venerdì 29 ottobre 2021

Come nasce un romanzo: “Non è un vento amico” di Vincenzo Zonno


Il 26 gennaio del 2015 arrivò in redazione la proposta di un romanzo che subito ci incuriosì. L’autore scriveva che era un “thriller ambientato nella Russia del 1800”. Un periodo storico “saturo di conquiste e avvenimenti cruenti”, in bilico tra fervori progressisti e governi reazionari, ancorati a tradizioni medioevali. “Il protagonista lotta, si innamora e soffre affrontando un mondo nel quale, scindere il vero dal falso è così difficile che l’intera vicenda potrebbe essere realmente accaduta a nostra insaputa.”

Dopo aver letto questa breve sinossi, risalii con lo sguardo al nome dell’autore: Vincenzo Zonno. Non che faccia la differenza, ma prima era un autore, poi aveva un nome, Vincenzo. In seguito ho scoperto che gli amici e, pare, addirittura i parenti, lo chiamano semplicemente “Zonno”, ma questa è un’altra storia.

All’epoca Vocifuoriscena aveva aperto i battenti da appena un anno, ed eravamo solo in due: Dario Giansanti e io. Fui io a leggere per prima Non è un vento amico, e mi colpì a tal punto da chiedere a Dario di darci almeno un’occhiata, prima di dare il nulla osta per la pubblicazione.
Mi affascinava la ricostruzione storica, ma soprattutto la verosimiglianza psicologica dei personaggi, e mi stupiva molto, addirittura tantissimo, che un brindisino cresciuto a pane, pomodori e olio extravergine di oliva, avesse avuto l’ardire di ambientare un romanzo nelle stesse scenografie di Tolstoj, Gogol’ e Dostoevskij.
Ammettiamolo, di fegato ce ne vuole proprio tanto!
Quando Zonno mi disse di conoscere poco o nulla i padri della letteratura russa, restai di stucco. Ma solo per un attimo. Mi spiego meglio: tante volte, quando si vuole emulare la prosa di uno scrittore famoso, si finisce inevitabilmente per produrre una brutta copia, che non interesserà mai a nessuno. Chi invece arriva “vergine” su un terreno coltivato da altri, forse può riuscire a individuare qualcosa di nuovo, di diverso, da far crescere su quel terreno. O perfino far notare che “l’imperatore è nudo”. 

Vincenzo Zonno

Dario alla fine lesse il romanzo dopo che avevo già detto di sì a Zonno. E, dopo che avevo suggerito qualche consiglio qua e là per migliorare le sfumature psicologiche dei personaggi, Dario propose alcuni aggiustamenti per adattare il romanzo alla realtà russa dell’epoca. Anche lui, come me, è cresciuto a pane e romanzoni russi, ma a differenza mia ha una conoscenza fin paurosa di dettagli e curiosità che i comuni mortali solo si sognano.
Quindi suggerì qualche notazione di cultura slava, introdusse particolari sugli usi e costumi del tempo dello zar e, soprattutto, approfondì quanto già conosceva sulle questioni teologiche e liturgiche dell’Europa orientale. Ricordo come fosse ieri il suo entusiasmo quando scoprì quanto fossero complesse le batterie di campane nelle chiese ortodosse, e sofisticato il modo di suonarle: potrei scommettere che gli riecheggiasse in cuore l’ultimo quadro dell’Andrej Rublëv di Tarkovskij.
Propose anche di dare una forma più realistica ai nomi dei personaggi, introducendo un sistema di patronimici, e uniformò le traslitterazioni dal russo (e dal polacco).

Gli rimase però il cruccio del nome del protagonista, che avrebbe voluto convertire in Jurij, ma che Zonno insisteva dovesse restare Georges.
I due, giunti ormai sul punto di battersi a duello per la questione (sembravano, credetemi, Puškin e d’Anthès sulle sponde del fiume Černaja!), decisero di rivolgersi all’indiscussa autorità del nostro maître à penser privato, Oliviero Canetti. Il professore, aspirando qualche boccata la pipa, diede ragione a Zonno, facendo notare che la borghesia russa del tempo usava francesizzare i nomi, e che uno Jurij, se voleva far bella figura in società, si sarebbe fatto chiamare da tutti Georges. Canetti ricordò come lo stesso protagonista di Guerra e pace viene sempre chiamato Pierre, e raramente Pëtr!
Zonno la ebbe dunque vinta, e il protagonista del suo romanzo poté tenere il nome di Georges. 

Canetti, in seguito, lesse il romanzo e ne fu folgorato. Scrisse anche un’interessante analisi interpretativa, parlando del romanzo come “metafora teologica”, analisi che, se vi interessa, è stata in seguito stampata in appendice alla seconda edizione di Non è un vento amico.
Zonno lesse con genuino interesse la recensione di Canetti, ma anche, sospetto, con malcelato divertimento, in quanto non riconosceva le sue intenzioni in nessuna delle interpretazioni del professore. In effetti non c’erano i classici russi alle spalle di Zonno, ma una visione assai più personale. La sua non era la Russia borghese di Tolstoj, delle anime morte di Gogol’ o dei demoni di Dostoevskij, ma un mondo i cui confini, lungi dall’identificarsi con quelli geografici, sono quelli che separano il giorno dalla notte, la superficie della ragione dagli abissi dell’inconscio.
Della Russia, Zonno aveva preso gli elementi disturbanti, i complotti, gli starcy, le sette religiose, i gruppuscoli anarchici, al fine di costruire una vicenda sospesa su un confine tra progressismo e fanatismo, tra ragione e follia.
Più che le implacabili necessità della storia che sorreggono l’impalcatura di Guerra e pace, viene in mente, avanzando tra le acquitrinose pagine di Zonno, lo sconsolato verso di Fëdor I. Tjutčev, “Con la mente non si può capire la Russia”.

venerdì 15 ottobre 2021

Vincenzo Zonno: gli alberi vivono più di noi


Vincenzo Zonno è un uomo dagli interessi più disparati: ha un passato come cantante e musicista, nonché di ballerino e coreografo di danza classica e contemporanea, passioni a cui è poi subentrata quella ancor viva per la scultura del legno e la liuteria.
È anche molto interessato alla fisica – forse il campo che lo appassiona maggiormente – ma il suo percorso ha virato decisamente verso il mondo dell’espressione artistica, lasciando l’indagine sulle leggi che governano l’universo in una sorta di limbo.

Scultura di Vincenzo Zonno

Vincenzo, qual è la cosa che più ti dà fastidio al mondo? 

Odio le corporazioni, di qualsiasi tipo, dalle società mafiose fino alle associazioni cattoliche. Non sopporto i gruppi, che si uniscono per vari motivi, ma che poi finiscono ad avere come unico obbiettivo tutelare sé stesse e sé stessi. Se fai parte del gruppo, il gruppo ti aiuterà, ti spingerà, farà di tutto affinché tu possa passare avanti anche a chi lo merita più di te. Credo che le corporazioni siano il male assoluto e che l’uomo tenda per natura a fare gruppo a discapito del bene comune.
“L’ingresso è consentito soltanto ai soci”, “La famiglia prima di tutto”, “Dobbiamo farlo vincere perché è dei nostri…”
Licio Gelli con i suoi fratelli, come il signor X e il suo club del libro, tutti uguali. E io non li sopporto.

E quella che apprezzi di più?

La natura, in particolare gli alberi. Gli alberi sono rappresentativi come nient’altro della vita. Poi vivono più di me e ciò mi affascina oltremodo.
L’uomo passa la vita a cercare di procurarsi l’immortalità, una cosa impossibile, e costruire, dalla notorietà alle cose materiali fino allo stesso accumulo di denaro, è un modo per ottenere una sorta di immortalità.
Gli alberi vivono più di noi uomini.
Non cercano l’immortalità ma vivono più di noi.
Hanno già vinto, e con indubbia classe. 

Come mai hai deciso di scrivere Non è un vento amico e per quale ragione un romanzo con ambientazione storica?

Non c’è un motivo particolare. Avevo un’idea che è divenuta un romanzo, l’ho vissuto e poi l’ho scritto. L’ambientazione storica è un colore che mi ha restituito l’energia perché la vicenda continuasse a evolversi.

La scelta della Russia di metà Ottocento sembra piuttosto curiosa, visto che sei un autore italiano. Cosa ti affascina della patria della vodka e di quel momento storico?

Ho letto molto sulle vicende della Russia, di quello come di altri periodi. Ho letto molto anche sulla Siberia, sull’Asia Centrale e tantissimo sul Tibet. Il romanzo prende una prima ispirazione dai fatti legati alle mogli dei decabristi che decidevano di seguire i propri mariti deportati in Siberia, poi si evolve attingendo alle reali e grottesche vicende accadute nello stesso periodo in quelle come in altre parti del mondo.

Il tuo romanzo si potrebbe collocare in più categorie: storico, noir, introspettivo. Tu cosa ne pensi?

Non saprei, scrivo un romanzo senza pormi il cruccio di dargli un genere. Non è da me etichettare le cose. È come quando suono o scrivo un brano musicale, per me è tutto rock oppure non lo è. Bisognerebbe capire se Non è un vento amico è rock oppure non lo è. Non so neanche questo.

Vincenzo Zonno

Che difficoltà hai incontrato nella ricostruzione dei dettagli storici e nell’elaborare la struttura?

La ricostruzione non è stata difficile perché tutto ciò che è descritto nel romanzo apparteneva già al mio bagaglio di conoscenze. Ho scritto quello che sapevo e non ho scritto ciò che ignoro. Mentre le supposizioni pericolose o le chiare invenzioni fantastiche erano nate nella mia testa già mentre apprendevo le vicende storiche, molto prima che nascesse la sola idea del romanzo: l’ipotesi che la prematura incoronazione dello zar fosse stata creata a tavolino per smuovere il movimento decabrista con l’obbiettivo portarlo allo scoperto e abbatterlo, per esempio.
Per i dettagli, quelli più ricercati, mi è venuto incontro l’editore Dario Giansanti che è persona molto più preparata di me in special modo sulla Russia e le sue diavolerie.

In quale dei personaggi di Non è un vento amico ti identifichi maggiormente e perché?

Il conte Bogdanov. Sì, è un personaggio molto ambiguo, ma l'ho costruito sulla mia persona. Non c’è un valido motivo, in ogni mio romanzo sono presente e non è detto che sia il protagonista. A volte mi identifico in più personaggi, anche nella stessa vicenda.
Più facile rispondere che non mi identifico, sono volutamente io così come ho scelto di vedermi in quel momento.

Cosa significa, per te, avere successo come scrittore?

Te lo dirò quando e se avrò successo. Ho successo come essere umano in mezzo ai miei amici umani, e ciò è molto figo. 

Non è un vento amico è stato pubblicato nel 2015. Da allora hai scritto e/o pubblicato qualcos’altro?

Ho pubblicato altri tre romanzi.
Un altro romanzo storico, un apocrifo di Sherlock Holmes ambientato nella Russia pre-rivoluzione. Il periodo di Rasputin, per intendersi. Poi ho pubblicato un thriller psicologico, Caterina, la storia di una ragazzina al seguito di un piccolo circo che affronterà vicende terrifiche e surreali. Infine un romanzo visionario che non saprei descrivere: L’ultimo spettacolo, la storia di Harpo, un uomo davvero poco comune in un contesto distopico.
Non pubblico spesso, ma ho scritto tanto in passato. Ho molti manoscritti pronti che cedo soltanto quando si presentano delle occasioni.
Il mondo dell’editoria è difficile e molto ambiguo e non val la pena perderci l’intelletto, ché lo scrittore dovrebbe usare soltanto per inventare favole.

lunedì 4 ottobre 2021

Lettera di Panu Rajala a Nicola Rainò, traduttore di Timo Mukka


Panu Rajala, noto drammaturgo e uno tra i più apprezzati critici letterari in Finlandia, ha scritto una lettera a Nicola Rainò per felicitarsi della traduzione del romanzo L'urlo della terra di Timo K. Mukka da noi pubblicato. Vi riportiamo il testo nella traduzione italiana gentilmente realizzata da Marcello Ganassini.


Egregio Nicola Rainò,

Mi scuso per la spropositata tardività del mio messaggio, il tempo passa troppo in fretta. Timo Mukka è momentaneamente annegato nei miei trambusti estivi.

Già allora avevo riflettuto sulla collocazione di questo scrittore finlandese nel contesto attuale della letteratura europea. Mukka non ha mai sfondato i confini del suo paese come avrebbe meritato. La Sua traduzione de L’urlo della terra (Maa on syntinen laulu) costituisce al riguardo una corroborante eccezione, come un messaggio in bottiglia da mondi lontani. In forma cinematografica il romanzo ha spezzato molti confini, in patria e anche in parte all’estero, sebbene io consideri l’interpretazione di Rauni Mollberg improntata a un eccessivo realismo: nel film manca infatti lo spirito originale della ballata. Ne sono in parte responsabile: nel mio contributo alla sceneggiatura ricordo di avere difeso la poeticità del testo ma Mollberg era affascinato soprattutto dalla sua estetica più sanguigna.



Anche opere come Tabu o Paura della neve (Lumen pelko) si presterebbero egregiamente a essere accolte nell’immaginario dell’Europa meridionale e, forse, più a oriente. La carica sessuale ed etnografica dello scrittore lo legava alla realtà nordica natìa al punto che, per noi, era difficile individuare più vaste dimensioni. Ora che la Lapponia è diventata una molla del turismo internazionale, anche questo elemento potrebbe contribuire a far volare l’opera di Timo Mukka sulle proprie ali, nonostante ricordi perfettamente quanto lo scrittore detestasse la massificazione della Lapponia come meta di viaggio e la mercificazione della sua terra.



Tutto ciò sono semplici corollari, la cosa importante è che i lettori italiani possano finalmente conoscere L’urlo della terra. Sarebbe stimolante sapere quanto quest’opera verrà letta e apprezzata da voi. La Finlandia sembra stia gradualmente dimenticando Mukka, come accade per molti altri classici moderni. La ringrazio per il libro che mi accingo a esaminare, e per l’interesse che ha voluto rivolgere a un autore cui è toccata una dura sorte.

Panu Rajala

venerdì 24 settembre 2021

Discendendo il Küküllő in un guscio di noce

 


Il 30 settembre ricorre l’anniversario della nascita di Benedek Elek (1859-1929), scrittore, traduttore, giornalista, pedagogista ed etnografo ungherese che ha dedicato la sua vita alla raccolta delle fiabe popolari da lui definite «tesori dell’anima del popolo ungherese». 
Per la sua intensa attività di raccolta e scrittura di fiabe popolari, Benedek viene ancora oggi ricordato come il nagy mesemondó, il grande narratore di fiabe
Dal 2005, su iniziativa della Magyar Olvasástársaság (“Società ungherese di lettura”), il 30 settembre è divenuta, proprio in onore di Benedek, la giornata della fiaba popolare (népmese napja). Questo stesso giorno si festeggia anche la giornata mondiale della traduzione, pertanto ho pensato di invitarvi in un breve viaggio tra fiabe e leggende ungheresi, proponendovi la traduzione inedita di un monda (“leggenda”) ispirato alla leggenda di Attila. Il nostro guscio di noce è attraccato lungo la sponda del Küküllő e attende solo voi per discendere le acque, talvolta ancora inesplorate, dei miti e delle leggende magiare. Jó olvasást!




La via delle schiere

Titolo originale: A Hadak útja

Tratta da Benedek Elek, Magyar mese- és mondavilág

 

Stasera vi racconterò una fiaba sulla hadak útja, la “via delle schiere”, quella lunga fascia bianca e splendente che nelle notti stellate fluttua lassù nel cielo, sentite un po’. Vi narrerò di come questa fascia bianca, bianca e splendente, sia finita in cielo.

Riprendo da dov’ero rimasto ieri sera. Attila aveva conquistato il mondo intero, perché da quando la Isten kardja, “spada di Dio”, era ricomparsa in quel modo meraviglioso, non c’era stato alcun popolo sulla terra che fosse riuscito a sconfiggere Attila e le sue prodi truppe. Attila non portava con sé la Isten kardja, bensì la lasciava a casa, chiusa dietro tre chiavistelli. Dal momento in cui la spada era ricomparsa il suo cuore non era più pervaso dallo sconforto: sapeva che Dio era con lui e che avrebbe accresciuto la forza delle sue braccia.

Spesso chiacchierando con la moglie Réka e i figli belli e prodi seduto davanti alla tenda, diceva: «Ora posso tranquillamente giacere nella bara, perché so a cosa ho aspirato e ora il mondo intero mi appartiene. Ogni popolo della terra è suddito delle mie prodi genti».

Ma quando era solo, rifletteva, si arrovellava: e se il suo prode popolo conquistatore del mondo si fosse disperso, andando in rovina? Avrebbe desiderato che suo figlio minore, Csaba, fosse divenuto re degli unni dopo la sua morte. Tra i suoi numerosi figli, lui era il più caro, il più prode. Amava Csaba e anche la madre lo vezzeggiava.

Un giorno, quando erano tutti insieme nel bosco di Rika[1] dove si trovava il castello preferito di Attila, lui e i figli furono pervasi da una grande tristezza. La regina Réka era gravemente malata e sentendo approssimarsi la morte, fece chiamare al suo capezzale il marito e i figli, tra i quali Aladár era il maggiore, Csaba il minore. Disse afflitta, con gli occhi pieni di lacrime: «Sto per morire, ma non seppellitemi prima che siano trascorsi sette giorni. Il settimo giorno venite da me uno dopo l’altro, cari figlioli, e baciatemi gli occhi: colui il cui bacio mi farà riaprire gli occhi, diventerà re degli unni. 
Gli altri abbiano l’anima in pace: è Dio ad averlo decretato, me l’ha annunciato in sogno».

Detto ciò Réka chiuse gli occhi e spirò. Non venne sepolta fino a quando non furono trascorsi sette giorni. Ecco che uno dopo l’altro i figli andarono a baciarle gli occhi, per primo Aladár, poi gli altri, ma gli occhi di Réka non si aprirono. Infine giunse Csaba che, in lacrime, abbracciò la madre, baciandole gli occhi, ed ecco che Réka li aprì, sorridendo al figlio prediletto: «Sarai tu il re degli unni, figlio mio. Il tuo bacio è stato il più caloroso. Ecco, accanto al mio letto c’è una freccia: prendila, è tua. Ne trarrai utilità nei momenti di grande bisogno».

Detto ciò chiuse nuovamente gli occhi per non riaprirli mai più. Nei pressi del castello, ai piedi del monte, scorreva un ruscello. La sua fossa venne scavata lungo le sponde di questo corso d’acqua e qui fu sepolta. Attila vi rotolò sopra un’enorme roccia staccata dal monte, in modo che, fino alla fine del mondo, nessuna persona disturbasse la quiete di Réka.

Molti ma molti anni dopo la morte di Réka, Attila ebbe a noia la sua vita solitaria e contrasse un secondo matrimonio: amava una bellissima principessa chiamata Mikolt. Stava proprio meditando di recarsi al di là del mare per vedere se ci fossero popoli e paesi e, qualora li avesse trovati, li avrebbe conquistati. Ma prima di mettersi in cammino, portando con sé le sue prodi truppe, si tenne il matrimonio con Mikolt, affinché rimanesse a casa una donna, mentre loro erano al di là del mare.

Ma ecco, sentite un po’ cosa accadde! Attila morì la notte del matrimonio. Quando si distese nel letto, cominciò a perdere sangue dal naso e il re conquistatore del mondo soffocò nel suo stesso sangue.
Quanto grande fu la tristezza in tutto il paese!
«Colui che ha versato il sangue di molti prodi e morto nel suo stesso sangue!», si rammaricava il popolo. «Non ha neppure potuto darci la sua benedizione!», dicevano i figli amareggiati.

Attila venne sepolto con grande sfarzo. Il corpo fu posto in una tripla bara[2]: venne scavata una profonda fossa sul fondo di un corso d’acqua dove venne riposta la tripla bara; affinché nessuna mano umana potesse disturbarlo e nessuno venisse a conoscenza del luogo in cui era stato sepolto, furono impiegati degli schiavi che, dopo averlo interrato, si dovettero uccidere a vicenda...

Attila era appena stato sepolto che i popoli conquistati si mossero da ogni dove. Sapevano bene che non avrebbero più dovuto temere i prodi unni se avessero aizzato uno contro l’altro i figli di Attila. Teodorico[3], macchinatore di intrighi, fu il primo a giungere. In fronte portava sempre lo sfregio della freccia che Bendegúz gli aveva scoccato[4]: la freccia sulla fronte e la cattiveria nel cuore. All’epoca aveva minacciato Bendegúz: «Aspettate, aspettate, me la pagherete fino alla vostra settima generazione!».

Andò dritto da Aladár e gli disse: «Come puoi permettere, tu, figlio maggiore, che Csaba, il minore, diventi re degli unni! La sovranità ti aspetta di diritto davanti a Dio e alle genti».
Aladár disse: «Hai ragione, Teodorico, ma mia madre ha voluto che le cose andassero così. Fu Dio a stabilire che a divenire re degli unni sarebbe stato colui il cui bacio le avrebbe fatto riaprire gli occhi».
«Oh, tu, scemo che più scemo non c’è al mondo!», disse Teodorico. «Dunque non ti è passato per la testa che tua madre amasse di più Csaba? Se avesse amato di più te, i suoi occhi si sarebbero riaperti al tuo bacio.»

La mente di Aladár si lasciò persuadere da questo discorso maligno. Prestava fede a quanto detto da Teodorico, e credeva che la madre lo avesse ingannato. Fece subito annunciare a Csaba che facesse portare la Isten kardja, “spada di Dio”, nella sua tenda, perché quello era il suo posto.
Csaba mandò in risposta: «La Isten kardja appartiene agli unni, fratello caro. Non è mia e neppure tua».
«Se non me la dai con le buone, la prenderò con la forza», disse Aladár.

Gli unni si divisero in due fazioni, una dalla parte di Csaba, l’altra di Aladár. Si misero per via anche i goti e tutti i popoli conquistati, ma Teodorico che aveva teso l’inganno, li istruì che una fazione supportava Csaba e l’altra Aladár: quando le due armate si sarebbero scontrate, loro non dovevano fare del male ai due capi, bastava che uccidessero e massacrassero solamente gli unni.

Ma a Teodorico tessitore d’inganni non bastava aver messo Aladár contro Csaba e quando già da tre giorni infuriava lo scontro e fiumi e ruscelli straripavano dal sangue degli unni che in essi si era riversato, mandò a Csaba un uomo fidato travestito da vecchio veggente canuto che fece questa previsione al principe: «Ascoltami, principe Csaba, se vuoi divenire re degli unni, tira fuori la Isten kardja, altrimenti non riuscirai a sconfiggere Aladár».

Non sappiamo se Csaba prestasse o meno fede a questo discorso, ma in ogni modo ci rifletté, si spaccò la testa così a lungo tanto che alla fine fece aprire i tre chiavistelli ed estrasse la Isten kardja. Gli anziani tentanto di persuaderlo: «Lascia la Isten kardja, principe Csaba, Dio sarà al nostro fianco fino a quando questa spada non verrà immersa nel sangue del fratello».
Ma Csaba non diede ascolto alle parole degli anziani. Radunò le sue truppe decimate e, facendo brillare la Isten kardja, galoppò incontro alle sterminate truppe avversarie. Da lontano gridò ad Aladár: «Ecco qui la Isten kardja, fratello!».

Ed ecco che, sentite un po’, i due fratelli si scontrarono con tale impeto da squarciare cielo e terra. La Isten kardja mandava scintille e ardeva con tale violenza da privare molte migliaia di persone della luce degli occhi. Aladár cadde morto dal suo cavallo storno e accanto a lui numerosi prodi unni. A un tratto, sentite un po’ che meraviglia, la Isten kardja non mandò più scintille, smise di ardere. Il sangue di Aladár era schizzato e una goccia era divenuta fiamma ardente che prese ad ardere. Invano Csaba brandiva la Isten kardja, la spada non inflisse più alcuna ferita. Se non avesse avuto con sé la propria spada, anche lui sarebbe stato ucciso.

«Dio mi ha punito!», sospirò Csaba in preda all’afflizione. «È la fine della gloriosa stirpe unna, la fine!»
Della sua schiera di eroi conquistatori del mondo non erano rimasti più di cinquemila uomini. Gli altri, saranno stati diecimila, avevano il corpo coperto di sangue e ferite.
Gli doleva, quasi gli si spezzava il cuore che ora anche tutti quegli eroi feriti perissero. Se almeno loro fossero rimasti! Se avesse potuto guarirli! Almeno quel bel territorio sarebbe rimasto della stirpe unna.
E così, mentre si affliggeva, il cielo si aprì e un turul[5] discese dal cielo su un fascio celeste di luce verso gli eroi unni. Il turul scese sempre più e prese a dire: «Non scoraggiarti, Csaba! Prendi la freccia che tua madre ti donò sul suo letto di morte. Scocca questa freccia e inseguila! Raccogli la pianta in cui si conficcherà e con la sua linfa ungi le ferite dei tuoi eroi che guariranno immediatamente».
«Questa è la voce della mia madre adorata!», gridò Csaba. Ma in quell’istante il turul salì in volo più veloce del vento, per sparire nell’alta volta celeste.
«Era proprio la sua voce!», gridarono anche gli eroi unni. «Era la voce di Réka!»
Portarono subito la freccia meravigliosa, il principe Csaba la inserì nell’arco, la scoccò attraversò la distesa di fiori su cui si trovavano e rincorse la freccia più veloce del vento. E dunque la trovò conficcata in una pianta dalle foglie larghe, ne raccolse in abbondanza e con la sua linfa unse le ferite degli eroi. Divennero tutti più belli e più forti di quanto erano stati in precedenza.

Dopodiché gli eroi unni si misero per via, dirigendosi verso oriente, seguendo la direzione da cui Bendegúz aveva condotto gli unni dalla Scizia fin su quelle terre.
«Riconducici dai magiari,» dissero gli unni a Csaba, «e invitiamoli in questo bel territorio! Unendo le forze lo riconquisteremo.»
«Lo avete detto con il cuore», disse il principe Csaba, «ed è ciò che voglio anch’io. Torniamo indietro, ma non tutti. Che rimangano qui tremila eroi: risiederanno[6] qui fino a quando torneremo con i nostri fratelli magiari. Nessuno potrà dire che abbiamo abbandonato la terra di Attila con disonore.»

Quello stesso giorno si staccarono tremila prodi dalle truppe di Csaba e si stabilirono lungo il confine del bel Székelyföld, la “terra dei székelyek”. Prima che Csaba facesse ritorno in Scizia, furono benedetti il fuoco, l’acqua, l’aria e la terra. Tutti coloro che erano in procinto di partire giurarono, sotto il libero cielo di Dio, che, qualora il nemico avesse assaltato i székelyek, sarebbero ritornati indietro anche se si fossero trovati agli estremi confini del mondo. La notizia sarebbe stata portata loro dal fuoco, oppure avrebbe provveduto l’acqua, se non l’acqua, allora ci avrebbe pensato l’aria, o, altrimenti, la terra.
«Ritorneremo, ritorneremo!», gridarono, tanto che cielo e terra rimbombarono.

Alla fonte del fiume Olt fece un altro giuramento. Allora il principe Csaba estrasse la Isten kardja e la immerse nelle acque del fiume, dicendo a gran voce: «Acque del fiume Olt, rimuovete il sangue di mio fratello dalla Isten kardja!».
Ed ecco che il sangue di Aladár defluì dalla Isten kardja che ora brillava e scintillava come un tempo.[7] Venne riposta nuovamente al sicuro dietro tre chiavistelli per essere riportata in Scizia.

Erano appena partiti, non avevano ancora raggiunto i confini del Paese, che la terra si scosse, gli alberi si piegarono, mandavano segnali come a dire: «Indietro, indietro, i székelyek sono nei guai!».
Ed era proprio come gli alberi avevano indicato: i székelyek erano stati attaccati da una moltitudine di popoli.
«Indietro, indietro!», gridò Csaba. «Addosso, eroi!»

E galopparono più veloci del vento, persino più veloci del pensiero, sbaragliando il nemico in modo che non ne rimanesse neppure la polvere.
Poi partirono nuovamente alla volta della Scizia. Attraversarono monti e valli, boschi e prati, e il settimo giorno, quando stavano per superare un grande fiume, ad un tratto l’acqua si gonfiò, straripò, mugghiando e urlando terribilmente, come se tutto quel mugghiare e urlare volesse dire loro: «Indietro, indietro, i székelyek sono nei guai!».
Galopparono più veloci del vento, persino più veloci del pensiero, l’acqua aveva davvero avuto ragione: i székelyek erano accerchiati da una moltitudine di popoli. Csaba sbaragliò anche questi e di essi non rimase neppure la polvere.

Gli unni partirono per la terza volta, erano riusciti a proseguire il cammino per un anno intero, si aggiravano allora per le terre greche quando un giorno si sollevò una violenta bufera, proveniente dalla direzione della terra dei székelyek. Aveva preso avvio sotto forma di venticello forte, e poi volando sempre più, era lì giunto come un vortice di bufera che ronzava e sibilava, come se tutto quel ronzare e sibilare volesse dire loro: «Indietro, indietro, i székelyek sono nei guai!».
Gli eroi galopparono lungo la via del ritorno più veloci del vento, persino più veloci del pensiero e anche per la terza volta sbaragliarono quel mare di nemici.
Così ripartirono per la Scizia per la quarta volta.

Il tempo passò, trascorsero cinquant’anni, cent’anni e nessun nemico aveva più disturbato i székelyek che potevano vivere in tranquillità. Ma invano attendevano il principe Csaba con i magiari. Credevano che non li avessero più ritrovati. Forse si erano fermati in Grecia. E invece li avevano ritrovati. Il principe Csaba aveva restituito la Isten kardja ai fratelli magiari dicendo loro: «Mio padre trovò la Isten kardja con cui conquistò il mondo intero. Quando chiuse gli occhi, uno spirito maligno si impossessò di noi e il fratello alzò la spada contro l’altro fratello. La mia anima ancora vacilla: immersi la Isten kardja nel cuore di mio fratello. Ma prima di partire, l’ho immersa nelle acque del fiume Olt: ed ecco, guardate, ora brilla e scintilla come un tempo. Venite, magiari, torniamo a occupare la terra di Attila!».

I giovani eroi avevano una gran voglia di seguirlo, quante belle cose il principe Csaba aveva narrato loro della terra di Attila. Ma gli anziani dissero: «Aspettate, non ci metteremo per via fino a quando Dio non avrà scelto qualcuno tra noi che ci indichi se partire o restare».
A tali parole i magiari si misero l’anima in pace e continuarono a vivere in Scizia.

Nel frattempo anche i prodi székelyek si erano moltiplicati e vivevano in pace. La fama del loro eroismo si era diffusa in terre lontane e i nemici non osavano infastidirli. Ma tutta quella miriade di popoli non riusciva a rappacificarsi e appena presero un po’ di coraggio accerchiarono i székelyek da ogni lato. Se solo fossero stati di più! Perfino i fili d’erba insorsero contro il nemico, ma per ogni székely giunsero cento uomini. Invano volgevano lo sguardo verso la Scizia, nessuno giunse in loro aiuto. Il principe Csaba era divenuto già da molto tempo polvere e cenere e lo attendevano invano.

Ma sentite un po’ che meraviglia! Proprio quando i székelyek si apprestavano a combattere l’ultima battaglia, il cielo risplendette nel buio della notte ed ecco apparire, tra il bagliore luminoso delle stelle, il principe Csaba con il suo seguito di eroi che molti secoli prima avevano sbaragliato per tre volte i nemici dei székelyek.[8]
I székelyek non erano stati abbandonati da Saturno, il loro astro, che aveva portato la notizia a Csaba nell’alto dei cieli: «I székelyek sono nei guai!».
«Coraggio, in piedi, eroi!», gridò Csaba, e gli eroi defunti si misero per via, attraversando al galoppo l’intera volta stellata, più veloci del vento, persino più veloci del pensiero e, giunti ai confini della terra dei székelyek, nel punto in cui il firmamento si inclina fino a toccare i promontori, scesero dal cielo.

I nemici furono colti da un terribile spavento alla vista degli eroi unni scesi dal cielo per non abbandonare i fratelli székelyek in grave pericolo. Il mare di nemici fuggì fuori di sé, non ci fu neppure un eroe che osò fermarsi o voltarsi.

Ma ora sentite un po’ e meravigliatevi: Csaba e i suoi eroi salirono nuovamente nella volta stellata, percorrendo al galoppo la stessa via da cui erano venuti. Gli zoccoli dei loro destrieri lasciarono una scia bianca e splendente che non è mai più svanita, rimanendo per l’eternità: essa è la Hadak útja, la “Via delle schiere”, che splende in cielo nelle notti stellate…


 

Bibliografia:

Boccali 1980. Georges Dúmezil, Storie degli sciti, a cura di Giuliano Boccali, Rizzoli, Milano (1a ed. fr. 1978, Romans de Scythie et d’alentour, Payot, Paris; 1a ed. it. 1980).

Scalabrini 1997. Patrick Howarth, Attila re degli unni, a cura di Benedetto Scalabrini, Piemme, Alessandria.

Scardigli ~ Meli 1982. Il canzoniere eddico, a cura di Piergiuseppe Scardigli e Marcello Meli, Milano.


Note:

[1] Rika-erdő.

[2] Anche secondo Prisco di Panio Attila venne posto in una tripla bara, l’interna d’oro massiccio, l’intermedia d’argento massiccio e l’esterna di ferro e poi adagiata in una semplice fossa di cui non sarebbe rimasta traccia alcuna. Anche Jordanes riferì che nottetempo «seppellirono il suo corpo in terra, sigillando le sue bare, la prima con l’oro, la seconda con l’argento e la terza con la forza del ferro» (cit. in Scalabrini 1997). Nella riscrittura della leggenda di Attila fornita da Komjáthy István (1917-1963) nel suo Mondák könyve (“Libro delle leggende”, 1964), sarebbe stato un sogno di Réka (qui nella variante Ríka) a predire come sarebbe stata la sepoltura del marito: «Attila koporsója: Napkirály hajfonata, Hold mosolya és Éjfél pillantása legyen» («La bara di Attila dovrà essere [come] la treccia del Re del Sole, il sorriso della Luna e l’occhiata della Mezzanotte»). Al che il saggio Torda, che secondo alcune leggende sarebbe stato il capo unno padre di Bendegúz, nonché nonno di Attila, fornisce la seguente interpretazione: «Attilának a föld alatt is palotát kell epíteni. Koporsóba kell tenni. Hármas koporsóba. Aranyba, ezüstbe és vasba. Ezt jelenti Napkirály hajfonata, Hold mosolya és Éjfél szempillantása» («Bisogna costruire un palazzo per Attila anche sottoterra. Deve essere sepolto in una bara, una tripla bara d’oro, d’argento e di ferro. Questo sta a significare treccia del Re del Sole, sorriso della Luna e occhiata della Mezzanotte»). Nella fiaba intitolata Réka királyné sírja (“La tomba della regina Réka”), confluita nella raccolta di Benedek Elek intitolata Magyar mese- és mondavilág, è la moglie di Attila a essere adagiata in una tripla bara. Così narra il racconto: «La regina Réka fu sepolta il quarto giorno e nel momento della sepoltura tutte le persone vennero allontanate dal bosco di Rika, affinché nessuno sapesse dove Réka sarebbe stata sepolta. Il corpo venne posto in una tripla bara: la prima era dell’oro più puro, la seconda di bell’argento chiaro e la più esterna di metallo. Dopodiché quattro schiavi sollevarono la tripla bara e la portarono giù, lungo la sponda del ruscello di Rika, e qui la misero sotto l’enorme roccia dove ancora oggi si trova – la può vedere chiunque vi si rechi –, scavarono una fossa molto profonda e vi posero la tripla bara. Poi ricoprirono per bene la fossa, nascondendola con zolle erbose: non rimase traccia che qualcuno vi fosse stato sepolto».

[3] Detre nella versione ungherese.

[4] L’episodio fa riferimento a quanto narrato nella fiaba Az Isten kardja (la “Spada di Dio”), facente sempre parte della raccolta di Benedek Elek. Quando gli unni, guidati da Bendegúz, nome del padre di Attila e Buda, invase il territorio compreso tra il Danubio (ungherese Duna) e il Tibisco (ungherese Tisza), le genti della zona chiamarono in loro soccorso Teodorico con le sue truppe. Ne conseguì uno scontro durante il quale anche Teodorico venne ferito da un dardo in ferro scoccato da Bendegúz.

[5] Aquila totemica degli antichi turchi.

[6] In ungherese székel (“risiedere”, “stabilirsi”, “avere sede”) da cui, secondo alcune ipotesi etimologiche, deriverebbe lo stesso nome dei székelyek (secleri), gli ungheresi di Transilvania.

[7] Secondo la tradizione popolare degli osseti, la spada dell’eroe Batraz venne gettata nel Mar Nero che da allora porta il nome di Mar Rosso a causa del sangue dei Narti che ricopriva la spada e che andò a mescolarsi alle acque del mare. Gli osseti credono che la spada giaccia ancora oggi nel Mar Rosso e quando vedono lampeggiare da occidente attribuiscono tale scintillio alla spada di Batraz che balzerebbe verso il cielo per massacrare gli spiriti malvagi e i dèmoni (Boccali 1980, p. 24).

[8] Cfr. la simile concezione che traspare dal Secondo carme di Helgi uccisore di Hundingr (Helgakviđa Hundingsbana ǫnnur): «È un’illusione questa   che mi par di vedere/ o il tramonto dei tempi?    - Cavalcano i morti,/ i vostri cavalli   incitate con gli sproni - / oppure ai guerrieri   è concesso il ritorno?» (strofa 40; ed. it. Scardigli ~ Meli 1982, p. 179). «Tempo è per me di cavalcare   per strade vermiglie,/ livido il mio cavallo   calpesterà sentieri del cielo;/ percorrerà ad occidente i ponti   della volta celeste […]» (strofa 49; ed. it. Scardigli ~ Meli 1982, p. 181).

August Nordenskiöld, un utopista finlandese

 


Tra il 2017 e il 2018 la casa editrice Vocifuoriscena ha pubblicato la traduzione italiana del dittico Gli alchimisti di Antti Tuuri (Alkemistit. Maallinen rakkaus, “Un amore terreno” 2013 e Alkemistit II. Taivaalliset Häät, “Le nozze celesti” 2014), meticolosa ricostruzione della vita e dell’esperimento alchemico di August Nordenskiöld, nobile swedenborghiano e mineralogista che, su incarico di re Gustavo III, tentò d’intraprendere la fabbricazione dell’oro mettendo a punto un metodo proprio elaborato sulla base dell’approccio dell’abate e alchimista francese Antoine-Joseph Pernety.
L’incredibile vita dell’illustre figlio di Finlandia era già stata oggetto di un feuilleton, L’alchimista del re (Konungens Guldmakare, 1943) dello scrittore e giornalista finno-svedese Dag Hemdal.
Antti Tuuri ha voluto restituire una dimensione storica alla figura di Nordenskiöld riproponendone la travagliata biografia ricostruita con perizia dal diario dell’agrimensore Carl Fredrik Bergklint (1763 – 1824), discendente per parte di madre della nobile famiglia dei Godenhielm, adottato dai Nordenskiöld e cresciuto nella tenuta
di Frugård (oggi Alikartano) presso Mäntsälä.
August scelse il giovane come aiutante nell’impresa dell’arte regia basandosi su analisi fisiognomiche in voga all’epoca ma, ben presto, le sue virtù di raziocinio e caparbietà rivelarono la verace caratura spirituale del soggetto che, meritoriamente, nei romanzi di Tuuri prende la forma dell’io narrante.
In una sorta di articolata didascalia iniziatica il punto di vista del narratore, nel secondo capitolo del dittico, viene a sovrapporsi a quello di Christian Rosenkreutz, figura centrale delle Nozze Chimiche, testo che Carl ricevette dall’occultista finlandese Gustaf Björnram.
Nel romanzo di Tuuri queste sovrapposizioni narrative e le reciproche eccentricità dei due personaggi non adombrano la figura di August Nordenskiöld, il carattere in bilico tra edonismo e spiritualità illuminista nonché la portata morale della sua dedizione all’opera.
Pur dedito alla scienza sacra e alle discipline occulte, il nobile alchimista intraprese la fabbricazione dell’oro con il solo scopo di farne crollare il prezzo, liberando così l’umanità dalla schiavitù del denaro, come scrisse a chiare lettere in uno studio sulla pietra filosofale, Spiritual Philosopher’s Stone, testo pubblicato
a Londra dove si trovava per incarico del collegio minerario di Svezia: «But for the Destruction of natural Evil, which is the Tyranny of Money, the Foundation [la chiesa swedenborghiana della Nuova Gerusalemme (n.d.C.)] cannot be laid, before Alchemy becomes a general Art, and the Philosopher’s Stone, is universally known». Nel corso dell’esperimento gli obiettivi e gli interessi di August entrarono in conflitto con quelli dell’ambiguo barone (dal 1788 conte) finlandese Adolf Fredrik Munk, mastro stalliere del re e figura tra le più influenti della corte reale che, nella vicenda, svolse poco limpidamente le funzioni di intermediario tra Nordenskiöld e Sua Maestà.

Lo scenario, l’entourage intellettuale del Regno di Svezia, era all’epoca fortemente permeato da  dottrina swedenborghiana, massoneria, occultismo e teosofia rosacrociana, discipline nelle quali l’intelligencija finlandese aveva autorevoli esponenti, i citati Munk e Björnram, quest’ultimo segretario e traduttore dal finlandese per il duca Carlo, fratello minore di Gustavo e successore al trono dopo l’assassinio di questi. Raramente le dottrine iniziatiche erano del tutto avulse dalle trame del tessuto politico, come dimostra la vicenda di un altro occultista finlandese, Gustav Adolf Reuterholm che profittò dell’interesse del duca Carlo verso la massoneria, lo spiritismo e l’ordine segreto di Valhalla, da lui fondato a Sveaborg (Suomenlinna), per consolidare l’influenza sul duca stesso e attuare le sue mire di potere dopo la morte di Gustavo.


Caspar David Friedrich, 
Zwei Männer in Betrachtung des Mondes 
(1819/1820).
Wikimedia Commons.

August Nordenskiöld nacque nel 1750 nella tenuta di Frugård da Carl Fredrik Nordenberg (1702 – 1779), maggiore e poi colonnello, e da Hedvig Märta Ramsay (1771 – 1759), svedese di nascita. Studiò metallurgia all’Università di Turku con il professor Pehr Adrian Gadd, primo docente finlandese di chimica.
L’interesse per le discipline occulte fu trasmesso ad August dallo zio paterno, Magnus Otto Nordenberg (1705 – 1756), figura altrettanto complessa ed eclettica. Condotti studi scientifici all’Università di Uppsala, questi si era occupato di teosofia e di alchimia; aveva scritto per l’Accademia di Svezia uno studio sull’argomento,
Urimm och Thummim (1750), testo che ebbe grande influenza sul nipote.
Dopo alcuni viaggi in Olanda, Inghilterra, Francia e Italia, Magnus Otto aveva dato corpo a un progetto per una segheria azionata da un mulino a vento, impianto realizzato sull’isola di Kaunissaari (svedese Fagerö) nell’arcipelago di Sipoo. Il tentativo di creare un insediamento industriale modello era stato ostacolato dallo scoppio della Guerra russo-svedese del 1741-1743: l’esercito della zarina Elisabetta aveva raso al suolo quel poco che era riuscito a costruire. Intenzionato a proseguire gli studi dello zio, nel 1771, a soli diciassette anni, August tentò il primo esperimento alchemico in un laboratorio costruito accanto al fiume Mäntsälänjoki presso Frugård.

Sull’
esito della sua prima impresa non vi è purtroppo la testimonianza di alcun documento. Nel 1779, su volere del re, si recò per la prima volta in Inghilterra per approfondire lo studio dell’alchimia; pubblicò uno scritto, A plain system of Alchemy, con l’intento di dimostrare la scientificità del metodo alchemico. Tale approccio venne poi approfondito in un lavoro successivo in lingua svedese, terminato durante l’inaugurazione del nuovo laboratorio a Uusikaupunki, Aldeles Fullständigt Begrep om Den Enda och Sanna Alchemiska Processen (“Completa definizione del solo e unico processo alchemico”) nel quale, specificando che, dietro il fenomeno fisico, presiedono principi metafisici, viene supposto che, con un processo specifico basato sull’esposizione a soluzione e coagulazione per dieci o quindici mesi, l’oro, nella sua indivisibilità chimica, si trasformi nel Lapis Philosophorum in grado di generare altro oro ad infinitum. August scrisse a Sua Maestà e affermò di voler mettere le sue conoscenze scientifiche al servizio della corona. Re Gustavo lo convocò a Stoccolma dove, nel 1779, gli venne messo a disposizione un laboratorio per i suoi esperimenti i quali, però, non diedero i risultati sperati.
Lo stesso anno sposò Anna Charlotta Eckholm (1756 – 1800), figlia di un notaio d’asta e collezionista.

Nel 1782 venne nominato direttore del collegio minerario di Finlandia, incarico che lo portò a risiedere a lungo nella patria natia. In quegli anni si consolidò la sua fama presso la Società Swedenborghiana, scrisse articoli per l’organo del movimento religioso, il quotidiano “Aftonbladet” che, di lì a poco, avrebbe cessato la propria attività. Il suo approccio alla dottrina di Swedenborg era tuttavia del tutto particolare: la scomposizione della materia negli elementi primari era per August il segno della consustanzialità tra la materia organica (attinente al mondo spirituale) e quella inorganica (attinente al mondo materiale) della quale fanno parte i tre elementi, aria acqua e terra che ricevono l’influenza trasformatrice del sole materiale. Nordenskiöld introdusse così nella fisiologia spirituale swedenborghiana un elemento ad esso estraneo, il “riscatto etico” della materia e, per esteso, dell’umanità attraverso la pietra filosofale.

Nel 1785 intraprese un nuovo esperimento alchemico scegliendo come sede la piccola città di Uusikaupunki, circa settanta chilometri a nord di Turku. Oberato dai debiti e costretto a partire per Stoccolma alla ricerca di finanziatori, August cercò un aiutante e convocò Carl Bergklint la cui fede nel valore scientifico del pensiero di Swedenborg era pari alla sua diffidenza nei confronti del magnetismo animale e di analoghe dottrine spiritistiche che, proprio in quegli anni, stavano attirando l’interesse delle classi alte.

Nel 1787, ultimata la costruzione del forno e del crogiolo, l’opera ebbe inizio ma venne interrotta prima del tempo per una negligenza nell’applicazione del procedimento. August scrisse al fratello Adolf Gutav (1745 1821) manifestando l’intenzione di intraprendere un nuovo esperimento a Frugård ma, con i documenti in nostro possesso, non sappiamo se l’impresa ebbe effettivamente inizio. Il barone Munck, incaricato dal re di seguire la fabbricazione dell’oro, propose ai due alchimisti di ricominciare l’opera a Stoccolma in una costruzione situata nei giardini del castello reale di Drottiningholm: a novembre dello stesso anno August e Carl si trasferirono nella capitale, l’opera venne intrapresa osservando la massima riservatezza: il luogo fu tenuto segreto e i due alchimisti lavorarono sotto mentite spoglie. I due forni corrispondenti ad altrettanti procedimenti sperimentali, Ars brevis (sviluppo dell’oro sotto i frantumi della “membrana generatrice”) e Ars longa (moltiplicazione all’interno della membrana stessa), vennero accesi nel marzo del 1788.

Il procedimento stava avendo luogo nel modo sperato ma subì perturbazioni dovute alle crescenti pressioni di Munck sull’esperimento dei due alchimisti. Nordenskiöld era disposto a cedere al regno i segreti del Lapis Philosophorum a condizione che gli swedenborghiani fossero stati resi liberi di professare la propria dottrina; inoltre egli chiese di fondare una comunità di seguaci in Africa, sotto l’egida della corona. Ancora una volta l’eccessivo calore compromise lo sviluppo della membrana generatrice e fu necessario interrompere l’esperimento.
Nel laboratorio e nell’attigua fabbrica di acido nitrico Munck, da poco ricevuto il titolo di conte, diede inizio a un’attività di falsificazione, probabilmente con il silente assenso di Sua Maestà: rubli russi e banconote emesse per finanziare le attività belliche nella Guerra russo-svedese del 1788-1790 (i così detti fahnehielmare).

Dopo la morte di Gustavo, Munck venne messo sotto accusa e scappò in Italia, insediandosi nella Villa di Volpignano presso Massa. Venne ritenuto responsabile anche Carl Bergklint ma, successivamente, fu prosciolto dalle accuse perché estraneo al fatto. Amareggiato dal fallimento dell’esperimento, August Nordenskiöld riuscì comunque a vedere pubblicato l’ultimo suo scritto sull’alchimia,  il citato Spiritual Philosopher’s Stone, An Address to the True Members of the New Jerusalem Church, opera nella quale egli tentò di coniugare la scienza alchemica allo swedenborghismo, dottrina ancora influenzata dallo scetticismo del maestro nei confronti dell’Ars Magna. August non volle prendere parte ad altre sperimentazioni ma Carl Bergklint, su suo incarico, proseguì la cottura dell’oro nel laboratorio di Drottningholm fino al 1790.

Compiuti alcuni viaggi in Europa per diffondere la dottrina di Swedenborg, nel 1792 Nordenskiöld partì per l’Africa con una spedizione condotta da mineralogisti inglesi e dal botanico svedese Adam Afzelius per conto della British Sierra Leone Company. Raggiunse la colonia inglese con l’intento di dare corpo a una comunità utopistica cui aveva delineato i tratti nell’opera Plan for a free Community upon the Coast of Africa under the Protection of Great Britain; but Intirely Independent of All European Laws and Governments (1789), testo scritto a quattro mani con l’amico Carl Bernhard Wadström, figura centrale dell’abolizionismo svedese.

Sulla morte dell’alchimista non vi sono testimonianze storiche attendibili. Si è detto fosse stato aggredito da un gruppo di indigeni, forse in relazione alle sue posizioni abolizioniste. Nella biografia del grande alchimista finlandese anche l’epilogo è un’allegoria ermetica: la decomposizione della nigredo come sacrificio dell’utopia nel crogiolo della libertà.





Buon compleanno, Antti Tuuri!

 


Cari lettori e followers,

in occasione del compleanno dello scrittore finlandese Antti Tuuri, vi proponiamo un'interessante intervista realizzata da Marcello Ganassini e pubblica da Cultfinlandia:

https://www.cultfinlandia.it/intervista-allo-scrittore-antti-tuuri-autore-de-gli-alchimisti/

Buona lettura!



lunedì 20 settembre 2021

Come nasce un romanzo: “L’ottimismo necessario” di Luca Fancello

 


Luca Fancello è il vincitore del concorso letterario Scriviamo il futuro, indetto da Vocifuoriscena insieme al webmagazine Duegradi e al gruppo di attivisti Fridays for future di Verona.
C’erano anche altri tre racconti premiati e giudicati di rilievo, ma l’emergenza Covid ha reso impossibili tante cose, tra le quali questa, ossia una manifestazione pubblica per riconoscere il valore dei vincitori.
Così, quando Luca Fancello mi ha proposto di leggere il romanzo da cui aveva tratto il racconto vincitore del concorso, gli ho subito detto di sì. Non solo per un senso di colpa, come potrebbe sembrare, ma perché ero davvero incuriosita. 

Il mistero delle lungaggini

Inizialmente – per una serie di problemi personali – se ne è preso cura Franco Ceradini, che mi teneva via via aggiornata e con cui discutevamo tutto.
La cosa che risultava stridente a Franco era che il romanzo ci fosse eccome, ma con delle lungaggini che sembravano appiccicate lì senza motivo.
Ho chiesto qualche ragguaglio a Luca e la risposta è stata disarmante: si era affidato a un editor per la revisione del testo, e costui gli aveva suggerito di rimpolparlo con qualche aggiunta, sennò il romanzo sarebbe stato “troppo corto”.
Cosa vuol dire che un romanzo è troppo corto?
Assolutamente niente. Non è il numero di parole che fa di un testo un capolavoro, ma come danzano insieme, il suono che ti arriva al cuore del loro senso, la capacità che hanno di trascinarti via da dove stai e portarti in un luogo che pensavi di non conoscere e che invece abiti da tempo; oppure quella di farti vedere la realtà con occhi nuovi, per farli inorridire, oppure per spalancarteli a prospettive mai prima considerate. Questa è la letteratura. 

La revisione del romanzo

Dopo avergli esposto il nostro punto di vista, abbiamo consigliato a Luca di fare, come dire, un passo indietro. Lui ha subito capito, ci abbiamo anche riso sopra, solo che non è il tipo da accontentarsi del minimo sindacale. Quindi, su ogni segnalazione di Franco e mia, ha riconsiderato quanto aveva scritto, cambiato, aggiunto, stravolto il testo originale.
In questo suo percorso – durato circa tre mesi – ogni tanto ci sentivamo per scambi di vedute sul romanzo, e ogni volta Luca mi diceva che non era ancora soddisfatto, che aveva bisogno di tempo per cambiare, riscrivere, e che tanti nostri appunti erano per lui divenuti stimoli per migliorare e anche cambiare quanto aveva scritto in precedenza.
Nel corso delle nostre telefonate, ho anche avuto modo di conoscerlo un po’, seppure a distanza, sia per via del covid, sia perché non è esattamente una passeggiata incontrarsi di persona quando una vive a Negrar di Valpolicella e l’altro in Sardegna. Comunque sia, lo confesso: con gli autori non si parla solo di letteratura, del loro romanzo, di come impaginarlo e del contratto con la casa editrice.
E questo, probabilmente, è l’aspetto più importante, assolutamente da non dare per scontato: per quanto possa essere valido un romanzo, se non si instaura un’intesa tra editor e autore, se il rapporto umano non decolla, è difficile trovare la sintonia giusta per proseguire

L’ottimismo necessario

Tutti abbiamo sentito parlare di desaparecidos, ma cosa è stato vivere in Argentina ai tempi del generale Videla?
In una sorta di flusso di memoria che scorre avanti e indietro nel tempo, il protagonista Tomás – di professione videomaker – ci racconta il film della sua vita, nella quale si intrecciano le storie della madre naturale Anna (morta dopo indicibili torture), della madre adottiva Carmen, che si prende cura di lui portandolo via da Buenos Aires, e di Tomás stesso, ancora una volta in un continuo andirivieni tra passato e presente.
Prima ancora di conoscere Luca, il romanzo mi aveva colpito molto, e per tre ragioni: il grande respiro dello stile, mai esagerato nelle metafore, e sempre a servizio dei concetti da esprimere o dei fatti da narrare; l’invisibilità del giudizio da parte dell’autore e, visti i temi trattati, non era affatto semplice riuscirci; infine l’ultima, forse la più importante: alla stregua di un fuoco interiore e indomabile, una verità mai detta apertamente, ma che emerge dal testo e si svela al lettore frase dopo frase, rendendosi riconoscibile nella sua duplice veste di bellezza e orrore.

Lo spunto da storie realmente accadute

Poco conta che il romanzo si ispiri a storie di persone che Luca ha conosciuto e che hanno vissuto gli indicibili soprusi della dittatura in Argentina, semmai è rilevante il modo in cui il tutto è stato rielaborato, fatto proprio e profondamente intimo.
Lo si avverte dai valori che, pur senza mai essere descritti, assurgono a protagonisti assoluti: la condivisione, la solidarietà, il coraggio, la difesa della libertà a tutti i costi; ma anche dalle emozioni e sentimenti che accompagnano i protagonisti, dalla compassione alla fierezza, dal dolore alla ricerca di riscatto, dall’amicizia all’amore capace di crescere anche su un terreno devastato dall’odio e dalle prevaricazioni. 


sabato 18 settembre 2021

Milan Nápravník e la tecnica dell'inversaggio

 


Un pomeriggio di novembre inoltrato del 1976, nella coincidente convergenza del mio particolare stato d’animo, della singolare luminosità, del freddo e del luogo, mentre vagabondavo senza meta per le ampie paludi delle Hautes Fagnes, mi chinai per raccogliere un pezzo di legno, che si trovava a margine di un piccolo e cupo stagno, e che somigliava a una grande chiave arrugginita. In quel periodo ero preda di una tensione depressiva evocata da una certa tragedia personale, che mi ricordava, in modo più che insistente, la mia particolare e frequentemente maledetta solitudine spirituale nel mondo nel quale sono costretto a vivere, solitudine solo sporadicamente interrotta dall’amore delle donne, che per tutta la vita mi ha condotto fuori dai vicoli ciechi dei monologhi e della disperazione. Questa volta, questo ponte verso la vita era caduto. Cercavo la solitudine in un paesaggio deserto, in modo che non dovessi affrontare la mia solitudine tra la gente...

La chiave adagiata davanti a me nell’erba lunga, allettata e mezza secca, questo oggetto strano e intenzionalmente forgiato, era lunga almeno trenta centimetri, con un grande occhio su un lato, e sull’altro una dentatura ingegnosamente barocca, e con le sue sembianze sembrava appartenere ad uno di quegli oggetti inaspettati e simbolici che di solito incontriamo in sogno. All’improvviso ebbi l’intensa sensazione che mi si rivolgesse la parola. Come se fossi il destinatario involontario di un messaggio incomprensibile ma pressante. Incapace di muovermi, mi resi conto che il molle terreno della palude cedeva sotto i miei piedi. Finalmente mi concentrai abbastanza da riuscire a muovermi. Cercai di raggiungere la chiave, volendo liberarla dai vincoli erbosi. Nel momento che la toccai, però, il materiale di quell’oggetto, evidentemente marcio, si frantumò in briciole marroni.

Sorpreso, per un attimo rimasi a contemplare quel mucchietto di polvere legnosa, la cui precedente interezza e apparente saldezza non avevano lasciato presagire che un lieve tocco di mano, o anche di un solo dito in un unico punto, potesse addirittura distruggere completamente quell’oggetto reale. L’improvvisa disintegrazione, o meglio l’improvvisa esplosione di questo legno marcio mi riempì di stupore, perché contraddiceva la mia aspettativa, basata sulla percezione visiva. D’un tratto ebbi l’intensa sensazione come di un intervento estraneo, di un fenomeno psicocinetico, la cui inscrutabile ragione andava oltre la portata della mia comprensione.

Prima di riprendermi dallo stupore, la cui intensità non era in alcun modo adeguata al significato pratico dell’evento, il mio sguardo errante, ingannato e confuso, si posò su un punto lontano solo un passo, su un punto che limitava la rugginosa superficie d’acqua del piccolo stagno e la sponda bassa, coperta dalle radici di un salcio nano. In quel momento, però, il senso di sconcerto divenne ancora più incombente: quel groviglio di terriccio, erba e radici e il suo riflesso inverso sulla cupa, immobile acqua dello stagno si fusero in un insieme simmetrico, nel volto di un demone, che mi osservava con uno sguardo penetrante e apertamente denigratorio, e il cui corpo ingobbito si perdeva sotto la superficie d’acqua. Fui colto dalla sensazione di essere involontariamente diventato oggetto del volere di qualcun altro. Questa sensazione, inoltre, era accompagnata da una speciale delizia numinosa, tipica di quei momenti straordinari che sanciscono i nostri incontri con fatti che vanno al di là della realtà codificata; di quegli attimi in cui riusciamo a penetrare dal mondo delle cose reali nella sfera dei misteri irrazionali. Allo stesso tempo, l’incontro sincronizzato di chiave e demone confermò in me la convinzione di essere il destinatario di qualche messaggio segreto, il cui significato, purtroppo, mi sfuggiva.

Finalmente, dopo un attimo, la numinosità dell’evento, unita ad una temporanea catalessi, perse il suo potere ipnotico. Mi resi conto di dove mi trovavo. Percorsi con lo sguardo l’infinito paesaggio dell’ampia palude, dove risaltavano sporadici cespugli nella nebbia bassa. Un vento gelido sfregava il mio viso, in lontananza si udiva lo strascicato latrare di un cane. Nel frattempo, il sole era calato all’orizzonte. Le ombre si allungavano. Una sensazione di gelo implacabile e soprannaturale si insinuò in me. Fui assalito dal timore di poter addirittura morire se non fossi riuscito a muovermi...




La magia di questo incontro singolare fu così intensa che decisi, il giorno seguente, di ritornare sul posto con la macchina fotografica per poter fotografare il demone e per catturare quella stupefacente atmosfera autunnale del paesaggio. Ma nonostante vagassi per lunghe ore per la palude e avessi l’impressione di riconoscere ogni cespuglio, cunetta e viottolo che avevo percorso il giorno precedente, non riuscii più a trovare il cupo stagno col demone. Dalla strada lontana mi giungevano le grida di scolaretti raggianti di gioia per la gita. Era un altro giorno.

Quando oggi, a distanza di molti mesi, riconsidero quella mia esperienza, non posso dubitare nemmeno per un attimo che la mia immaginazione, che quel pomeriggio autunnale creò una chiave davanti ai miei occhi da un pezzo di legno marcio, mi offriva, seguendo l’ordine del subconscio, la chiave per la mia disagevole situazione emozionale nella quale versavo in quel momento, ma, allo stesso tempo, rischiarava la straordinaria interferenza di tempo, stato d’animo e luogo, alla cui intersezione mi ritrovai involontariamente, grazie a lei. Questa chiave era come se dovesse mostrarmi la vicinanza di una doppia porta: la porta-via d’uscita dalla mia crisi personale, il cui influsso depressivo avevo cercato fino ad allora, con poco successo, di scacciare e, allo stesso tempo, su un alto piano e in coincidenze più complesse, la porta verso una svolta dimensionale, che conduceva dal paesaggio di oggetti e relazioni familiari e comuni alla sfera della conoscenza magica. Nell’attimo in cui sfiorai la chiave, essa si sbriciolò, in modo che d'un tratto trasecolassi di delusione, simbolizzante un disappunto più fondamentale, nel cui campo emozionale mi ritrovavo, ma allo stesso tempo in modo che non fossi distolto dal reale significato della sua esistenza, che era meramente simbolica, intermediaria e che denotava un elemento esterno. Il frantumarsi della chiave, che in campo simbolico riverberava il frantumarsi delle mie speranze personali, mi provocò una intensa sensazione depressiva, che sbloccò e mi liberò da quella sensazione di depressione più radicata che aveva dominato l’intera sfera del mio conscio. Allo stesso tempo, la visione animistica del demone mi collocava nella spietata critica del subconscio compensante, non come un soggetto deplorevole, ma, al contrario, ridicolo.

Ma non solo quello: al contempo ne rimasi ammaliato e, parallelamente, fui preso da una sensazione di delizia inconsueta. Ero penetrato inaspettatamente nel nucleo della realtà celata dietro la porta dalla percezione razionale della realtà concepita: avevo puntato il mio sguardo sul volto della realtà magica. Invece di acqua, erba e terriccio scorsi la realtà dall’altra riva e mi ritrovai nel punto focale di un’emozione potente e deliziosa derivante dalla conoscenza irrazionale. La qualità  di quell’esperienza, quella violenta eccitazione e delizia per la scoperta del miracoloso, che provai grazie alla magica inversione percettiva, era di quelle che, una volta risvegliate, rimangono ancorate nel nostro subconscio per poi, al momento giusto, poter agire spontaneamente come stimolatori di atti di rivolta. È una qualità che, ugualmente a ragione, può essere definita magica e poetica, poiché la poesia non è altro che una disciplina della magia. In questo modo, in senso residuale, ricevetti un’ulteriore prova oggettiva, assolutamente non per la prima né per l'ultima volta, che questa poesia, così come l’intende anche il surrealismo contemporaneo, non è una questione di intelletto, istruzione, stile, abilità letteraria o fantasia speculativa, per quanto scurrile, ma piuttosto esclusivamente una questione di intuizione ed esperienza magica della realtà.

Il mondo nel quale, con mio grande dolore, sono nato e nel quale cerco di vivere secondo le mie capacità, non è un mondo di naturale equilibrio tra libertà e necessità, un mondo dove, in qualunque momento, sia possibile dar sfogo ad un anelito creativo, come nel caso del quale parlavo poc'anzi.  È, al contrario, un mondo di attività lavorative organizzate in maniera repressiva, sterile e assurda, il cui senso è in gran parte estraniato da qualsivoglia funzione immanente, e, in primo luogo, è estraniato dalla vita, che invece vorrebbe realizzarsi in delizia creativa. Questo stato morboso, pietrificatosi nel corso di migliaia di anni nella norma tabuizzata della civiltà, costringe me e milioni di altre persone nell'ambiente opprimente di una società lavorativa, la cui prima e ultima regola è la mostruosa produzione di un'utilità che limita lo spirito. E così, come milioni di altre persone, invece di lasciarmi guidare dagli impulsi creativi, capaci di compensare l'apaticità e la riduzione permanente delle capacità e dei bisogni emozionali dell'uomo, e quindi della deformazione dell'intera sua psiche, mi ritrovo il più delle volte occupato a mettere in atto movimenti prescritti che costituiscono quei valori apparenti capaci di soddisfare i bisogni presunti. Per questo motivo, ci vollero mesi prima che l'esperienza da me descritta potesse maturare e permettermi di comprendere la possibilità - e svegliare in me anche il bisogno - di realizzare i metodi magici basati su di essa.

In una giornata cupa, piovosa, mentre, incapace di concentrarmi e quasi assopito, sfogliavo svogliatamente e con superficialità una pubblicazione di storia dell'illustrazione medica, notai alcune incisioni anatomiche, con le quali gli enciclopedisti illuministi, che cercavano di comprendere la vita sulla base della parzializzazione meccanica e di analisi riduzionistiche, ornavano le loro esposizioni di scienza naturale. Queste incisioni, naturalmente, non mi erano ignote, ma non mi avevano mai spinto oltre un superficiale interesse per la tecnica usata dall'incisore e per l'atmosfera di quei tempi passati. D'un tratto, però, tra le pagine del libro, davanti al mio sguardo interiore, dietro l'incisione di una testa per metà privata della pelle, vidi quel volto di demone a margine del cupo stagno della palude, volto composto da due parti rovesciate, quell'effetto inverso sulla superficie dell'acqua che per l'intrico di terriccio, erba e radici appariva come la malignità gnomica di una smorfia contratta. E soltanto in quel momento, dentro di me, conversero due traiettorie indipendenti, permettendomi di riconoscere qualcosa di semplice ma al tempo stesso formidabile, vale a dire che l'unione inversa di parti bilateralmente simmetriche di una singola struttura è uno dei principi morfologici fondamentali della natura, l'archetipo organizzatore del macro e del microcosmo. In quel momento mi fu chiaro il contenuto magico del messaggio che mi aveva raggiunto in quella nebbiosa giornata autunnale. Soltanto allora mi fu evidente che la forza numinosa di quella mia visione non era il risultato della crisi soggettiva, quantunque sconvolgente. Il suo effetto ammaliante prendeva origine dal contatto magico del subconscio con l'archetipo dell'universo, dal cogliere, sul campo irrazionale, uno dei segreti più profondi della realtà. La demonizzazione animistica di quest'attimo fu, poi, conseguenza della percezione magica, che registra sempre la realtà interiore come una parte integrante della realtà psichica. Solo allora la mia vista interiore si rischiarì. Come in una sintesi onirica mi resi conto del principio simmetrico delle formazioni cosmiche, dei poli magnetici, delle strutture cristalline e biologiche. Nei giorni e nelle notti seguenti, in preda ad una trance superficiale, passai in rassegna ciò che mi circondava, riconoscendo all'improvviso dei e demoni di antiche religioni, i volti assorti, indagatori, beffardi e malevoli della realtà, privati delle maschere civilizzatrici dell'utilità e dell'applicabilità immediate. Arrivare alla decisione di usare questo potenziale magico per tracciare immagini col metodo della visione inversa fu quindi un breve passo.

Per far risaltare la sua forza magica, non era possibile usare nessun altro mezzo se non quello delle tecniche fotografiche capaci di riprodurre l'impressione della realtà con fedeltà naturalistica. Tecniche a metà tra macchina fotografica e laboratorio, che riorganizzai in cucina di alchimista, dove creavo una nuova realtà partendo dagli ingredienti che trovavo. Il fatto di trasfondere vitalità spirituale in alberi, pietre, micro e macrostrutture che di solito nel mondo reale passavano inosservati, elevava l'attività creativa al rango di reale creaturazione del mondo. Ciò produceva l'identificazione con animali, piante e minerali, processo questo favorito dalla magia e represso dalla civilizzazione: nel momento in cui la natura si psicologizza, l'essere umano ne diviene parte.

Per caratterizzare questo metodo nella maniera più precisa possibile, lo chiamai inversaggio, parallelamente alla denominazione dei metodi creativi surrealisti più antichi introdotti da Max Ernst. Questa mia scoperta l'ho connotata con la seguente definizione:

L'inversaggio è un metodo surrealista di creazione della realtà magica attraverso l'unione di due o più immagini inverse di oggetti reali, delle loro parti o di strutture immateriali, superficiali. Il principio dell'inversione non è basato su tendenze estetiche del conscio, ma preesiste come archetipo morfologico dominante nel subconscio, vale a dire nella realtà irrazionale. Il carattere archetipico dell'inversione dà luogo all'inversaggio, che origina dalle immagini fotografiche della realtà  creata dall'azione di acqua, fuoco, ghiaccio, calore, erosione, corrosione, gravità, divisione cellulare, crescita ecc., con una implicita forza numinosa. Il significato extra-estetico dell'inversaggio non può essere altro che il rivolgere la nostra attenzione verso una percezione alternativa, magica e, in questo modo, sconvolgere il monopolio della repressiva visione ottica cosiddetta “oggettiva” della costruzione unilateralmente razionalistica del mondo.

 

Maggio 1977

Milan Nápravník

(Traduzione di Antonio Parente)