un eroe che osò fermarsi o voltarsi.
Ma ora sentite un po’ e
meravigliatevi: Csaba e i suoi eroi salirono nuovamente nella volta stellata,
Bibliografia:
Boccali 1980. Georges Dúmezil, Storie degli sciti, a cura di Giuliano
Boccali, Rizzoli, Milano (1a ed. fr. 1978, Romans de Scythie et d’alentour, Payot, Paris; 1a ed. it. 1980).
Scalabrini 1997. Patrick Howarth, Attila re degli unni, a cura di
Benedetto Scalabrini, Piemme, Alessandria.
Scardigli ~ Meli 1982. Il canzoniere eddico, a cura di
Piergiuseppe Scardigli e Marcello Meli, Milano.
Note:
[1] Rika-erdő.
[2] Anche secondo Prisco di Panio Attila venne posto in una tripla bara, l’interna d’oro massiccio, l’intermedia d’argento massiccio e l’esterna di ferro e poi adagiata in una semplice fossa di cui non sarebbe rimasta traccia alcuna. Anche Jordanes riferì che nottetempo «seppellirono il suo corpo in terra, sigillando le sue bare, la prima con l’oro, la seconda con l’argento e la terza con la forza del ferro» (cit. in Scalabrini 1997). Nella riscrittura della leggenda di Attila fornita da Komjáthy István (1917-1963) nel suo Mondák könyve (“Libro delle leggende”, 1964), sarebbe stato un sogno di Réka (qui nella variante Ríka) a predire come sarebbe stata la sepoltura del marito: «Attila koporsója: Napkirály hajfonata, Hold mosolya és Éjfél pillantása legyen» («La bara di Attila dovrà essere [come] la treccia del Re del Sole, il sorriso della Luna e l’occhiata della Mezzanotte»). Al che il saggio Torda, che secondo alcune leggende sarebbe stato il capo unno padre di Bendegúz, nonché nonno di Attila, fornisce la seguente interpretazione: «Attilának a föld alatt is palotát kell epíteni. Koporsóba kell tenni. Hármas koporsóba. Aranyba, ezüstbe és vasba. Ezt jelenti Napkirály hajfonata, Hold mosolya és Éjfél szempillantása» («Bisogna costruire un palazzo per Attila anche sottoterra. Deve essere sepolto in una bara, una tripla bara d’oro, d’argento e di ferro. Questo sta a significare treccia del Re del Sole, sorriso della Luna e occhiata della Mezzanotte»). Nella fiaba intitolata Réka királyné sírja (“La tomba della regina Réka”), confluita nella raccolta di Benedek Elek intitolata Magyar mese- és mondavilág, è la moglie di Attila a essere adagiata in una tripla bara. Così narra il racconto: «La regina Réka fu sepolta il quarto giorno e nel momento della sepoltura tutte le persone vennero allontanate dal bosco di Rika, affinché nessuno sapesse dove Réka sarebbe stata sepolta. Il corpo venne posto in una tripla bara: la prima era dell’oro più puro, la seconda di bell’argento chiaro e la più esterna di metallo. Dopodiché quattro schiavi sollevarono la tripla bara e la portarono giù, lungo la sponda del ruscello di Rika, e qui la misero sotto l’enorme roccia dove ancora oggi si trova – la può vedere chiunque vi si rechi –, scavarono una fossa molto profonda e vi posero la tripla bara. Poi ricoprirono per bene la fossa, nascondendola con zolle erbose: non rimase traccia che qualcuno vi fosse stato sepolto».
[3] Detre nella versione ungherese.
[4] L’episodio fa riferimento a quanto narrato nella
fiaba Az Isten kardja (la “Spada di Dio”), facente sempre parte della
raccolta di Benedek Elek. Quando gli unni, guidati da Bendegúz, nome del padre
di Attila e Buda, invase il
territorio compreso tra il Danubio (ungherese Duna) e il Tibisco (ungherese
Tisza), le genti della zona chiamarono in loro soccorso Teodorico con le sue truppe.
Ne conseguì uno scontro durante il quale anche Teodorico venne ferito da un
dardo in ferro scoccato da Bendegúz.
[5] Aquila totemica degli antichi
turchi.
[6] In ungherese székel
(“risiedere”, “stabilirsi”, “avere sede”) da cui, secondo alcune ipotesi
etimologiche, deriverebbe lo stesso nome dei székelyek (secleri), gli
ungheresi di Transilvania.
[7] Secondo la
tradizione popolare degli osseti, la spada dell’eroe Batraz venne gettata nel
Mar Nero che da allora porta il nome di Mar Rosso a causa del sangue dei Narti che
ricopriva la spada e che andò a mescolarsi alle acque del mare. Gli osseti
credono che la spada giaccia ancora oggi nel Mar Rosso e quando vedono
lampeggiare da occidente attribuiscono tale scintillio alla spada di Batraz che
balzerebbe verso il cielo per massacrare gli spiriti malvagi e i dèmoni
(Boccali 1980, p. 24).
[8] Cfr. la simile concezione che
traspare dal Secondo carme di Helgi uccisore di Hundingr (Helgakviđa
Hundingsbana ǫnnur): «È un’illusione questa che mi par di vedere/ o il tramonto dei
tempi? - Cavalcano i morti,/ i vostri
cavalli incitate con gli sproni - /
oppure ai guerrieri è concesso il
ritorno?» (strofa 40; ed. it. Scardigli ~ Meli 1982, p. 179). «Tempo è per me
di cavalcare per strade vermiglie,/
livido il mio cavallo calpesterà
sentieri del cielo;/ percorrerà ad occidente i ponti della volta celeste […]» (strofa 49; ed. it.
Scardigli ~ Meli 1982, p. 181).