A parte essere uno scrittore – per Vocifuoriscena hai pubblicato ben tre romanzi – chi è Michele Branchi?
Una persona che ama svisceratamente la vita, e ogni forma artistica, in virtù della quale l’insensatezza dell’esistenza si dota di senso e di scopo, tramite la creazione di realtà sempre nuove e rigeneranti, in se stesse uniche e compiute. La percezione dell’artista è molto più ricca, sfaccettata, e per questo anche più problematica, ma la sola in grado di lenire le disillusioni e i disincanti, di colmare il vuoto, di superare la noia, di sublimare l’angoscia e le paure, trasponendole nell’oggetto da lui creato. Detto questo, Michele Branchi mi fa compagnia da moltissimi anni con la sua personalità poliedrica e il suo istrionismo eclettico e talvolta un po’ barocco.
Cosa vuol dire, secondo te, avere successo come scrittore?
Stabilire un ponte di comunicazione costante con i lettori, una sorta di familiarità empatica, che da una parte persuade l’autore che non scrive soltanto per se stesso e dall’altra crea nel lettore l’attesa e l’aspettativa sulla prossima opera, alla stregua di un vecchio amico a cui si è affezionati e che non si vede l’ora di rivedere e dialogare con lui sulle pagine.
Senza i lettori, i libri sarebbero tutti incompiuti.
Come reagisci alla sindrome della pagina bianca?
Non mi è mai capitato. Io ho sempre sofferto del contrario. Una pagina bianca mi stimola a riempirla. Un fenomeno psicologico analogo all’horror vacui, l’angoscia per il vuoto, l’assenza, che si placa solo quando il vuoto diventa pieno, l’assenza presenza.
In generale, hai tu il controllo dei personaggi o loro fanno quello che vogliono?
Tendo a pianificare il lavoro, a delineare prima i personaggi, a farli agire in un certo ambiente, a sottoporli a rigorosi controlli per non indurli in contraddizione. Premesso ciò, mi accorgo alla fine che spesso qualcuno pronuncia frasi che gli avrei volentieri attribuito, compie azioni che a posteriori avrei ritenuto utili o necessarie, quasi che mi leggesse nell’inconscio. Ma la cosa più straordinaria, che si ripete ogni volta che termino un romanzo, è la meraviglia di aver creato qualcosa che prima non c’era.
Quale dei tuoi personaggi vorresti essere e perché?
Il professor Angeloni, l’Iconomante, intangibile al tempo che scorre, privo di ansia da iperattivismo, che non conosce la velocità, pur non mancando mai agli appuntamenti e agli impegni importanti, preciso, profondo, scrutatore d’anime e decifratore di enigmi pittorici. Non si preclude nessuna strada, nessuna metodologia, non scarta a priori nessuna ipotesi. È uno studioso appassionato del suo lavoro, ma non si fa coinvolgere facilmente dalle passioni. Sotto certi aspetti mi riconosco in lui, ma è tutt’altro che un mio clone.
Qual è il libro migliore che non hai scritto?
La storia di un uomo che non si accorge di essere già morto e che vive la sua vita consueta senza ravvisarvi alcun cambiamento, finché non si mette a investigare su un omicidio, scoprendo infine di essere la vittima e l’assassino, pur non ricordando di essersi mai suicidato. Capirà che il morire è un eterno ripetere l’attesa della morte.
Da dove nasce la tua passione per il genere noir?
Dall’amore per il mistero e dalla consapevolezza che è l’unica forma letteraria che da almeno trent’anni rispecchia il nostro tempo, nelle sue molteplici varianti e possibilità narrative e strutturali. Basti pensare che non esiste casa editrice che non abbia una collana dedicata al giallo/noir, e che mentre una volta era solo un genere confinato entro specifici territori sconsacrati dalla cosiddetta “alta letteratura”, ormai è solo una esigenza di marketing editoriale inserirlo in una categoria subito identificabile, anche se vi si possa trovare il serial usa e getta, il best seller o l’opera autoriale che trascende il genere, come lo fu Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, che purtroppo, sia detto in sordina, oggi difficilmente sarebbe pubblicato, proprio per il suo essere figlio degenere del giallo, non collocabile in un codice merceologico.
Quanto ti rattrista il vedere il libro trasformato in oggetto di vendita, in merce?
Non mi rattrista, poiché sarebbe da ipocriti disconoscere la funzione commerciale che consente al libro di circolare il più possibile. Triste è appiattirsi e omologarsi al best seller di turno, al libro come fenomeno di costume, al titolo o alla firma intesi soltanto come griffe, e soprattutto acquistare e leggere i libri dei soliti giornalisti televisivi che si parlano e scrivono addosso. Per non parlare di quei personaggi resi popolari dai media che si fanno scrivere i libri dalle redazioni delle case editrici, sapendo che saranno venduti un tanto al chilo presso quello stesso pubblico che li segue in tv e nei social. Infine, è triste che si sia perduto il piacere della letteratura, quella vera, che richiede uno sforzo ermeneutico impensabile per il gregge che ormai si esprime con trenta vocaboli stereotipati e non sa che l’unico “Grande Fratello” è quello di George Orwell, le cui profezie si sono purtroppo realizzate, tramite modelli di sviluppo globale e condizionamenti forse peggiori degli scenari prefigurati dal grande scrittore inglese.
Perché, essendo tu genovese, hai ambientato Focu e Faiddi e Niuru in Sicilia, peraltro cimentandoti nello scrivere in siciliano?
Conosco la Sicilia da quando mio suocero mi fece conoscere il suo bellissimo paese (Castell’Umberto) situato sui monti Nebrodi, da cui si possono ammirare panorami mozzafiato delle isole Eolie, della valle del Demone e dell’Etna. Mi sono immerso nella realtà del luogo forse meglio di un siciliano, con lo sguardo dello scienziato curioso e compiaciuto, e ho cercato di apprenderne la lingua, bellissima e dai costrutti simili al latino. Per capire un popolo bisogna calarsi nel suo idioma, che rappresenta la culla, la madre, e in cui si sedimenta tutta la sua storia. Mi auguro che il siciliano da me adottato non sia quello standardizzato delle fiction sulla mafia, ma che risponda a una istanza di funzionalità espressiva e di verità lessicale.
Se tu non avessi fatto lo scrittore, quale sarebbe stato il piano b?
Avrei continuato a fare l’attore, come feci per alcuni anni. Ma fin da adolescente mi ero cimentato anche nella pittura, riscuotendo lusinghieri consensi, essendo figlio e marito di pittori. Predilezioni che ho riversato nei miei libri.