domenica 28 febbraio 2021

Bello ciao


Da bambina ho avuto la fortuna di fare innumerevoli passeggiate tra le Alpi, in compagnia di Silvia (la Sorella), i miei genitori, cugini, zii e nonni. E camminando si cantava. Ovviamente le canzoni le proponevano gli adulti del nostro folto gruppo, e una delle più gettonate era Bella ciao.
Quel ritmo incalzante, il testo graffiante e crudo, ma anche simbolo di rivolta e coraggio, mi si è impigliato nelle pedule della memoria e, a scrollarle dai piedi oggi, ecco dei sassolini per ridar loro valore e forza. Perché la vita di una donna spesso è ardua come scalare non una, ma mille montagne. Specie se, mentre cerca di andare avanti, di salire, di raggiungere la propria cima, c’è qualcuno pronto a farla precipitare in un crepaccio di desolazione, umiliazione e brutale sofferenza. 

A quel qualcuno, vogliamo dire semplicemente Bello ciao.
E lo faremo – come sempre – con la raffinata arma della letteratura, attraverso le parole di scrittori e scrittrici (soprattutto) che, come Cyrano, usano la penna a mo’ di una spada contro l’ingiustizia.
Lo faremo per una settimana e non solo l’8 marzo, per ricordare che ogni giorno la violenza sulle donne va condannata, aborrita, combattuta

Una mattina, mi son svegliata,
o bello ciao, ciao, ciao.

sabato 27 febbraio 2021

Chiamalo, se vuoi, surrealismo

 


Come tutte le avanguardie storiche, nel corso del tempo il surrealismo ha perduto la funzione e gli obiettivi che si era preposto al suo nascere. La carica dirompente, polemica, nei confronti delle cristallizzazioni del modo di percepire il reale e trasporlo nell’oggetto artistico, si è affievolita insieme alla consapevolezza di un fatto ormai acquisito. L’assimilazione del surrealismo nella pittura, nel cinema, nella letteratura, ne ha dissolto il criticismo spirituale, filosofico, psicologico, che nei primi anni ’30, ’40 del Novecento minava dall’interno le strutture gnoseologiche dell’esperienza, allargando le frontiere della coscienza oltre i sillabari del razionalismo con l’inclusione del mondo dell’inconscio come parte imprescindibile e integrante dell’approccio relazionale con l’altro da sé.

Il materiale espressivo e lessicale che serviva a mostrare l’irruzione destabilizzante del linguaggio onirico, prima irrappresentabile, in quanto avulso dai meccanismi e dalle categorie tramite i quali la ragione ci restituisce la rappresentazione logico-scientifica della verità, è divenuto abituale elemento semantico-esplicativo, se non di spettacolarizzazione effettistica. Il surrealismo si è cangiato addirittura in un genere, attraverso non poche contaminazioni, provenienti soprattutto dal fantastico, dall’horror, dal ghost story. Ma anche attraverso diverse sue acclamate interpretazioni in chiave autoreferenziale, come nel cinema di Fellini. 

Noi ora ci poniamo la riflessione se e in quale misura sia lecito definire surrealista una certa maniera di fare letteratura. Maniera, poiché non credo si possa più parlare di corrente o meno che mai di movimento. D’altronde, dopo tutte le rivoluzioni culturali e artistiche consumatesi nel cosiddetto secolo breve, non esiste invenzione creativa che non rientri nel dejà vu. Perciò stiamo vivendo da decenni in una età dei manierismi perenni. Detto questo, cerchiamo di affrontare la problematica sotto il profilo delle strutture e delle soluzioni narrative scelte dagli autori. 

Diamo per scontato che in pittura e nel cinema il surrealismo si è declinato al meglio, trasmettendo nell’immediatezza delle forme e delle visioni la propria specificità programmatica. Vale a dire l’apparente sconnessione alogica delle figurazioni e delle ideazioni in rapporto allo spazio-tempo del dipinto o del film. Fino a generare iconiche bizzarrie o suggestioni stravaganti (Dalí), accostamenti luministici e concettuali meta-razionali (Magritte), sconfinamenti nel metafisico (De Chirico), deragliamenti improvvisi dai binari del realismo (Buñuel), sincretismi immaginifici e funambolici (Jodorowsky). Su questa congerie talvolta pletorica di ridondanze s’innesta spesso la tematica della latenza del messaggio che serpeggia e s’insinua nell’opera pittorica o cinematografica, al pari e con lo stesso intento di una decodificazione freudiana del sogno. 

Il sogno, infatti, funge da veicolo linguistico antitetico alla sintassi fabulatoria dello stato di veglia, dove si dipanano le legislazioni, gli ordinamenti e i sistemi, la Storia, i romanzi, il buon senso, le logiche geometriche, l’etica, le speculazioni del pensiero. Ma le passioni e le follie scaturenti dagli abissi dell’inconscio scardinano le sicurezze illusorie su cui si erge la civiltà dell’ego. Merito del surrealismo è stato far implodere gli equilibri e gli assetti costitutivi della ragione imperante, alludendo al Sottosuolo che ci fagocita ogniqualvolta rinunciamo ad accogliere nella nostra identità il sosia oscuro che ci accompagna come un’ombra repulsiva e ripudiata

Tuttavia, a mio parere, il Surrealismo risulta molto più cerebrale e intellettualistico che altre avanguardie, per l’esigenza di tradurre e comunicare la complessità simbolico-allusiva dell’Es con gli strumenti espressivi e i tecnicismi propri dell’arte, in una ricerca e una applicazione lontana dagli automatismi spontanei del freudismo. Basta osservare le opere dei grandi maestri del surrealismo storico per verificare quanto siano distanti, per esempio, dall’action panting di Pollock, e abbiano dato luogo paradossalmente a una sorta di accademismo anticonformista, epigone di un romanticismo deformato. 

Più difficile individuare in letteratura la stessa purezza connotativa. Tracce di surrealismo lo riscontriamo già nel realismo magico di Bontempelli; nello sperimentalismo di Joyce (Finnegans Wake più che nell’Ulisse), mentre in Kafka prevale la lucidità delirante di una alterità enigmatica elevata a sistema socio giuridico, che soffoca e giustizia gli individui quando cadono nelle sue spire. 

L’allegoria e la metafora occhieggiano in certi racconti pseudo-surreali di Buzzati o nella stessa situazione tratteggiata dall’autore nel Deserto dei Tartari, in cui la sospensione della credulità funge da postulato iniziale, dopodiché gli eventi si dotano di una loro consequenzialità logica e necessaria. Più a ritroso troviamo lampi surreali in Edgar Allan Poe. Mi riferisco al finale del suo romanzo breve Gordon Pym. In alcuni passaggi del Maestro e Margherita di Bulgakov. Per non parlare del grande Gogol, nel suo lambire il surreale partendo dal grottesco, nei Racconti di Pietroburgo, dove di tanto in tanto pare fluttuino le figurazioni incantate e fiabesche di Chagall a illustrarne lo spirito più nascosto. 

Nel Novecento squarci onirico surreali all’insegna dell’orrore li troviamo in Lovecraft (I miti di Cthulhu, Le montagne della follia…) e saltando a un altro orizzonte letterario, nel Pasto nudo di William S. Burroughs

Il surrealismo percorre la letteratura, vi aleggia, la intride, ma escludo che oggi possa far sorgere un filone precipuo. A meno che non se ne accetti la fusione col fantastico, o meglio il fantasy, interagendo con esso e scambiandosi i favori. Non bisogna confonderlo, invece, con gli esiti raggiunti dai monologhi introspettivi in progress, che recuperano l’assodato e arcinoto flusso di coscienza, di joyciana memoria passando per Virginia Woolf, o il psichedelismo lisergico della beat generation con le varie derive e modulazioni.

In conclusione, il surrealismo in letteratura ha un impatto sul lettore troppo mediato dall’abuso che se ne è fatto in ogni campo, compresa la pubblicità, colpevole di aver decontestualizzato i linguaggi e le forme dell’arte banalizzandone gli assunti.
Il suo potenziale più esplosivo comporterebbe uno slittamento dalla percezione multimediale, che ormai abbiamo interiorizzato, verso un Altrove epifanico davvero conturbante o comunque capace di sorprenderci e sovvertire le prospettive da cui vediamo il mondo e ne siamo visti.
Dovremmo depurarci la mente e rivedere con senso critico tutte le stazioni che la parola ha superato, dalla fase orale all’etimo, fino alla sedimentazione stratificata delle accezioni acquisite successivamente, per poter rigenerare gli archetipi che essa è in grado di evocare e trascendere la fenomenicità sensoriale, affinché si recuperi l’esperienza del numinoso, presupposto per riappropriarsi del surrealismo come estrinsecazione dell’inconscio collettivo e non soltanto del proprio Sé.

Michele Branchi 

giovedì 25 febbraio 2021

La prosa “indomita” di Simona Friuli


Simona, cosa vuol dire, secondo te, avere successo come scrittore?

Lo scrittore di successo è lo scrittore morto, di cui si può, finalmente, dire del bene.

Come reagisci alla sindrome della pagina bianca?

Non “pagina bianca”, piuttosto condizione di mutismo, ma assoluto o, ancora, sfiducia nella Parola – che serva, che salvi, che sia guida, che possa, poi, qualcosa –, per cui è impensabile parlare. Allora si sta zitti, fino a che non viene nuovo sentire, ovvero finché non manca il canto, forse. 

In generale, hai tu il controllo dei personaggi o loro fanno quello che vogliono?

Personaggi non sempre: quello che scrivo ora, nel segreto, non ne ha – non così come si legge sempre, forse. Li desidero coerenti, per integrità, e pecco. 

Da dove nasce la raffinatezza, oserei dire musicale, della tua prosa?

È prosa che nasce nella musica – prosa come musica, prosa-musica – per essere cantata: seguo il canto, con le orecchie. 

In Indomite troviamo una varietà di personaggi femminili, eroine di fiabe assai note, ridipinte con sferzate di poetica rabbia: come hai conciliato rabbia e poesia?

Sono dello scrivere senza scopo, per solo desiderio (o vocazione), senza fine che non sfoci nella Voce, e vi pratico assieme l’arte del fromboliere – che si gioca in esattezza. Scagliare sassi, quindi, e andare a segno, e ferire. Fare guerra di voce: è un temporale – contesa generatrice. 

Quale dei tuoi personaggi vorresti essere, e perché?

Mi sento – non tutta, ma qualcosa – la mia Rossa, ma la vita scolora; forse, adesso, sono la Indomita di tutte più rovinata, la Domata. Mi manca, con ammirazione, la forza di Bambina – certo, fu aiutata dalle Fate – e questo mi auguro. O forse, mi ostino: la vita sciolta della Rossa. 

Qual è il libro migliore che non hai scritto?

Agli antipodi per lingua, ma di mie sorelle o fratelli di male: coincidenza, voce amica, consolazione. I miei-non miei: gli scritti tutti della Ortese, che mi mette le mani in cuore – anche io sempre esclusa dalla Festa –; Buongiorno, mezzanotte, di Jean Rhys, o il suo Viaggio nel buio; Il Castello, o Il Processo di Franz Kafka; le Poesie di Sylvia Plath. Tutti per comune sentire; oggi questi – anni fa, avrei parlato delle Cime Tempestose.
Avrei voluto essere, però, Giorgio Colli, invece, o Kerényi, o Diano, o Eliade
Gran peccato e spreco. 

Se tu non avessi fatto la scrittrice, quale sarebbe stato il piano B?

Mondo è inabitabile. Senza esposizione, che non sia Gioco almeno, la burattinaia; o la rosaista, o, di più, fare musica col sax. La Voce non mi ha servita bene, in altro campo.


domenica 21 febbraio 2021

Il surrealismo è...


Chi mi conosce sa che mi vengono per la testa soprattutto idee irrealizzabili. E anche che cerco di portarle avanti lo stesso. Non tutte, sia chiaro: ce ne sono alcune che sembrano oro appena partorite, poi la mattina dopo mi chiedo “Ma quanta birra ho bevuto ieri sera?”.

“Il surrealismo è…” fa parte delle idee che il giorno dopo ho trovato ancora interessanti.

Innanzitutto perché, nella collana i Ciottoli la parte da leone la fanno proprio i romanzi di stampo surreale, che mai ho fatto mistero di amare in modo fin viscerale. In seconda battuta perché sono dell’idea che questo blog debba essere un’occasione di incontro, e non esclusivamente qualcosa di calato dall’alto dagli addetti ai lavori
Ecco, mi auguro che, dopo aver letto queste righe, venga voglia di dire Tutto sbagliato, so io cosa il surrealismo è o quanto meno voglio esprimere cosa penso al riguardo. E ci arrivino (a fine articolo come farlo) proposte da condividere. 

Il surrealismo appartiene a tutti

Sogniamo ogni notte, talvolta ci ricordiamo quell’onirico viavai di personaggi, emozioni, rastrellate in faccia, cadute a precipizio in crateri lunari, il modo cinico in cui abbiamo gettato nella salamoia la proffe di latino, recitandole le sole poche parole che ci sembravano appropriate e che non è stato poi così difficile mandare a memoria: “Mors tua, vita mea”.
Il surrealismo è parte dei sogni, e dai sogni attinge la sua pregnanza. In questo è diverso dal reale, ma del reale parla eccome.
Chiedete a Freud, se vi capita. 

Cosa rappresenta per me il surrealismo?

Amo il surrealismo cinematografico, anche se non me la sento di abbracciarlo tutto. Diciamo che da Buñuel e Duchamp ne è passata di acqua sotto i ponti prima di arrivare a Woody Allen e capolavori come Harry a pezzi, Midnight in Paris e Basta che funzioni.
Adoro il surrealismo pittorico: Salvador Dalì, Magritte, per citare due grandi maestri, ma che dire del surrealismo russo, sorprendente per le rappresentazioni visionarie e inchiodanti della spazzatura umana?
Adoro il surrealismo letterario: Kafka, Bulgakov, Queneau, Calvino sono stati i miei imprescindibili maestri. E so bene che in quel che scrivo c’è traccia di loro, deve esserci per forza. Solo che… non ne sono consapevole mentre lavoro a un romanzo.
Insomma, io il surrealismo non lo penso proprio.

Come scrivo, allora?

Avverto una pressione sul collo, quasi volesse distogliermi, farmi voltare, sorprendere, impaurirmi, ma non voglio darle bado. Invece, come tento di scrivere, la pressione diventa zavorra, macigno, ostacolo. Sollevo le dita dalla tastiera e le porto dietro la nuca. È un coltello affilato, lo strappo e sento scorrere il sangue lungo la schiena, un calore dolceamaro, che sa di ricordi passati, di momenti terribili o terribilmente belli, di licheni, scarpe nuove e erba cipollina.
Intingo le dita in quel sangue, lo lecco, e vedo me stessa da sotto il tavolo, ormai inutile, mentre sulla tastiera si compongono idee che non mi appartengono più e scivolano sulla pagina bianca mischiando inchiostro, sensazioni e paure che non sapevo di avere. 

Si può definire il surrealismo? 

Il bello del surrealismo è che è più difficile da acchiappare in un concetto che una trota a mani nude: per quanti sforzi si facciano, sguscia tra le mani. Forse perché il surrealismo non fotografa la realtà, ma la mostra metaforicamente, ti ci porta dentro dalla testa ai piedi, superando il filtro del linguaggio e puntando a parlare in simultanea al conscio e all’inconscio, riappacificandoli dalla spaccatura che il vivere sociale quasi sempre esige.
Semplificando ancor più, il surrealismo non descrive il mondo, lo ricrea attraverso immagini che provocano un corto circuito tra ciò che diamo che scontato e la nostra pigrizia mentale. E di colpo torniamo a veder le stelle.
Ma anche dopo tutte queste parole, la trota è sfuggita.
Buon per lei.

N.B. Per Il surrealismo è… manda le tue proposte a questo link, oppure rispondi di seguito nella discussione del blog.

venerdì 19 febbraio 2021

"Indomite", la recensione del blog La bottega dei libri

 



Cari lettori,

Vi segnaliamo la recensione pubblicata quest'oggi sul blog La bottega dei libri per Indomite di Simona Friuli:

https://www.labottegadeilibri.it/recensione-indomite-storie-di-coronate-e-di-bestie-di-simona-friuli-vocifuoriscena/recensioni/

Buona lettura!

“Focu e Faiddi” raccontato da Michele Branchi

 


Focu e Faiddi – o della brace dei sensi

La genealogia emozionale di questo romanzo, profondamente immerso nella sicilianità umana, è radicata in una esperienza personale vissuta qualche anno addietro. In vacanza in un paese ubicato nelle valli dei monti Nebrodi, stavo assistendo alle annuali celebrazioni patronali, mescolato alla folla che gremiva la piazza in attesa che la statua del santo uscisse dalla chiesa madre sopra una portantina sorretta da una decina di infervorati volontari. Il mio atteggiamento era simile a quello dell’etnologo che intende documentarsi sugli usi e costumi di una popolazione e, in particolare, sullo spirito religioso che induce generazione dopo generazione a ripetere gli stessi rituali collettivi.
Nel momento cruciale, quando l’attesa raggiunse l’acme della tensione, discese un silenzio assoluto e universale, in cui la folla si compattò in un corpo solo per farsi offerta sacrificale al santo, totem della comunità. Io stesso, distaccato da qualsiasi genuflessione devozionale, ne fui coinvolto, partecipando a quella trepidante epifania. D’un tratto dall’interno della navata si alzò l’urlo di esortazione dei portatori nell’atto di sollevare il peso materiale e metafisico della fede ereditata dagli avi. Costituiva un incitamento e a un tempo una testimonianza unanime di sottomissione, entrambi viscerali e ancestrali.

Quando uscirono, all’unisono riecheggiarono i fiati e le percussioni della banda e i fuochi d’artificio, e per alcuni secondi si compì lo sposalizio mistico fra il santo e la sua gente, tramite una sorta di rapimento estatico, in cui anch’io mi obnubilai, svincolandomi dalla materia e dalla coscienza individuale, per fondermi nella corale sacralità del rito. 

Riflettendo sull’esperienza, effettuai ricerche antropologiche, etnografiche, storiche e lessicali, per documentarmi sulle origini e gli sviluppi di tali manifestazioni risalenti a epoche precristiane, in cui nel corso dei secoli il cattolicesimo imperante aveva innestato le proprie forme, adattando e miscelando i substrati pagani con le istanze confessionali della propria fede, in un crogiolo pulsionale ribollente di furori orgiastici e dionisiaci, veicolati e sublimati nella spiritualità e nella simbologia, ma sempre pronti a emergere dai guinzagli clericali. 

Sulla base di questi studi e di un contesto sociologico assai peculiare e tipizzato, ho creato una storia tanto romanzesca quanto verosimile, che esce dagli schemi del noir o del giallo in senso lato, proponendosi semmai come un gotico moderno, dai risvolti storico-etnologici, intriso di sessualità morbosa, religiosità carnale e di declinazioni deliranti. Le tematiche affrontate sono parecchie e ruotano attorno alle aberrazioni del potere, che strumentalizza le credenze religiose per governare secondo i propri interessi economici e soddisfare gli appetiti sessuali che sfociano in liturgie sanguinarie e antropofaghe, peraltro in segreto accettate e favorite dalla comunità succuba delle violenze e dei soprusi dei notabili del luogo.
Si tratta di mali endemici che fuoriescono dai confini geografici della Sicilia e appartengono alla specie umana e rivelano il lato oscuro presente in ognuno di noi, l’ombra junghiana con la quale dobbiamo fare i conti se vogliamo affrancarci dalle fobie e dai pregiudizi morali ed etnici.

Nel romanzo non esistono personaggi integralmente positivi, solo uomini e donne che si scontrano con la coscienza per comprendere le ragioni del loro ruolo nel mondo e nella società e operare scelte di conseguenza, illudendosi di agire liberi dai vincoli delle passioni e dai condizionamenti sociali e psicologici. 

Alfredo, il protagonista, un giovane genovese, abulico e sottomesso alla moglie ricca per opportunismo, che vegeta nei sentimenti e non si interroga mai sui valori etici ed esistenziali, si trascina in una vacanza in Sicilia, nella villa dei suoceri, che lo detestano, attorniato da un mondo e da una fauna umana estranea alla sua mente abitata da stereotipi e schematismi semplicistici. Il suocero, uomo di potere, gli presenta i suoi amici più intimi: Befumo, un ricco imprenditore edile; il professor Mastrangelo, da trent’anni sindaco monocratico del paese; e l’avvocato Galati, il più giovane dei quattro, ambizioso e arrivista. Tutti e quattro portano lo stesso anello di onice nero.
Il particolare incuriosisce Alfredo, che comincia a domandarsi e a domandare se e che cosa mai rappresentino e quale segreto nascondano sotto l’apparenza di un banale ornamento. 

Di fronte alle reticenze della moglie e dei familiari, Alfredo sembra rinunciare ai suoi propositi investigativi, ma l’incontro con Francesca Rubino, giovane madre e vedova del medico condotto, scomparso in circostanze sospette, gli sarà fatale. La bellezza, la sensualità, i misteri che la donna incarna e palesa, la sua personalità solare e insieme tenebrosa, le suggestioni arcane che sa evocare, le metamorfosi straordinarie di cui è capace, seducono Alfredo, lo calamitano e imprigionano in una dimensione dove regna l’irrazionale, il pensiero e il ritualismo magico, la potenza esoterica dell’inconscio. Un legame sotterraneo li unisce. Non è né amore né desiderio, benché siano due fattori che adombrino i loro rapporti e generino equivoci e malintesi. 

Disarmato e inerme nei confronti dello strapotere dei quattro notabili e della diffidenza ostile che lo circonda, soggiogato da Francesca, in piena crisi di identità, Alfredo starebbe per soccombere, se non intervenisse il dottor Spedalieri, un raffinato etnologo siciliano, a cui va a chiedere lumi e soccorso. La strana coppia si mette a indagare, ben sapendo di avere di fronte un nemico invincibile, poiché sostenuto dal consenso sommerso della comunità, delle forze dell’ordine e della chiesa. 

La storia dell’isola si dipana così alla luce della sovrapposizione di civiltà eterogenee, dai Greci ai Romani, dagli Arabi ai Normanni, dai Borboni ai Viceré, fino allo sbarco di Garibaldi e ai reclutamenti forzosi in nome dell’Unità d’Italia. La latitanza dello Stato ha impedito che si formasse una identità nazionale vera e consolidata, permettendo ai vari baroni, gabellotti, e notabili locali, di spadroneggiare ed essere riconosciuti dalla collettività nel ruolo indiscusso di autorità istituzionali. La forza di questi grandi o piccoli imprenditori della criminalità organizzata non potrà mai essere debellata, se non con una rivoluzione delle coscienze, che persegua e affermi la forza della verità a onta delle paure e delle omertà, e superi l’individualismo esasperato del singolo arroccato nella propria fame di possesso, nel fatalismo rinunciatario, nel credere che le cose non possano mai cambiare poiché conviene a qualcuno che non cambino. 

Alfredo e Spedalieri ci provano, percorrendo una strada lastricata di enigmi, di rebus indecifrabili, di messaggi occulti, consultando registri, schede cliniche, archivi, analizzando testi antichi e canti propiziatori come quello che dà il titolo al romanzo. Il loro sarà un sentiero funestato da fuochi e vampe, che bruceranno innocenti e la fiducia nelle migliori risorse dell’uomo. 

Il romanzo è scritto in lingua italiana, ma sono ricorso al dialetto siciliano in molti dialoghi e in un capitolo fondamentale, in cui ho mescolato il latino al siciliano per cercare di restituire presumibilmente il lessico scritto da due frati minori conventuali dotati di scarsa cultura e dimestichezza con la lingua aulica e che masticavano il latino medievale attinto dalla liturgia.
Il dialetto da me usato e che metto in bocca ai personaggi del luogo non ha pretese filologiche, ma intende trasmettere per lo più il suono e il colore espressivo di certi modismi peculiari della popolazione abitante nei comuni sparsi per le valli dei Nebrodi e lungo la costa.  

Michele Branchi

mercoledì 17 febbraio 2021

Michele Branchi: la percezione dell'artista

 


A parte essere uno scrittore – per Vocifuoriscena hai pubblicato ben tre romanzi – chi è Michele Branchi?

Una persona che ama svisceratamente la vita, e ogni forma artistica, in virtù della quale l’insensatezza dell’esistenza si dota di senso e di scopo, tramite la creazione di realtà sempre nuove e rigeneranti, in se stesse uniche e compiute. La percezione dell’artista è molto più ricca, sfaccettata, e per questo anche più problematica, ma la sola in grado di lenire le disillusioni e i disincanti, di colmare il vuoto, di superare la noia, di sublimare l’angoscia e le paure, trasponendole nell’oggetto da lui creato. Detto questo, Michele Branchi mi fa compagnia da moltissimi anni con la sua personalità poliedrica e il suo istrionismo eclettico e talvolta un po’ barocco. 

Cosa vuol dire, secondo te, avere successo come scrittore?

Stabilire un ponte di comunicazione costante con i lettori, una sorta di familiarità empatica, che da una parte persuade l’autore che non scrive soltanto per se stesso e dall’altra crea nel lettore l’attesa e l’aspettativa sulla prossima opera, alla stregua di un vecchio amico a cui si è affezionati e che non si vede l’ora di rivedere e dialogare con lui sulle pagine.
Senza i lettori, i libri sarebbero tutti incompiuti. 

Come reagisci alla sindrome della pagina bianca?

Non mi è mai capitato. Io ho sempre sofferto del contrario. Una pagina bianca mi stimola a riempirla. Un fenomeno psicologico analogo all’horror vacui, l’angoscia per il vuoto, l’assenza, che si placa solo quando il vuoto diventa pieno, l’assenza presenza.


In generale, hai tu il controllo dei personaggi o loro fanno quello che vogliono?

Tendo a pianificare il lavoro, a delineare prima i personaggi, a farli agire in un certo ambiente, a sottoporli a rigorosi controlli per non indurli in contraddizione. Premesso ciò, mi accorgo alla fine che spesso qualcuno pronuncia frasi che gli avrei volentieri attribuito, compie azioni che a posteriori avrei ritenuto utili o necessarie, quasi che mi leggesse nell’inconscio. Ma la cosa più straordinaria, che si ripete ogni volta che termino un romanzo, è la meraviglia di aver creato qualcosa che prima non c’era

Quale dei tuoi personaggi vorresti essere e perché? 

Il professor Angeloni, l’Iconomante, intangibile al tempo che scorre, privo di ansia da iperattivismo, che non conosce la velocità, pur non mancando mai agli appuntamenti e agli impegni importanti, preciso, profondo, scrutatore d’anime e decifratore di enigmi pittorici. Non si preclude nessuna strada, nessuna metodologia, non scarta a priori nessuna ipotesi. È uno studioso appassionato del suo lavoro, ma non si fa coinvolgere facilmente dalle passioni. Sotto certi aspetti mi riconosco in lui, ma è tutt’altro che un mio clone.    

Qual è il libro migliore che non hai scritto?

La storia di un uomo che non si accorge di essere già morto e che vive la sua vita consueta senza ravvisarvi alcun cambiamento, finché non si mette a investigare su un omicidio, scoprendo infine di essere la vittima e l’assassino, pur non ricordando di essersi mai suicidato. Capirà che il morire è un eterno ripetere l’attesa della morte. 

Da dove nasce la tua passione per il genere noir?

Dall’amore per il mistero e dalla consapevolezza che è l’unica forma letteraria che da almeno trent’anni rispecchia il nostro tempo, nelle sue molteplici varianti e possibilità narrative e strutturali. Basti pensare che non esiste casa editrice che non abbia una collana dedicata al giallo/noir, e che mentre una volta era solo un genere confinato entro specifici territori sconsacrati dalla cosiddetta “alta letteratura”, ormai è solo una esigenza di marketing editoriale inserirlo in una categoria subito identificabile, anche se vi si possa trovare il serial usa e getta, il best seller o l’opera autoriale che trascende il genere, come lo fu Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, che purtroppo, sia detto in sordina, oggi difficilmente sarebbe pubblicato, proprio per il suo essere figlio degenere del giallo, non collocabile in un codice merceologico. 

Quanto ti rattrista il vedere il libro trasformato in oggetto di vendita, in merce?

Non mi rattrista, poiché sarebbe da ipocriti disconoscere la funzione commerciale che consente al libro di circolare il più possibile. Triste è appiattirsi e omologarsi al best seller di turno, al libro come fenomeno di costume, al titolo o alla firma intesi soltanto come griffe, e soprattutto acquistare e leggere i libri dei soliti giornalisti televisivi che si parlano e scrivono addosso. Per non parlare di quei personaggi resi popolari dai media che si fanno scrivere i libri dalle redazioni delle case editrici, sapendo che saranno venduti un tanto al chilo presso quello stesso pubblico che li segue in tv e nei social. Infine, è triste che si sia perduto il piacere della letteratura, quella vera, che richiede uno sforzo ermeneutico impensabile per il gregge che ormai si esprime con trenta vocaboli stereotipati e non sa che l’unico “Grande Fratello” è quello di George Orwell, le cui profezie si sono purtroppo realizzate, tramite modelli di sviluppo globale e condizionamenti forse peggiori degli scenari prefigurati dal grande scrittore inglese. 

Perché, essendo tu genovese, hai ambientato Focu e Faiddi e Niuru in Sicilia, peraltro cimentandoti nello scrivere in siciliano?

Conosco la Sicilia da quando mio suocero mi fece conoscere il suo bellissimo paese (Castell’Umberto) situato sui monti Nebrodi, da cui si possono ammirare panorami mozzafiato delle isole Eolie, della valle del Demone e dell’Etna. Mi sono immerso nella realtà del luogo forse meglio di un siciliano, con lo sguardo dello scienziato curioso e compiaciuto, e ho cercato di apprenderne la lingua, bellissima e dai costrutti simili al latino. Per capire un popolo bisogna calarsi nel suo idioma, che rappresenta la culla, la madre, e in cui si sedimenta tutta la sua storia. Mi auguro che il siciliano da me adottato non sia quello standardizzato delle fiction sulla mafia, ma che risponda a una istanza di funzionalità espressiva e di verità lessicale. 

Se tu non avessi fatto lo scrittore, quale sarebbe stato il piano b?

Avrei continuato a fare l’attore, come feci per alcuni anni. Ma fin da adolescente mi ero cimentato anche nella pittura, riscuotendo lusinghieri consensi, essendo figlio e marito di pittori. Predilezioni che ho riversato nei miei libri. 


lunedì 8 febbraio 2021

Come nasce un romanzo: il caso Rubulotta

 


Massimo Rubulotta, sì, è musicista, poeta, pittore, lo sanno anche le arche scaligere, le pietre dell’arena e del teatro romano. Ma per me, prima di tutto, è un amico, e anche di quelli più cari, diciamolo. Lo confesso per togliere ogni dubbio sul fatto che la pubblicazione di Mai affezionarsi a una ricetta sia un bieco caso di nepotismo. Però, attenzione, al contrario

Qualche passo indietro

Quando ci siamo conosciuti, io avevo vent’anni, e Massimo ancora tutti i capelli. Io studiavo e scrivevo fiabe o romanzi, lui suonava e scriveva poesie, ma il trait d’union consisteva nell’essere entrambi due abilissimi cazzeggiatori.
C’era una festa? Eccoli lì, noialtri due.
Non c’era una festa? Li trovavi al bar, quei due senzapatria, spesso a parlare di sogni più grandi di loro, ma credendoci in modo fin commuovente.
Abbiamo attraversato insieme il confine tra la stupidità dell’infanzia – nel nostro caso parecchio prolungata – e quello della presunta maturità, ossia il far fronte a responsabilità questa volta davvero più grandi di noi.
Ne abbiamo passate di tutti i colori, soffrendo, piangendo, bestemmiando quasi sempre in silenzio, ma una volta insieme riecco ogni volta l’atmosfera di un tempo, quella del sogno, del non volerlo lasciar scappare come un palloncino da luna-park. 

Un libro di poesie

Si intitolava Cento di cento, una serie di haiku scritti dopo l’ictus in ospedale: alcuni non mi convincevano del tutto, la maggior parte però arrivava dritta allo stomaco e ti rimbalzava al cervello. C’era qualcosa di potente, là dentro, ma non potevo pubblicarlo, anche se era questa la proposta di Massimo. Gli risposi che Vocifuoriscena non ha una collana di poesia, forse un domani, se ci sarà qualcuno in grado di curarla come si deve. 

Poteva finire qui, giusto? 

Invece quegli haiku continuavano a presentarsi alla mia mente, nei momenti più impensati. E mi ritrovavo a immaginare una storia che li collegasse, una storia che ancora non c’era.
Così proposi a Massimo di scriverla. 

“Manco per sogno!”

Questa la sua lapidaria risposta, e per convincerlo ci impiegai non dico mesi, ma almeno una mezzora sana. Ovviamente davanti a una birra io e un calice di Valpolicella lui nell’osteria di fuori porta di via Betteloni.
“Le poesie le metto, nel romanzo”, gli promisi. “Il resto non so cosa sia, ma sono sicura che ce l’hai dentro, da qualche parte.”
Mi guardò poco convinto. “Ma mi dai una mano?” 

L’inventa Ciottoli

Di solito come funziona? Arrivano dei romanzi sulla casella di posta, li valutiamo, e via dicendo. Però penso che, potendo, avendone il tempo e l’occasione, un editore dovrebbe essere lui stesso a cercare i romanzi che vuole pubblicare. O, addirittura, come in questo caso, inventarli. Intendo dire, immaginare che un romanzo che ancora non c’è possa vedere la luce.
Alla domanda di Massimo, ossia se gli avrei dato una mano, risposi di sì, ben sapendo che il mio sarebbe stato più un supporto emotivo, empatico, che altro. Insomma, nulla rispetto a quanto sarebbe uscito dalla sua penna. 

Mai affezionarsi a una ricetta

Massimo iniziò a scrivere prosa, e gli riusciva con una naturalezza spiazzante. Un po’ a caso, narrava episodi della sua vita, senza seguire una logica precisa. Diceva “Vedi che non sono capace?”, sì, sempre alla ricerca di rassicurazioni, lui.
Raccontava dei suoi cani, della musica, sua unica grande e mai tradita amante, di quando suonava le congas attorniato da ballerine dai fisici mozzafiato, delle passeggiate tra i monti, delle figlie ancor piccole, della madre un po’ svitata, e invece a suo modo saggia, di tutto quel che riusciva a dipingere dei propri ricordi presenti e passati con le parole. 

La "trappola" della letteratura

La verità è che nessuna storia ha bisogno di una cronologia. Le cose più interessanti che ci capitano nella vita sono emozioni, commozioni, slanci imprevisti, lacrime e sorrisi. La letteratura, ci ha abituato a storie che devono per forza di cose avere un inizio e una fine, perfino una coerenza su quanto avviene durante.
Ma la vita non è coerente, e il suo inizio, come pure la sua fine, sono quasi inevitabilmente elementi confusi.
Ed è in essi, in quella familiare confusione, che ci ritroviamo.