Come nasce un libro? Dalla penna dell’autore, ovviamente. Ma è un neonato: ha bisogno di essere accudito, a volte può anche essere prematuro, oppure può portarsi dietro il trauma di un lungo e difficile travaglio.
Ma torniamo al dunque. Precisamente, all’inizio della vicenda editoriale di Indomite, il libro di Simona Friuli che, dopo una sorta di “numero zero”, sta per uscire in una veste riveduta e corretta (ampiamente) per i tipi, come si diceva una volta, di Vocifuoriscena.
Tutto comincia con una mail di Claudia Maschio, del 24 aprile 2019: “Se riesci, dai una lettura anche a questa proposta editoriale, piuttosto breve. Ho iniziato a leggere anch'io, ma non ti dico nulla per non influenzarti.” In calce, la mail dell’autrice, di qualche tempo prima: “Buonasera, sono Simona Friuli, e questa è la mia proposta editoriale. “Una bestia rara”, così mi piace definire il manoscritto che può essere ciò che cercate.”
Sono emozionato. Ancora non conosco bene i meccanismi che regolano l’attività della casa editrice e spero in cuor mio si tratti di qualcosa di facile facile. Errore. Selvagge (il titolo definitivo di Indomite venne molto dopo, in fase di prestampa) è un cespuglio spinoso, uno di quegli arbusti che a fine inverno si presentano scabri, anneriti dal gelo, ma vigorosi e ben strutturati – promessa di una fioritura impetuosa – anche se qualche rametto rinsecchito o contorto, che rivela cicatrici mal rimarginate e dannose, ne compromette l’armonia. Servirà una potatura intelligente, penso.
A farmi innamorare del manoscritto, al di là dei difetti, è la forza che sprigiona. “Una bestia rara”, l’espressione con cui l’autrice lo presenta, rende bene l’idea.
Protagoniste dei racconti, una serie di figure femminili tra l’umano e il bestiale. Vi sono re, regine e figlie di re [?]. Rubando da quanto scrissi poi per la quarta di copertina: “Sono queste ultime, le figlie, le vere protagoniste: soggette solo a se stesse e al richiamo del sangue, arse dall’eros ma libere dal giogo maschile o, al più, indocili spose o in procinto di diventarle…”.
La forza, dunque. Ma sentivo che qualcosa non andava. Il ritmo della narrazione procedeva spezzato e volevo capire perché. Mi sentii con l’autrice. Era sorpresa che il manoscritto avesse suscitato il nostro interesse. Altre case editrici, mi disse, non l’avevano preso in considerazione: troppo sofisticato, troppo lontano dai gusti correnti dei lettori, con tutte quelle inversioni sintattiche, quei termini desueti o addirittura inventati, le iperboli, le allitterazioni, i chiasmi che combinano con allitterazioni: “mentre la strega cambiata in vecchia riso rideva di scimmia” e altro ancora… Lei stessa si era convinta, dietro il consiglio di un editor, di riscrivere tutto in forma più corrente. Adesso era chiaro: le zeppe, gli inciampi nel fluire ipnotico del testo erano dovuti al tentativo di “normalizzarlo”, facendolo rientrare nei canoni della narrativa standard. Lo standard, però, non ci interessava. Volevamo l’originale, con impresso il timbro autentico dell’autrice.
Mi mandasse dunque la prima versione, quella non edulcorata. Elementare operazione di recupero filologico.
Elementare, mica tanto: l’originale non esisteva. Non più. Incredibile! Nell’era dell’informatica, l’autrice non ne aveva salvato una copia nella memoria del suo computer. Ci aveva scritto sopra! Peccato capitale. Peccato anche per noi, che perdevamo un testo promettente. Glielo dissi, e lei mi gelò. Gelò in senso positivo: “Ce l’ho tutto nella testa”, disse.
Scrivere, per Simona, era un fatto musicale, e ricreare il tessuto originale dei racconti non era impossibile: bastava lasciasse cantare il cuore e le “Selvagge” sarebbero resuscitate intatte dal loro limbo.
Non volevo crederle. Una cosa del genere, che io ricordassi, era riuscita altre volte, ma in epoche lontane, dominate dall’oralità. Secondo una tradizione, i primi sette canti dell’Inferno, rimasti a Firenze, furono ricreati in questo modo da Dante Alighieri durante l’esilio veronese. Dino Campana riscrisse di sana pianta i suoi Canti orfici, dopo che Ardengo Soffici, a cui li aveva spediti, li smarrì tra le sue carte. Ma era nel 1913! Nel 2019, chi possedeva più una simile memoria? E invece…
Tornando alle mail, è dei primi di settembre l’arrivo della “nuova” (in realtà, la primitiva) versione di Selvagge. Ancora da limare. Lavoro che ha impegnato l’autrice e il sottoscritto per molte settimane, prima che subentrassero Claudia Maschio e Dario Giansanti con l’impaginazione.
Da notare che, anche dopo, altri ritocchi sostanziosi sono stati approntati, per i ripensamenti dell’autrice, mai soddisfatta (per inciso: arrivati a questa fase, non si dovrebbero mai accettare modifiche, ma tant’è, a Vocifuoriscena siamo fatti un po’ così…). E il titolo. Selvagge, poco musicale, infine fu soppiantato da Indomite, con quel bell’accento sulla terzultima.
E la scelta della copertina, e il fascio degli ancora nuovi ritocchi…
Tante cose resterebbero da dire dell’opera certosina che ha portato il libro alla sua veste attuale.
Un libro compatto, senza incrinature. Affascinante e da leggere, senz’altro.
Franco Ceradini