domenica 29 novembre 2020

Indomite - La nascita

 

 

Come nasce un libro? Dalla penna dell’autore, ovviamente. Ma è un neonato: ha bisogno di essere accudito, a volte può anche essere prematuro, oppure può portarsi dietro il trauma di un lungo e difficile travaglio.
Ma torniamo al dunque. Precisamente, all’inizio della vicenda editoriale di Indomite, il libro di Simona Friuli che, dopo una sorta di “numero zero”, sta per uscire in una veste riveduta e corretta (ampiamente) per i tipi, come si diceva una volta, di Vocifuoriscena. 

Tutto comincia con una mail di Claudia Maschio, del 24 aprile 2019: “Se riesci, dai una lettura anche a questa proposta editoriale, piuttosto breve. Ho iniziato a leggere anch'io, ma non ti dico nulla per non influenzarti.” In calce, la mail dell’autrice, di qualche tempo prima: “Buonasera, sono Simona Friuli, e questa è la mia proposta editoriale. “Una bestia rara”, così mi piace definire il manoscritto che può essere ciò che cercate.”

Sono emozionato. Ancora non conosco bene i meccanismi che regolano l’attività della casa editrice e spero in cuor mio si tratti di qualcosa di facile facile. Errore. Selvagge (il titolo definitivo di Indomite venne molto dopo, in fase di prestampa) è un cespuglio spinoso, uno di quegli arbusti che a fine inverno si presentano scabri, anneriti dal gelo, ma vigorosi e ben strutturati – promessa di una fioritura impetuosa – anche se qualche rametto rinsecchito o contorto, che rivela cicatrici mal rimarginate e dannose, ne compromette l’armonia. Servirà una potatura intelligente, penso.

A farmi innamorare del manoscritto, al di là dei difetti, è la forza che sprigiona. “Una bestia rara”, l’espressione con cui l’autrice lo presenta, rende bene l’idea.
Protagoniste dei racconti, una serie di figure femminili tra l’umano e il bestiale. Vi sono re, regine e figlie di re [?]. Rubando da quanto scrissi poi per la quarta di copertina: “Sono queste ultime, le figlie, le vere protagoniste: soggette solo a se stesse e al richiamo del sangue, arse dall’eros ma libere dal giogo maschile o, al più, indocili spose o in procinto di diventarle…”.

La forza, dunque. Ma sentivo che qualcosa non andava. Il ritmo della narrazione procedeva spezzato e volevo capire perché. Mi sentii con l’autrice. Era sorpresa che il manoscritto avesse suscitato il nostro interesse. Altre case editrici, mi disse, non l’avevano preso in considerazione: troppo sofisticato, troppo lontano dai gusti correnti dei lettori, con tutte quelle inversioni sintattiche, quei termini desueti o addirittura inventati, le iperboli, le allitterazioni, i chiasmi che combinano con allitterazioni: “mentre la strega cambiata in vecchia riso rideva di scimmia” e altro ancora… Lei stessa si era convinta, dietro il consiglio di un editor, di riscrivere tutto in forma più corrente. Adesso era chiaro: le zeppe, gli inciampi nel fluire ipnotico del testo erano dovuti al tentativo di “normalizzarlo”, facendolo rientrare nei canoni della narrativa standard. Lo standard, però, non ci interessava. Volevamo l’originale, con impresso il timbro autentico dell’autrice.
Mi mandasse dunque la prima versione, quella non edulcorata. Elementare operazione di recupero filologico. 

Elementare, mica tanto: l’originale non esisteva. Non più. Incredibile! Nell’era dell’informatica, l’autrice non ne aveva salvato una copia nella memoria del suo computer. Ci aveva scritto sopra! Peccato capitale. Peccato anche per noi, che perdevamo un testo promettente. Glielo dissi, e lei mi gelò. Gelò in senso positivo: “Ce l’ho tutto nella testa”, disse.
Scrivere, per Simona, era un fatto musicale, e ricreare il tessuto originale dei racconti non era impossibile: bastava lasciasse cantare il cuore e le “Selvagge” sarebbero resuscitate intatte dal loro limbo.

Non volevo crederle. Una cosa del genere, che io ricordassi, era riuscita altre volte, ma in epoche lontane, dominate dall’oralità. Secondo una tradizione, i primi sette canti dell’Inferno, rimasti a Firenze, furono ricreati in questo modo da Dante Alighieri durante l’esilio veronese. Dino Campana riscrisse di sana pianta i suoi Canti orfici, dopo che Ardengo Soffici, a cui li aveva spediti, li smarrì tra le sue carte. Ma era nel 1913! Nel 2019, chi possedeva più una simile memoria? E invece…

Tornando alle mail, è dei primi di settembre l’arrivo della “nuova” (in realtà, la primitiva) versione di Selvagge. Ancora da limare. Lavoro che ha impegnato l’autrice e il sottoscritto per molte settimane, prima che subentrassero Claudia Maschio e Dario Giansanti con l’impaginazione.
Da notare che, anche dopo, altri ritocchi sostanziosi sono stati approntati, per i ripensamenti dell’autrice, mai soddisfatta (per inciso: arrivati a questa fase, non si dovrebbero mai accettare modifiche, ma tant’è, a Vocifuoriscena siamo fatti un po’ così…). E il titolo. Selvagge, poco musicale, infine fu soppiantato da Indomite, con quel bell’accento sulla terzultima.
E la scelta della copertina, e il fascio degli ancora nuovi ritocchi…
Tante cose resterebbero da dire dell’opera certosina che ha portato il libro alla sua veste attuale.
Un libro compatto, senza incrinature. Affascinante e da leggere, senz’altro.

Franco Ceradini


 

giovedì 26 novembre 2020

"C'era una volta o forse non c'era...", recensione di East Journal

 


Affezionati lettori, vi segnaliamo la recensione del nostro volume di fiabe popolari ungheresi intitolato C'era una volta o forse non c'era... Fiabe cosmologiche ungheresi, a cura di Elisa Zanchetta, scritta da East Journal, quotidiano online d'informazione su politica, cultura e società dell'Europa centro-orientale e del Vicino oriente.

Seguite il link... and enjoy your reading!

https://www.eastjournal.net/archives/112842





sabato 14 novembre 2020

Come nasce un romanzo: E sopra splendeva un cielo stellato


Intervista di Oliviero Canetti a Claudia Maschio

Gli anni che porto sulle spalle, tra letteratura e impegni universitari, mi hanno insegnato perlomeno una cosa: l’intervista a un autore non riuscirà mai a mettere davvero in luce i tratti fondamentali del suo romanzo. E, nel caso di E sopra splendeva un cielo stellato, l’operazione è ancor più ardua, perché si tratta di un romanzo surreale e insieme profondamente razionale. Stilisticamente una raffinata confezione, e poi dentro un regalo insolito, di quelli capaci di stupirti a più riprese.
Così ho deciso di impostare quest’intervista nel modo più semplice possibile: domande brevi, ma precise e, laddove necessario, incalzanti.

Claudia, raccontaci come è nato E sopra splendeva un cielo stellato?

Tutto è partito da un racconto, scritto nell’arco di due settimane, che racchiudeva il succo dei miei studi sull’etica, ma anche dagli scambi di vedute a tarda ora con Carlo Dalla Pozza, amico, amato, e per sempre nel mio cuore.
Non mi interessava pubblicarlo: era stato concepito per “divertire” alcuni amici, persone a me care, amanti della filosofia e del perenne dubbio interiore.

Un dubbio interiore che ti appartiene…

Wittgenstein ha scritto che il dubbio viene dopo la certezza. Un concetto che mi ha illuminato non sulla via di Damasco, ma in un viaggio in treno tra Verona e Trento. E che mi ha fatto rileggere tutta la mia vita, soprattutto l’infanzia, con occhi diversi.
Appartengo a una famiglia tradizionalista, fortemente cattolica. Mio nonno andava a messa tutte le mattine e, da piccola, mi obbligava a recitare il rosario: le preghiere prima di andare a dormire per me e i mei cugini duravano un’ora sana!
Ovviamente non eravamo sempre con i nonni, e resta il fatto che io li ho amati tantissimo. Mi mancano tantissimo.
Però c’era quella sporcatura lì. Quell’ingombrante presenza: Dio.

Ho come il sospetto che non tutti i lettori del blog apprezzeranno, ma mi interessa. Com’è andata a finire?

Per me, da bambina, Dio era un’indiscutibile certezza. Una di quelle certezze di Wittgenstein, indispensabili per far sorgere il dubbio.
Appena fatta la prima comunione, tenni un pezzetto di particola per darla alla mia criceta Enia: anche gli animali, secondo me, erano meritevoli della grazia di Dio.
Mia madre, quando glielo dissi, si mise le mani nei capelli e mi portò dal parroco, rossa in volto dalla vergogna. Don Gino mi fece un predicozzo poco convincente. Continuavo a chiedermi: se tutti siamo creature di Dio, perché i criceti no?
Di seguito – il dubbio dopo la certezza – mi posi molte altre domande, che divennero sempre più impertinenti via via che crescevo. Come fa una vergine a restare incinta? Se Dio ama le sue creature, perché tanto male nel mondo? Se siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio, anche Dio potrebbe fare l’amore? E, nel caso, con chi e perché?
Poi ho letto Darwin.

Poiché mi sembra tu abbia di gran lunga superato il confine dell’eresia, oso una domanda pressoché inevitabile: quanto condividi dell’affermazione di Dostoevskij “Se Dio non esiste, allora tutto è permesso”?

Grazie per questa domanda, che ci porta dritti nel mio romanzo. Anche perché è esattamente il suo punto di partenza: un mondo in cui è stato dimostrato, senz’alcun dubbio, che Dio è una bufala. E quindi tutti ritengono, come stuzzicava quel genio di Fëdor, che tutto sia permesso.
Va da sé che un mondo simile non può funzionare. Così troviamo, per garantire la pace sociale, negozi che vendono coscienze o sensi di colpa.
Ma anche questo non basta.

Certo che no, ma vorrei sentire il tuo perché.

Perché il dubbio non può essere qualcosa che decostruisce certezze pregresse, deve anche saper costruire nuove certezze, o nuovi modi di vivere. In questo caso, di eticità del vivere. Un percorso che io stessa ho compiuto, sia studiando, sia scontrandomi, facendo a pugni e poi pace con la realtà.
Insomma, credo non serva lo sguardo severo di un Dio o di un padre per comportarsi eticamente.
Come ebbe a dire Kant, serve “il cielo stellato sopra di me, e la morale dentro di me”.
In sintesi, sapere scientifico (conoscere l’universo, cosa che cerca instancabilmente di fare la fisica) ed etica autonoma, quindi consapevole e cercata.

Non anticipiamo altro su questo punto e veniamo ad aspetti squisitamente letterari. Il tuo amore per il surrealismo, in E sopra splendeva un cielo stellato, si spinge a una classificazione delle forme di vita senzienti, comprendendo anche gli oggetti, alcuni protagonisti del romanzo, come Vocabolario, Bar Sport e la Strada. Secondo te, cosa potrebbero dirci gli oggetti inanimati che non possono dirci gli esseri umani?

Io sono solita parlare con i miei due cani, ma anche con gli oggetti. Se è per questo, parlavo anche con i miei figli mentre li avevo in pancia e quando avevano pochi giorni. Ho continuato a farlo – vedi un po’ che strano – mentre li allattavo e crescevano poco a poco. Eppure non mi capivano, impossibile, quindi avrei dovuto stare zitta? O è solo immergendolo in un mondo linguistico che un bambino impara a parlare?
Con gli animali è la stessa cosa: non parli loro sperando che ti capiscano, ma per instaurare un rapporto. E metto la mano sul fuoco che i miei due cani capiscono un sacco di parole che dico loro! Le hanno imparate perché ho parlato con loro.
Ovviamente, quando un bambino è piccolo, o anche con un animale, sappiamo che non comprende effettivamente tutto quel che diciamo.
Ma con un oggetto?
Alla fine è la stessa cosa: cerchiamo di tessere rapporti con chi ci sta intorno, e gli oggetti, quando parliamo loro, di riflesso ci rispondono, come specchi. Allo stesso modo degli occhi di un neonato o di un cagnolino quando gli esprimiamo le nostre emozioni.
Se ho dato vita agli oggetti, da un punto di vista letterario, è perché questa scelta offre un inusitato ribaltamento del punto di vista sulla realtà. Lo stesso che viviamo tutti quando siamo capaci di esprimere, indipendentemente se ascoltati o meno, quel che siamo e pensiamo.

Perché il surreale in un romanzo che parla di etica?

Adoro il surrealismo, perché sa trasmettere in modo intenso suggestioni, pensieri, idee, mondi. Il simbolismo riesce a farlo limitatamente ai concetti, e per questo le semplici similitudini o piatte metafore mi stanno strette.
In un romanzo il surrealismo ha una forza travolgente: trasporta il lettore nel mondo che meglio conosce, quello onirico, di sua natura surreale, e gli racconta storie in sintonia con i sogni che fa ogni notte. Solo che in questo caso si ha una sorta di inversione del processo: si sta leggendo, non sognando, l’impatto è più forte e non si rischia di dimenticare la verità che il sogno voleva comunicarci.

Quale senso di colpa consiglieresti di acquistare?

Il senso di colpa sottende un concetto del peccato di stampo prettamente cattolico, e quindi assai poco in intimità con la sfera etica tout court.
Certo, potrei consigliare sensi di colpa rispetto ai comportamenti poco responsabili, per non dire menefreghisti, nei confronti dell’ambiente in cui viviamo. Oppure sensi di colpa che facciano vergognare per i soprusi e le violenze nei confronti di chi è più debole e indifeso, per l’indifferenza nei confronti di chi, per ragioni a me incomprensibili, viene ritenuto diverso.
Ma non servirebbe a nulla: il senso di colpa è un’arma a doppio taglio, che fa star male chi lo subisce e non sa cambiare la realtà.
Sono convinta che la sola strada sia il raggiungimento di una consapevolezza interiore.
Un imperativo kantiano che porti a considerare gli altri (il prossimo tuo) come un fine, e mai come un mezzo.

domenica 1 novembre 2020

"Thanathopia", recensione di Oliviero Canetti

 

Rubén Darío, Thanathopia. Racconti fantastici, esoterici e del terrore, a cura di Anna Laura Perugini


«...quella figura si voltò verso di me, scoprì il volto e, oh, spavento degli spaventi!, quel viso era vischioso e marcio; un occhio penzolava sulla guancia ossuta e putrida; arrivò a me un umore di putrefazione.
» (La larva)


Vi segnaliamo la recensione scritta dal professor Oliviero Canetti relativa al volume Thanathopia, opera dello scrittore nicaraguense Rubén Darío (1867-1916), una delle penne più influenti della letteratura ispanoamericana del suo tempo. 


La recensione 


«Era un bambino. Era immensamente buono... Né or­goglioso, né astioso, né ambizioso. Non aveva nes­­suno dei peccati angelici, lontano più di ogni altro dai pec­cati dia­bolici, non conosceva altri peccati che quelli del­la carne. La sua anima era purissima.» In queste parole, Ra­­món María del Valle-Inclán racchiuse lo spirito e il carattere di Rubén Darío, appena scomparso: tra i due grandi scrit­tori era corsa un’amicizia pari soltanto alla reciproca ammirazione

Definizione in fondo paradossale, in quan­­to il gran­de poeta nicaraguense si era formato sot­to il se­gno della bohème francese e del parnasse contem­po­rai­n. Aveva con­dotto una vita sregolata, ec­ces­siva, di­spen­­­diosa, destinata a portarlo a una pre­ma­tura morte per cirrosi epa­tica a soli quarantanove anni. Ciò nono­stan­te, Darío non era mai riuscito a raggiungere del tutto la sta­tura, a cui forse un po’ aspirava, di poeta “male­detto”. Come Edgar Al­lan Poe, di cui aveva un vero e proprio culto, o come Ver­­laine, soprattutto, ido­­latrato fin dagli anni della gio­­vinezza. Ma Val­le-Inclán aveva ra­gione: Rubén Darío era trop­po since­ro, ingenuo e generoso. La fiducia e la simpatia che suscitava contribuirono alla sua affer­ma­zione come poe­ta e valsero a perdonargli gli aspetti più con­troversi della sua esi­­sten­za.

Rubén Darío era un uomo fragile: cedevole ai vizi, sen­sibile al fascino femminile, non riuscì mai a trovare un equilibrio con i sensi di colpa dovuti alla sua edu­cazione cattolica. Era tutt’anima, nudo, indifeso. La sua fede, vissuta tra lacerazioni e tor­menti, si con­frontava quotidianamente con il so­pran­­naturale, il dia­bolico, il m­agico, si mescolava alle super­stizioni e al­le leggende del Nicaragua e traeva forza dai ter­rori e dagli incubi che lo tormentavano fin dal­l’in­fanzia. Il suo desiderio di pe­ne­trare nel mistero dell’in­co­no­sci­bile lo portò a cercare una risposta alle proprie an­sie nell’esoterismo, nella teo­­­so­fia, nello spiritismo. Credeva e discredeva a tutto, seguendo le sue inclinazioni, i suoi timori, la sua in­fal­libile bussola poetica, ma spesso con scarso senso criti­co. Le co­siddette “scienze occul­te” lo at­traevano in ma­niera mor­­­bosa ma pure, inevitabil­men­te, lo riem­pi­va­no di in­­quietudine e di angoscia: gli ricordavano l’ap­pros­si­mar­­si del mistero della morte, che egli rap­pre­sentava come una donna bellissima e algida, una Diana implacabile, trion­fante, eternamente vergine.

In queste cifre si racchiudono alcune delle numerose te­ma­ti­che che attraversano la sua poesia – che ha trasformato la letteratura spagnola e per la quale Darío è giu­stamen­te famoso –, ma che sono anche fondamen­tali nei suoi testi in prosa. Ingiustamente oscurati dalla grandezza dell’opera poetica, i racconti di Darío sono invece una parte indispensabile del suo mondo letterario. Simbolisti, surreali, a volte metafisici, mol­to spesso autobiografici, i racconti dariani attingono a piene mani a tutto l’armamentario post-romantico, decaden­­ti­sta e modernista. A partire dai testi giovanili, in cui il narratore rievoca il mondo meraviglioso della mitologia greca, riscrive le leggende cavalleresche, attualizza i racconti di fate, viene sedotto dagli scenari esotici­ delle Mille e una notte e ripropone una sensualità neopagana in chiave moder­na, il Darío ma­turo si avventura in ter­ritori più oscuri e inquietanti. Dagli apologhi “morali”, ispirati alla Bib­bia o alle leg­gende agiografiche, in cui predomina l’afflato mistico, si arriva al vero e proprio racconto del ter­rore, do­ve al­lu­cinazioni indotte dalle droghe, ma­te­rializ­zazioni se­­­­­polcrali, feno­me­ni inspiega­bili e presenze dia­boliche, uni­te a un opprimente, in­delebile senso del pec­cato e della morte, trasfor­ma­no il suo mon­­do di ninfe, fate e principesse in una successione di incubi ter­rificanti.


Quest’edizione in due volumi (Voce lontana e Thanathopia) dei racconti fantastici di Rubén Darío, la più ampia fino a oggi pubblicata nel nostro Paese, è grosso modo organizzata secondo una scan­­sione tematica e cer­ca di dissipare la matassa delle mol­teplici influenze cul­turali e umane che filtrarono nel vasto corpus prosastico del grande autore nicaraguense. La cu­ratrice, A. Lau­ra Perugini, qui alla sua prima espe­­rienza di traduzione professionale, si è affidata alla com­­­pe­tenza e al­l’intuito di Dario Chioli – scrittore egli stes­so, nonché profondo cono­scitore di letteratura mi­stica ed esoterica – per mettere a fuoco quelle “zone di confine” della poe­­tica dariana che, sol­tan­to negli ultimi anni gli stu­diosi han­no cominciato ad analizzare in ma­­­niera critica. 
Da parte mia, posso solo augurarmi che la curatrice, rispettando una promessa che le ho estor­to, ci conse­gni presto le traduzioni dei racconti ancora inediti di Rubén Darío.

Oliviero Canetti
Cagliari, 3 novembre 2016


Recensione del blog La libreria di Yely:


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Thanathopiahttp://www.vocifuoriscena.it/catalogo/titoli-thanathopia.html
Voce lontanahttps://www.vocifuoriscena.it/catalogo/titoli-voce_lontana.html