Il 26 gennaio del 2015 arrivò in redazione la proposta di un romanzo che subito ci incuriosì. L’autore scriveva che era un “thriller ambientato nella Russia del 1800”. Un periodo storico “saturo di conquiste e avvenimenti cruenti”, in bilico tra fervori progressisti e governi reazionari, ancorati a tradizioni medioevali. “Il protagonista lotta, si innamora e soffre affrontando un mondo nel quale, scindere il vero dal falso è così difficile che l’intera vicenda potrebbe essere realmente accaduta a nostra insaputa.”
Dopo aver letto questa breve sinossi, risalii con lo sguardo al nome dell’autore: Vincenzo Zonno. Non che faccia la differenza, ma prima era un autore, poi aveva un nome, Vincenzo. In seguito ho scoperto che gli amici e, pare, addirittura i parenti, lo chiamano semplicemente “Zonno”, ma questa è un’altra storia.
All’epoca Vocifuoriscena aveva aperto i battenti da appena un anno, ed eravamo solo in due: Dario Giansanti e io. Fui io a leggere per prima Non è un vento amico, e mi colpì a tal punto da chiedere a Dario di darci almeno un’occhiata, prima di dare il nulla osta per la pubblicazione.
Mi affascinava la ricostruzione storica, ma soprattutto la verosimiglianza psicologica dei personaggi, e mi stupiva molto, addirittura tantissimo, che un brindisino cresciuto a pane, pomodori e olio extravergine di oliva, avesse avuto l’ardire di ambientare un romanzo nelle stesse scenografie di Tolstoj, Gogol’ e Dostoevskij.
Ammettiamolo, di fegato ce ne vuole proprio tanto!
Quando Zonno mi disse di conoscere poco o nulla i padri della letteratura russa, restai di stucco. Ma solo per un attimo. Mi spiego meglio: tante volte, quando si vuole emulare la prosa di uno scrittore famoso, si finisce inevitabilmente per produrre una brutta copia, che non interesserà mai a nessuno. Chi invece arriva “vergine” su un terreno coltivato da altri, forse può riuscire a individuare qualcosa di nuovo, di diverso, da far crescere su quel terreno. O perfino far notare che “l’imperatore è nudo”.
Vincenzo Zonno |
Dario alla fine lesse il romanzo dopo che avevo già detto di sì a Zonno. E, dopo che avevo suggerito qualche consiglio qua e là per migliorare le sfumature psicologiche dei personaggi, Dario propose alcuni aggiustamenti per adattare il romanzo alla realtà russa dell’epoca. Anche lui, come me, è cresciuto a pane e romanzoni russi, ma a differenza mia ha una conoscenza fin paurosa di dettagli e curiosità che i comuni mortali solo si sognano.
Quindi suggerì qualche notazione di cultura slava, introdusse particolari sugli usi e costumi del tempo dello zar e, soprattutto, approfondì quanto già conosceva sulle questioni teologiche e liturgiche dell’Europa orientale. Ricordo come fosse ieri il suo entusiasmo quando scoprì quanto fossero complesse le batterie di campane nelle chiese ortodosse, e sofisticato il modo di suonarle: potrei scommettere che gli riecheggiasse in cuore l’ultimo quadro dell’Andrej Rublëv di Tarkovskij.
Propose anche di dare una forma più realistica ai nomi dei personaggi, introducendo un sistema di patronimici, e uniformò le traslitterazioni dal russo (e dal polacco).
Gli rimase però il cruccio del nome del protagonista, che avrebbe voluto convertire in Jurij, ma che Zonno insisteva dovesse restare Georges.
I due, giunti ormai sul punto di battersi a duello per la questione (sembravano, credetemi, Puškin e d’Anthès sulle sponde del fiume Černaja!), decisero di rivolgersi all’indiscussa autorità del nostro maître à penser privato, Oliviero Canetti. Il professore, aspirando qualche boccata la pipa, diede ragione a Zonno, facendo notare che la borghesia russa del tempo usava francesizzare i nomi, e che uno Jurij, se voleva far bella figura in società, si sarebbe fatto chiamare da tutti Georges. Canetti ricordò come lo stesso protagonista di Guerra e pace viene sempre chiamato Pierre, e raramente Pëtr!
Zonno la ebbe dunque vinta, e il protagonista del suo romanzo poté tenere il nome di Georges.
Canetti, in seguito, lesse il romanzo e ne fu folgorato. Scrisse anche un’interessante analisi interpretativa, parlando del romanzo come “metafora teologica”, analisi che, se vi interessa, è stata in seguito stampata in appendice alla seconda edizione di Non è un vento amico.
Zonno lesse con genuino interesse la recensione di Canetti, ma anche, sospetto, con malcelato divertimento, in quanto non riconosceva le sue intenzioni in nessuna delle interpretazioni del professore. In effetti non c’erano i classici russi alle spalle di Zonno, ma una visione assai più personale. La sua non era la Russia borghese di Tolstoj, delle anime morte di Gogol’ o dei demoni di Dostoevskij, ma un mondo i cui confini, lungi dall’identificarsi con quelli geografici, sono quelli che separano il giorno dalla notte, la superficie della ragione dagli abissi dell’inconscio.
Della Russia, Zonno aveva preso gli elementi disturbanti, i complotti, gli starcy, le sette religiose, i gruppuscoli anarchici, al fine di costruire una vicenda sospesa su un confine tra progressismo e fanatismo, tra ragione e follia.
Più che le implacabili necessità della storia che sorreggono l’impalcatura di Guerra e pace, viene in mente, avanzando tra le acquitrinose pagine di Zonno, lo sconsolato verso di Fëdor I. Tjutčev, “Con la mente non si può capire la Russia”.