giovedì 23 novembre 2023

Lo scrivere per amore di Massimo Totola

 


Massimo Totola è tante cose: musicista, attore, regista, poeta. In quale di questi “ruoli” ti riconosci maggiormente?

Potrei dire che mi riconosco più come attore di teatro, regista di teatro... ma fondamentalmente mi riconosco in tutto ciò che provo a fare, come in ciò che sono, credo di essere. Diciamo che in ogni cosa che faccio cerco di tirar fuori quel che sento il bisogno di esprimere. In una parola, forse, mi definirei “creatore”. E libero... sicuramente: ciò che provo a fare lo faccio con sincerità, perché ci credo, appunto, e quindi in assoluta Libertà espressiva.

Quali sono il tuo più grande pregio e il tuo più grande difetto?

Devo proprio rispondere?
Mi viene in mente, così su due piedi, di pensare al riguardo che… amo. Amo tantissimo. E non so se sia un pregio e/o un difetto.


Per Tracce ǝ Ombre hai pubblicato la raccolta Avremmo dovuto trovare il tempo necessario. Era la prima volta che scrivevi poesie?

Scrivo da sempre. Più che “scrivere” direi che “metto nero su bianco”, come si dice, pensieri... immagini... in una forma che magari assomiglia a una sorta di poesia. Senza regole. Le conoscerei anche le regole della scrittura poetica, ma per il concetto di Libertà di cui sopra, ho bisogno di non averne. E questa non è necessariamente o volutamente una scelta. Solo non tengo conto delle regole... non ci penso proprio.

Che importanza ha per te scrivere?

Parlo spesso da solo.
Scrivere forse è più elegante.

Avremmo dovuto trovare il tempo necessario. Come mai questo titolo?

Avremmo dovuto trovare il tempo necessario è un insieme di pensieri rispetto a un momento sicuramente fondamentale della mia vita. Una sorta di rinascita, grazie all’incontro di una donna... Incontro reciproco, o così era, che mi ha sconvolto l’esistenza... letteralmente e in tutti i sensi!
Una parentesi, comunque, che si è aperta e probabilmente si è pure chiusa, di un Amore condiviso per un po’, e poi diciamo meno... o in una modalità “diversa”, che sinceramente non ho mai capito bene cosa fosse/sia.
Ma a chi è innamorato follemente probabilmente non tutte le modalità, lo stare in un modo o in un altro, possono sembrare comprensibili.
Io so che questo Amore vive ancora, e lo porterò per sempre dentro di me.
Poi, se sarà ricondiviso bene, altrimenti tutto ciò che provo e che credo, rispetto a questa Donna, nessuno me lo toglie, nessuno o nessuna lo potrà sostituire, per nessuno o nessuna proverò mai più ’sto stare...

Qual è il messaggio principale contenuto nel tuo libro?

Il messaggio, i messaggi, sono forse, che “bruciare il tempo” per paura di perdersi non serve. Che prima di dire cose bisogna avere il tempo necessario per considerare ciò che si dice, perché poi le parole io credo restano. Che prima bisognerebbe avere il tempo necessario per pensarci...
E poi è un bell’insieme di parole, che credo/penso valga la pena di leggere.

Cosa vuol dire, a tuo parere, avere successo come scrittore?

Non so bene cosa voglia dire “scrittore”, ma non so bene nemmeno cosa voglia dire “avere successo”.
Il mio successo consiste nel sapere che i miei pensieri son piaciuti e son stati degni di una pubblicazione, e che in qualche modo ho sfatato il mio “problema di essere innamorato follemente” facendo leggere ad altri ’sti miei pensieri.
E, se vogliamo, il mio successo sta/starà, perché ci sto ancora lavorando, nel davvero chiuderla, quella parentesi amorosa, e poi vedere che accadrà.
Non vorrei chiudere-chiudere un qualsiasi sia rapporto, chiaro, ma... grazie.



giovedì 9 novembre 2023

Il sapersi reinventare di Massimo Rubulotta

 

Uno dei primi titoli pubblicati da Tracce ǝ Ombre è stato Cento di 100 di Massimo Rubulotta.
Massimo, ritieni che questa sia una grossa responsabilità?

Altro che! Conosco la curatrice (Claudia Maschio) della casa editrice da tanto di quel tempo che le tracce e anche le ombre delle nostre frequentazioni si perdono tra le mille case dove ognuno di noi ha vissuto, i bar, le strade e la sua macchina per scrivere elettrica, semicomputerizzata (almeno, ricordo avesse una sorta di memoria).
Quello era il perno delle nostre serate. Lei scriveva e io suonavo.
Anch’io scrivevo. Poesie, e a volte lei mi aiutava a mettere i titoli che mi sorprendevano per i punti di vista sempre lontani dai miei, ma che facevano assumere un sapore completamente nuovo alle mie parole.
Le dicevo «Voglio pubblicare un altro libro di poesie», (ne avevo fatto uno pochi anni prima, a vent’anni). Ho sempre scritto poesie.
Lei mi diceva «Sì, le poesie mi piacciono, soprattutto le tue, ma non ho nessuno strumento per valutarle».
La casa editrice ancora non esisteva. Quando Claudia e Dario Giansanti ne hanno fondata una (Vocifuoriscena) sono tornato all’attacco: «Pubblica le mie poesie».
«Ti ho detto che non saprei neanche da che parte prenderle in mano. Però, facciamo così: scrivi un romanzo e mettici dentro una ventina di poesie. Mi sembra un buon compromesso, no?»

Entusiasta della sua proposta cominciai a buttare giù parole e parole che non erano poesie, ma racconti dei miei cani, di musica, pensieri e tutte quelle cose che vanno a comporre un romanzo. Comprese venti poesie. Fu un’esperienza bellissima. Scrivere per raccontare è stupendo.
Ma non poteva bastarmi la pubblicazione di Mai affezionarsi a una ricetta (questo il titolo del romanzo) e dicevo che un libro di poesie sarebbe stato bene nello scaffale della casa editrice.
Ho paura di aver preso la povera donna per sfinimento. Anche se non lo ammetteranno mai, ho il sospetto che abbiano creato la collana “S’i’ fosse foco” solo per farmi stare zitto. Quindi anche di questo mi sento grandemente responsabile, non solo per essere uno dei primi titoli di Tracce ǝ Ombre.

Non è la prima volta che pubblichi un libro. Non ti senti un tantino in colpa?

Mah, forse dovrei. Ma allora dovrei scusarmi con le orecchie di chi ha ascoltato i milioni di note venire fuori dalle mie percussioni.
Non ce la faccio a mettere le mie cose nel cassetto. A suonare di nascosto in cameretta. Ho bisogno di condividere con gli altri quello che sento.
Ho bisogno di far vedere/sentire le mie elaborazioni di ciò che mi circonda.

In Cento di 100 hai scelto la forma narrativa dell’haiku corredato da rispettivo quadro (sempre farina del tuo sacco). C’è una ragione particolare?

Tempo fa sono stato in ospedale a lungo. Circondato da gente che soffriva. Io stesso soffrivo. E soffrivo la mancanza delle mie amate percussioni, della musica che era il mio lavoro, la mia vita.
Avevo un vecchio telefonino che per poter scrivere ero costretto a usare soltanto la tastiera alfanumerica.
L’unica applicazione per scrivere e salvare le mie annotazioni conteneva solo cento caratteri. Cominciai a scrivere costretto a stare entro quel limite.
Avevo deciso che in cento caratteri (non uno di più, non uno di meno) dovevo farci stare le mie osservazioni e il mio pensiero. Era bello studiare il modo di farci stare tutto. Accorciare, allungare, togliere, cambiare frasi. Era un haiku, solo che al posto del monaco Zen c’ero io che cominciavo a misurarmi coi miei nuovi limiti e non scrivevo sul fianco delle montagne, come il monaco, ma su un telefonino dentro un ospedale.
Sempre in quel periodo mi hanno inserito in un percorso che prevedeva l’arteterapia e ho cominciato a dipingere.
Sono rimasto legato ai cento caratteri degli haiku tecnologici e alla pittura che adesso è parte del mio linguaggio.
A volte i titoli dei quadri sono gli haiku. A volte viceversa.

Qual è, a tuo parere, il messaggio principale contenuto nel tuo libro?

Forse che la bellezza è una sola e sono tante allo stesso tempo e, quando si riesce a vederla in tutte le cose che ci circondano, bisogna solo abbandonarsi e cercare di farne parte.
La vita segue tante logiche. Ha infiniti punti di vista. Bisogna sapersi adattare e seguire le strade che ci propone.
Non so perché faccio arte. Non so cosa significhi fare arte e non so cosa vuol dire “arte”. Forse sentire il bisogno forte, incessante di partecipare a quello che vedo; che sento. Sento che un tramonto, il mare, l’alba, la pioggia hanno un messaggio per me (per tutti), ma non riesco a decifrarlo. Però è forte. Avvolgente. Allora provo a usare lo stesso loro linguaggio e li dipingo; li suono. Uso parole per dar loro una forma che sia umana e anche… come definirla? extraumana?
La mia capacità di interazione col mondo si è ridotta del 50% o forse più. Adesso ho pochissime mani, braccia, gambe per esprimermi. Pazienza! Faccio con quello che ho a disposizione. L’importante è non legarsi a quello che si era prima. Cambiare. Sapersi adattare. Come la mia gatta.

Cosa cavolo c’entrano le dieci ricette?

L’idea delle ricette è nata pensando di inserire, assieme agli haiku e le croste, anche la forma d’arte più golosa che esista: la cucina. Per poter leggere, guardare un dipinto e anche masticare con gusto quello che c’è nel libro. Gustarlo nel vero senso del termine.
Volevo fosse Claudia a scriverle, ma non ne capiva il senso o forse non lo trovava sufficientemente letterario. Sentivo, però che il suo non era un “No” a prescindere. Che c’era ancora un margine di discussione.
E allora continuai a perorare la mia causa fino a che le dissi «Magari, invece di ricette vere e proprie, potremmo fare delle prese in giro dei detti tipo “il latte versato”; “se non è zuppa è pan bagnato”; “indorare la pillola” e via dicendo».
Nonostante tutte le nostre conversazioni riguardanti il libro fossero via email, quando lesse della presa in giro dei detti, mi arrivò lo scintillio dei suoi occhi.
Cominciò a scriverle ed erano bellissime. Divertentissime.
La mia idea iniziale, del libro da mangiare, era completamente stravolta ma almeno così alleggerivamo un po’ la pesantezza degli haiku e gli scarabocchi delle cento croste.

Qual è, se c’è, il libro migliore che hai letto, quello che ti ha cambiato la vita?

Tutti i libri che leggo mi cambiano la vita, in un modo o nell’altro ma l’unico che ho letto tre volte (penso quarant’anni fa) è stato Herzog di Saul Bellow.

Cosa vuol dire, secondo te, avere successo come scrittore?

Penso vendere tanti libri. Essere invitati ai festival, fare presentazioni.
La stessa cosa per un musicista. Sostituisci le parole “libri” e “presentazioni” con “dischi” (anche se non si usano più) e “concerti”.
Penso, comunque che ha successo chi ha carisma. A prescindere dal valore di quello che si scrive o si suona.


sabato 4 novembre 2023

Il giallo introspettivo di Franco Ceradini


Franco Ceradini ha di recente pubblicato per Tracce ǝ Ombre il romanzo giallo La lingua di Menelik. Cerchiamo di scoprire qualcosa di più su di lui e sul suo ultimo parto letterario.

Partiamo dalla domanda più difficile: chi è Franco Ceradini?

Difficile parlare di sé. Mi ritengo una persona curiosa, che a sessantotto anni compiuti non smette di indagare e di studiare. 

Chi ti segue come scrittore ti conosce soprattutto come romanziere di ampio respiro, che ama entrare nei personaggi, nelle loro psicologie e peculiarità caratteriali. Cito, a titolo di esempio, Saturnino e le ombre, pubblicato circa dieci anni fa da Vocifuoriscena. Come mai, adesso, il passaggio al genere giallo con La lingua di Menelik?

Il giallo mi ha sempre affascinato. L’incontro con Georges Simenon, qualche anno fa, mi ha convinto a provarci a mia volta. Di Simenon avevo letto qualche Maigret, ma sono stati i suoi romanzi “duri” a conquistarmi, con trame semplici ma con approfondimenti psicologici miracolosi. Un altro autore che mi ha coinvolto è stato Chandler. Il suo Marlowe, a metà fra l’eroe alla John Wayne e il picaro, schiacciato dalle forze avverse e mai morto, incarna bene un lato del carattere americano, spaccone e rude nei modi, ma fragile nel profondo, sempre in pericolo e mai disposto ad arrendersi. 

In generale, mi piace del giallo la possibilità che offre di accoppiare vari elementi. C’è l’inchiesta, la ricerca del colpevole, e c’è la descrizione d’ambiente, la costruzione meticolosa del personaggio. Questi sono gli aspetti della scrittura che ritengo più consoni alla mia sensibilità e le cose che, anche a giudizio di chi mi legge, mi riescono meglio. Diciamo che nei miei gialli c’è ovviamente il delitto e qualcuno che tenta di venirne a capo individuando il colpevole, ma soprattutto c’è il resto. I miei personaggi sono prima di tutto alle prese con i propri problemi. Il giallo non è un genere facile, ci sto lavorando. Spero di riuscire a raggiungere una pienezza di stile nel giro di un paio di altri lavori.


Perché hai ambientato il romanzo in un paesino (fittizio) del Trentino?

Non sarei mai in grado di scrivere qualcosa che fosse ambientato in luoghi che non conosco, con cui non abbia un legame emotivo. Non potrei mai, per dire, scrivere un giallo internazionale, o un romanzo storico. Ci ho anche provato, ma non mi usciva nulla, non c’era sintonia. Il Trentino lo conosco un po’. A Valcava di Segonzano io e mia moglie abbiamo una casetta. È il nostro rifugio, ci sono le nostre cose, lì abbiamo amici, ambiente, atmosfera, tutto quello che ci serve per essere sereni. Quando mi sono sentito pronto per il giallo, mi è venuto spontaneo prendere quei luoghi famigliari come riferimento. La Valsolda del romanzo è ispirata alla Valcava reale. Ma non solo, ho mischiato le carte. Dopo La lingua di Menelik vorrei scrivere ancora qualcosa di “trentino”, ma vediamo. Valpolicella e Verona mi attirano. 

Quanto di autobiografico c’è in Giulio Marcarino, protagonista di La lingua di Menelik?

C’è abbastanza. Come in tutti gli altri personaggi del romanzo, ma in lui di più, ovviamente. Un autore vive nei suoi personaggi ed è ovvio che in ognuno di loro infili qualcosa di sé, inconsapevolmente. Nell’ispettore Giulio Marcarino credo che di mio ci siamo due, tre cose: l’ardore per la verità, una ingenuità di fondo che lui tenta di correggere facendo appello al suo senso critico, la morbidezza del carattere. Mettiamoci anche la testardaggine, con tratti di rigidità. È un uomo con molte risorse, ma irrisolto, tormentato. 

In generale, quando scrivi hai tu il controllo dei personaggi o loro fanno quello che vogliono?

Ho sempre lasciato correre i personaggi, con pochi controlli. Saturnino e le ombre è stato il punto di arrivo del mio vagabondare nella scrittura. All’epoca ero preso dalla lettura della Récherche, e credo si senta. Il passaggio al giallo rappresenta anche il tentativo di mettere ordine, di arrivare a uno stile asciutto e a intrecci con una geometria meno variabile, diciamo così. Sentivo l’esigenza di limiti precisi e nel giallo li ho trovati. Per la stesura di Menelik devo però ringraziare una certa Claudia Maschio, superego implacabile che mi ha tenuto a bada, impedendomi di smarrire la strada (ride). 

Quale dei tuoi personaggi, di questo o precedenti romanzi, vorresti essere e perché? 

Giulio Marcarino. Inesauribile nella ricerca, ma disincantato circa la possibilità di pieno successo; innamorato della giustizia, ma consapevole che i codici non ne esauriscono il campo, che oltre le leggi scritte, lo ius, vi è lo spazio infinito dell’aequitas, che va oltre le regole che l’uomo si è dato.
Detto di Giulio, posso aggiungere che anche tra i vecchi personaggi sicuramente potrei trovare chi mi sia consono. Ma non me li ricordo… (ride

Quanto ti rattrista il vedere un libro trasformato in oggetto di vendita, in merce?

Intendiamoci: sarei felicissimo di vendere un milione di copie di La lingua di Menelik, e credo lo sarebbe anche l’editore. Tutti quelli che scrivono aspirano a essere letti. Il destinatario c’è sempre: anche chi scrive un’autobiografia aspira a un lettore. Ma credo che il riferimento sia ad altro, all’industria che sforna libri come una catena di montaggio. Da qualche anno leggo principalmente gialli e una buona parte di essi, specialmente i best-seller, sono noiosi, ripetitivi. Dopo il primo successo e trovata la chiave, tanti autori non fanno che riproporre lo stesso libro. Si somigliano tutti, non tanto nelle trame, ma nell’intreccio schematico e sempre uguale, nel tipo dei personaggi, disancorati dal contesto sociale, privi di spessore psicologico, stereotipati. Vendono a carrettate, ma non mi piacciono e cerco di evitarli. Ma buon per loro. Devo dire però che in giro ci sono anche dei maestri. Uno di questi è lo scozzese Ian Rankin. Uno scrittore, un giallista formidabile che ho scoperto da poco e che mi sorprende sempre. 

Cosa vuol dire, secondo te, avere successo come scrittore?

Scrivere con uno stile mio, e ci sto arrivando, è già un successo.