giovedì 28 gennaio 2021

Letteratura, arte e musica: autointervista di Massimo Rubulotta



Sì, bravi voi a intervistare gli autori di Vocifuoriscena. Facciamo che vi anticipo e mi faccio da solo le domande che mi fanno paura, così evitiamo i preamboli, i (penosi) tentativi di mettermi a mio agio… che sono le cose che più mi fanno paura.
E facciamo anche come se fosse una terza persona a farmi le domande.

Nella 4ª di copertina di Mai affezionarsi a una ricetta c’è scritto che nella vita hai fatto il musicista, il doppiatore, che hai lavorato con la danza, il teatro.
Hai sempre scritto poesie e, ultimamente ti sei anche dedicato alla pittura.
In passato ti sei cimentato come facchino, orafo e parrucchiere per signora.
Mi risulta che eri un bravo insegnante di percussioni. Insegnavi a adulti e bambini. Per i bambini ti eri anche inventato un sistema di gioco/musica quando ancora nessuno ne parlava. 
Mi spieghi perché hai scritto che non sei niente di tutto questo?

Mamma mia… che domanda difficile.

Allora te la facilito un pochino: come hai deciso di cominciare a suonare?

Io non ho deciso di cominciare a suonare. È stata la musica che ha scelto me. Ho capito subito, da piccolo che non avevo la faccia, il corpo e la voce per farmi sentire e che avrei avuto bisogno di qualcosa che mi aiutasse a parlare. Ho subito pensato che i tamburi mi avrebbero dato il supporto di cui avevo bisogno. Ho cominciato a suonare la batteria. Be’, certo… batteria è una parola grossa. Avevo quattro anni e non esistevano le batterie giocattolo, allora ho cominciato a battere le pentole. Poi i fustini del detersivo e via dicendo fino a che sono riuscito a farmi noleggiare una batteria.

E hai sempre suonato quella?

Sì, troppo facile. Avrei potuto dire: “Sono un batterista” e tutti avrebbero potuto dire: “Guarda Rubu… è un batterista!”, annuendo con la testa. Cantavo bene. Volevo fare il cantante (peccato che ho sempre odiato le canzoni). Ciò, però non mi ha impedito per un periodo di comprarmi una chitarra e mettermi a fare il cantautore. Che periodo triste. Vergognoso. La curiosità è sempre stata il mio motore. La curiosità e il fatto che non ho mai sopportato di fare la stessa cosa per più di pochi giorni. 

Quindi? Come la mettevi con lo studio della musica che, a quanto ne so, è una cosa ripetitiva? 

Il segreto è stato quello di trasformare il set della batteria in qualcos’altro: un set di percussioni. Le percussioni significano mille strumenti (più altri mille… più altri mille ancora, per 77 volte 7), studiarle tutte significava avere a disposizione più di sette vite, per cui avevo l’alibi per non fare mai le stesse cose. Gli stessi esercizi di tecnica. Nel frattempo, però, sviluppando strategie personali che mi permettessero di suonare tutti quegli strumenti, approfondivo il mio stile. Cercavo l’essenza del percussionismo.

Cosa significa?

Significa che, per me… a mio gusto, il percussionista deve sviluppare un linguaggio che dia qualcosa in più alla musica. Che arricchisca. Che fornisca sapori esotici, colori. Che sia come le nuvole al tramonto (assumono forme e colori diverse ogni secondo che passa). Io volevo dipingere sulla musica. La musica era la mia tela. I miei suoni pennellate.

E da qui la pittura?

Da qui… qualsiasi cosa facessi mi sentivo fuori luogo. Dipingevo la musica. Poi, quando mi sono inventato di essere pittore… suonavo i colori.

E con le parole?

Ho sempre pensato che nessuna storia con un inizio, uno svolgimento e una fine, avesse il diritto di essere raccontata. Mi sono sempre piaciute le sensazioni, i pensieri isolati. Le descrizioni che, da sole hanno tutti i significati al loro interno. È per questo che ho sempre scritto poesie.
Suonavo (e suono) non per raccontare, ma per fornire punti di vista, aperture alle composizioni degli altri musicisti. Dipingo quadri astratti: colori e forme che si attraggono e si equilibrano con gli stessi principi della gravità e della musica. Quindi non racconto niente nemmeno con la pittura.

E allora perché il romanzo?

Forse perché volevo spiegare, innanzi tutto a me stesso, il perché di tutta la mia curiosità. Del cambiare continuamente. Del cercare.
Penso di non aver trovato risposte e neanche tutte le domande. Forse qualcuna. In fondo non si cercano le domande per avere le risposte, ma solo per focalizzare i significati delle cose.

Ricapitolando: sei o non sei un musicista, doppiatore, pittore, scrittore?

Ho sempre creduto di essere un musicista, ma non ho mai potuto immergermi nell’approfondimento di un singolo strumento, perché tutta la vita che ho sempre sentito intorno mi scoppiava dentro e volevo suonare tutti gli strumenti, tutta la musica che ascoltavo e che vedevo. Quindi mi viene da dire che sono sempre stato un amante (nel senso carnale del termine) della musica. E siccome la musica abbraccia tutto (sempre nel senso carnale), allora sono anche pittore, cuoco e poeta… ma senza mai esserlo stato.

Davvero sei cuoco? 

Ma no che non sono un cuoco! Come puoi pensare una cosa simile? Ho sempre fatto finta di essere un musicista e tutto il resto… vuoi che mi identifichi in qualcosa? Di utile?
Una volta si aveva più tempo per vivere d’amore. Amore per le cose. Amore per la vita. Ci si viveva dentro all’amore e alla vita. Ci si impastava come polpette e ci si cucinava in tutti i modi possibili immaginabili: fritti, in umido, al sugo, al forno, coi piselli, al vapore.
C’è stato un periodo che si viveva a fuoco vivo, saltellando e scoppiettando su di una piastra rovente. Si innaffiava il tutto coi migliori vini perché ogni giorno della gioventù era degno dei migliori festeggiamenti. Ma non c’erano solo polpette. Si cucinava di tutto e tutto era buono perché l’ingrediente fondamentale eravamo noi e tutto quello che ci scorreva tra le mani.
Certo, si stava attenti a quello che dovevamo mettere prima o dopo, nella padella, affinché si rispettassero gli ingredienti e la buona cottura, anche se conoscevamo, istintivamente, le ricette.

Adesso che non hai più a disposizione del tutto le mani, come fai a sentirti ancora “nella musica”? A essere il suo amante, come dicevi prima. E ora, che ti muovi con una sedia a ruote e non puoi più trasportare la montagna di carabattole (le percussioni) che utilizzavi un tempo, come fai?

Se prima non mi sentivo un musicista, non è cambiato nulla dentro di me. Non mi fa differenza utilizzare, al posto di una tonnellata di strumenti acustici, due o tre chili di strumenti elettronici. O se al posto delle mani utilizzo due ditini, a mo’ di macchina da scrivere. Non riesco più a utilizzare i miei muscoli per stare “a tempo”. Tanto non sono mai rimasto nella stessa scansione ritmica per più del battere d’ali di una farfalla. Uso suoni diversi. Un altro linguaggio musicale. Adesso il mio essere percussionista si è arricchito anche di suoni lunghi, avvolgenti.
Ora uso un computer portatile, un iPad e una tastierina minuscola con sedici piccole superfici da sfiorare e pigiare come fosse una percussione. Ho registrato un sacco di suoni, costruito un bel numero di banche suoni (come se fossero tanti set di percussioni) e le piloto con la tastierina. L’iPad ha un sacco di suoni, strumenti e basi fatte da me. Adesso ci dipingo anche, sull’iPad.
Mi sta tutto nello zainetto che appendo dietro la carrozzina. Ho un propulsore che, attaccato alla sedia a ruote mi fornisce un’autonomia di circa 70 chilometri. Ora vado a suonare così… in teoria.
La pandemia ci ha fermato tutti. Niente musica nei teatri. Nei club. E nemmeno nelle strade.
Su per giù ero già abituato a dover sottostare a pesanti limitazioni. Ho trovato altre strategie. Abbiamo trovato altri modi. Anche se non possiamo condividere “dal vivo” la nostra musica, le nostre emozioni, lo facciamo via email. Ci inviamo i file musicali che ognuno ha fatto nelle proprie stanzette, con i propri computerini per registrare e ci lavoriamo insieme… ma divisi.
Si cambia. Ci si adatta.
La musica è una grande amante (anche non più in senso carnale… adesso platonico) e non ci abbandona mai. Anche le sue sorelle: la parola e la pittura.

Massimo Rubulotta


domenica 24 gennaio 2021

Il "vampirismo energetico" di Mario Corte


Oggi è con noi Mario Corte, che ha pubblicato per Vocifuoriscena Ad Bestias e Il talento viene dopo.
Mario, tu vanti una lungo ed eclettico percorso in ambito letterario. Una vita dedicata allo scrivere, potremmo dire. C’è qualche altro interesse o passione che, ragionando col senno di poi, forse sarebbe stato meglio inseguire?

Forse una vita più avventurosa. Scrivere è una straordinaria avventura psicologica, introspettiva, spirituale. È cercare se stessi, studiare gli altri, esplorare la natura umana, tentare, nel buio, di capire che cosa ci stiamo a fare qui e perché il male dilaga e il bene fa tanta fatica a farsi strada. Ma l’avventura “sul campo”, inoltrarsi in spazi inesplorati alla ricerca di un Santo Graal, del proprio Graal (perché per ciascuno ce n’è uno), come Galahad e Galvano, partire per seguire le tracce disseminate dall’ignoto regista di questo mondo… quella è un’altra cosa. Quando ho potuto farlo, da solo o con la famiglia, persino con le mie figlie piccole, ho sentito che viaggiare nello spazio, oltre che nella mente, era la mia strada di conoscenza. O forse la strada di ogni uomo.


Cosa vuol dire, secondo te, avere successo come scrittore? 

Raggiungere il cuore di chi legge e avvertire, a distanza, che quel cuore ti è grato per averlo raggiunto. Parlare un linguaggio che punti a evocare una confidenza segreta con un mondo diverso da quello di tutti i giorni. Cercare di comunicare con accordi di parole più armonici, fatati, e risvegliare livelli di coscienza meno grevi e standardizzati di quelli proposti dall’ambiente che ci circonda. Vendere bene un libro è una più che degna operazione commerciale che, però, può anche non avere nulla a che fare con l’amicizia, mentre raggiungere un cuore significa avere, da qualche parte, un nuovo amico. E di amici, anche lontani, c’è sempre bisogno.

In generale, hai tu il controllo dei personaggi o loro fanno quello che vogliono?

Sono loro a fare quello che vogliono, ma secondo un contratto che prevede due clausole molto precise: 1) che il bagaglio umano di chi scrive disponga di un ampio ventaglio di emozioni e di sentimenti; 2) che i personaggi accettino di essere sottoposti, qua e là, a opportune docce di ironia. Un personaggio rischia di diventare ingombrante, imbarazzante, non più arginabile, se l’orizzonte di chi scrive è povero di esperienza nelle emozioni e nei sentimenti. Allora i personaggi prendono il sopravvento in modo scomposto e sgradevole: si prendono troppo sul serio, insomma, e non hanno più nulla di credibile. Tenere sempre attivo il dispositivo dei sentimenti suggerisce a chi scrive di usare l’arma dell’ironia per contenere le intemperanze dei personaggi, facendoli guardare allo specchio e divertendo loro e chi legge. Allora si ricordano di essere personaggi e non parti della persona che scrive, e si disciplinano da soli.

Da dove nasce l’idea del romanzo Ad bestias?

Dall’osservazione del mondo dei bambini e ancor più dal ricordo di esserlo stato. Noi adulti impostiamo la vita in modo tale da non doverci ritrovare dove eravamo da piccoli, cioè in balìa di qualcuno (i “grandi”) o di qualcosa (la nostra condizione di fragilità). Ma nella maggior parte dei casi finiamo proprio per sviluppare una dipendenza da qualcuno o da qualcosa (un valore materiale, consumistico, d’immagine, di competizione) che ci sembra più “grande” e fondato di noi. I bambini vivono immersi nella magia dei sentimenti; noi passiamo il tempo a sfuggirli, oppure a operarne abili contraffazioni. Non riusciamo più a “provare” emozioni profonde e cerchiamo di indurcele acquistando beni e servizi, oppure, troppo abituati a non provarle, quando qualcosa viene a sconvolgere la pace e l’ordine che ci siamo dati, ci ritroviamo a farci trascinare da passioni scomposte, con tratti di follia.
Loro, i bambini, no. Loro provano sentimenti veri, fondati; danno senza risparmiarsi, credono senza vergognarsi di credere e si arrischiano a chiedere qualcosa che per noi è ormai un tabù, troppo astratto e zuccheroso per poter essere nominato guardando l’altro dritto negli occhi. Amore. I detentori di questo valore universale sono loro, sono i loro cuori. Da loro avremmo tanto da imparare, e invece ci impegniamo a piegarli affinché escano al più presto dal loro mondo magico, scendano sulla Terra, smettano di credere a Babbo Natale e imparino a credere solo ai regali che giacciono sul fondo del suo sacco, come se quelli potessero esistere indipendente da chi li ha portati.

Come reagisci alla sindrome della pagina bianca?

Oh, mio Dio… “Qui”, come diceva un critico letterario che ho avuto la fortuna di conoscere, “perdi il lettore”. La verità, davvero poco credibile agli occhi del lettore, è che non ho mai conosciuto la sindrome della pagina bianca. Forse perché scrivo per vivere e se mi blocco si blocca tutto. O forse perché scrivo spesso su commissione e ho il senso del dovere del soldato che mai potrebbe disobbedire a un ordine. O forse è solo che scrivere è bello quasi come viaggiare. Chi potrebbe mai avere la sindrome della nave che non esce dal porto o dell’aereo che non si stacca da terra? Lo spirito d’avventura non conosce la pagina bianca. E la riempie.

Hai introdotto in letteratura il concetto di vampirismo energetico: raccontaci cosa significa e che pericoli nasconde.

Io credo che il vampiro della letteratura, quello con i lunghi canini, il colorito tombale e il morso che infetta le vittime con il suo morbo sia la metafora di un tipo umano estremamente diffuso nel nostro mondo: il vampiro energetico, appunto. Come il vampiro della tradizione letteraria si appropria del sangue dei viventi, così il vampiro umano sottrae loro energia vitale, applicando modalità di rapina semplici ma efficaci, che possono andare dalla negazione di un saluto, di un sorriso, di un atto di gentilezza, del riconoscimento di un merito, fino al raggiro, alla sopraffazione, alla violenza psicologica e alla privazione della libertà di pensare, o addirittura di vivere. Tale sottrazione avviene sempre attraverso una lesione alla dignità altrui. Letti in questa chiave, personaggi di Ad bestias come Iole e Giunta si rivelano Vampiri energetici da manuale. Di Iole, per esempio, nel romanzo si dice che

«vagava in una tenebra sconfinata» e che «l’infelicità della sua condizione non si accontentava dell’esercizio quotidiano dell’astio e della malevolenza, ma la spingeva anche a combattere gli intenti buoni che leggeva negli altri, come se avesse ricevuto il mandato di debellare anche in loro ogni speranza, ogni cosa delicata, ogni scrupolo e ogni intento di fondarsi su ciò che è giusto. Dovunque guardasse, non poteva fare a meno di augurarsi che anche gli altri morissero dentro, che sentissero spegnersi ogni sentimento e lo sostituissero, come aveva fatto lei, con tutte le vuote contraffazioni del sentimentalismo». 

Il vampiro energetico è più che un antagonista, è il Nemico che attende al varco la vittima di turno, nel caso di Ad bestias un bambino creativo, un po’ magico, capace di incredibili voli di fantasia e animato da una straordinaria riserva di energia vitale.

Qual è il libro migliore che non hai scritto?

In ogni libro c’è qualcosa di chi scrive. Ma in ogni mia storia, alla fine, io mi identifico con tutti, buoni e cattivi. Forse non arriverei a fare tutto ciò che di buono fanno i buoni e sicuramente non farei mai il male che fanno i cattivi. Comprendo e approvo i primi, comprendo e disapprovo i secondi. Ma comprendo tutti. La verità è che, in questo navigare di conserva con i miei personaggi, io non ho mai scritto la mia storia. Ho preso spunto da fatti che mi sono capitati, ho anche lasciato credere che quelli che scrivevo fossero eventi e sentimenti davvero personali. Ma la verità è che non ho mai davvero portato me stesso in scena, non ho mai parlato veramente di me. Ho parlato di qualcuno che mi somigliava, anche molto, ma che non ero io. Il libro che non ho scritto, non so se il migliore, è quello che racconterebbe la mia storia. Ma credo che non lo scriverò perché farlo mi porterebbe ad attenuare le responsabilità che, in tanti momenti e con tante persone incontrate nella mia ormai lunga vita, ho accettato di prendermi interamente, senza precisarne troppo i confini. Una cosa, questa, che mi ha sollevato dalla pedante necessità di sottilizzare, chiarire, disputare per aver ragione. E mi ha dato la pace che solo il perdono può dare.

Quale dei tuoi personaggi vorresti essere e perché?

Michelino, senza dubbio. Perché Michelino, al culmine del suo penoso percorso, capisce che la fine della paura può passare soltanto dall’accettazione di una semplice e terribile verità: che l’unico protagonista dei misteriosi eventi che ha vissuto è lui, e che non può pretendere di essere capito da chi non li ha vissuti. Gli altri sono fantasmi che, se fossero sottoposti alla tortura della verità, si scioglierebbero come cera. Non sono pronti. Si vede «dalle loro facce, dalla vacuità dei loro sguardi, da quel senso di affettuosa e impaurita distanza» con cui lo accolgono, come a volergli dire:

«Sei un caro bambino, ma non togliermi la mia pace: lasciami dove sono, non portarmi dove non saprei più che cosa risponderti perché non saprei più neanche chi sono io e che cosa ho imparato della vita».
Michelino ce la fa da solo, e da solo sperimenta «quel momento sacro e terribile che è la fine della paura, e con essa dell’indegnità, della colpa, della condanna di sé e della propria condizione». E lo fa senza neanche una voce che gli dica: «Sei la mia stella».

giovedì 21 gennaio 2021

Il surrealismo di Zeno Toppan


Abbiamo con noi oggi Zeno Toppan, autore per Vocifuoriscena di Il funerale di Edward Block. Per iniziare, la domanda spauracchio di ogni scrittore: come reagisci alla sindrome della pagina bianca?

Tendenzialmente non la ho. Esistono momenti, però, in cui non scrivo nulla. Momenti che durano giorni o mesi. Ma quando capita non è mai una sindrome, è semplicemente l'avere poco o nulla da dire. In quei casi è bene leggere di più e scribacchiare alla stessa maniera in cui si scarabocchia.

In generale, hai tu il controllo dei personaggi o loro fanno quello che vogliono?

Le narrazioni possono essere character driven (guidate dal personaggio) o plot driven (guidate dalla storia). Le une seguono i binari di una trama già stabilita, le altre quella tratteggiata, poco a poco, dai personaggi inseriti in un contesto particolare. Il gioco sta nel trovare un equilibrio: i romanzi fondati solo sulla trama perdono l'aspetto letterario, mentre quelli fondati esclusivamente sull'interiorità dei personaggi possono essere capolavori letterari, ma non fanno davvero i conti con la realtà: le nostre vite hanno una trama. Le cose capitano all'essere umano come capitano al personaggio letterario. Le fortune, le disgrazie, gli incidenti e i successi. Bisogna trovare un giusto bilanciamento, quindi, tra il controllare e il lasciarsi trascinare da un personaggio. Un equilibrio tra il destino (il plot, la trama) e il libero arbitrio (i personaggi e i loro mondi interiori).


Da dove nasce l’idea del romanzo Il funerale di Edward Block?

Da alcuni articoli in cui mi ero imbattuto, da ragazzino, sul ruolo della creatività nella vita umana. Da questi scritti sembrava che proprio non si potesse sfuggire all'istinto creativo: la quasi totalità di lavoratori impiegati in mansioni monotone e noiose, refrattari a qualsivoglia produzione creativa, finivano per sfogarsi scarabocchiando su post-it o fogli di carta. Facendo piccoli disegni qua e là, colorando questo o quello. Canticchiando in bagno, mentre si lavavano le mani. Mi è venuta così l'idea di Edward Block: un personaggio rotto che, per un qualche inceppamento psichico ed esistenziale, non aveva mai esperito la necessità di essere creativo. Ma cosa succede a una diga dopo decenni di temporali?

Quale dei tuoi personaggi vorresti essere e perché?

Ogni personaggio è una proiezione del suo autore. Siamo sempre un po' tutti loro. Ci prestano nomi e volti nuovi, ci aiutano a mascherarci, ma alla fine ci nascondiamo sempre, svelandoci tra le righe di ogni personaggio.

Qual è il libro migliore che non hai scritto?

Mi riprometto che sarà sempre il prossimo.

Cosa vuol dire, secondo te, avere successo come scrittore?

Trovare un equilibrio tra l'ossessione per parola e il bisogno o il desiderio di denaro.


giovedì 14 gennaio 2021

Le dodici notti, tra mistero, magia, speranza e… terrore







Tra Natale e Epifania intercorrono esattamente dodici notti, tante quanti i mesi dell’anno. 
Premetto che non sono un’esperta in materia. Ma, circa sedici anni fa, ho pubblicato il saggio Storia e magia del Natale nel mondo per la casa editrice veronese QuiEdit. E, tra le altre cose, narravo il fascino, ancor oggi vivo in alcuni Paesi, delle fatidiche dodici notti. 
Così ho pensato di riproporlo nelle seguenti righe, seppure in forma ridotta. 

Perché festeggiamo il 6 gennaio?

L’Epifania condensa una miriade di festività antiche e culti pagani solstiziali, in seguito amalgamati e inseriti nella tradizione giudaica e cristiana. In alcuni Paesi ortodossi, per esempio, il 6 gennaio coincide ancor oggi con la vigilia (o antivigilia) del Natale, mentre questa data è praticamente priva di significato per i popoli di tradizione musulmana o buddhista. 
Una solennità prevalentemente occidentale, dunque, anche se la sua origine storica è nettamente orientale. Come ci illumina Alfredo Cattabiani in Calendario. Le feste, i miti, le leggende e i riti dell’anno, la nascita dell’Epifania risale al 120-140, per opera degli gnostici basilidiani di Alessandria d’Egitto, una setta eretica di matrice cristiana del II secolo. I basilidiani ritenevano che l’incarnazione del Messia fosse avvenuta con il battesimo nel fiume Giordano, ossia in coincidenza con la sua manifestazione (epipháneia) pubblica a tutti gli uomini.
Infatti, Epifania, dal greco epipháneia, significa “manifestazione”, “apparizione”, “rivelazione di una divinità”, e coincideva in Oriente con i riti del solstizio invernale, che festeggiavano la rinascita del Sole e il rinnovamento del tempo. Molte divinità solari del mondo orientale, come Eone, Helios e Dionisio, venivano onorate il 6 gennaio. 

Poi l’avvento del Cristianesimo che, durante i primi secoli, si diffuse soprattutto nelle aree orientali dell’impero romano, dove la libertà di culto era maggiormente consentita.
Fu in seguito all’affermarsi della nuova religione che all’inizio del II secolo, ad Alessandria d’Egitto, si cominciò ad attribuire all’Epifania un valore diverso, configurandola, almeno inizialmente, come celebrazione del battesimo nel fiume Giordano.
In seguito, nella stessa data, si aggiunsero altre tre commemorazioni: la nascita del Messia, il suo primo miracolo e l’adorazione dei Magi.
È in quest’ultima prospettiva che la Chiesa romana, una volta che la festività venne importata nelle regioni occidentali dell’Impero, ha interpretato il significato di questa solennità religiosa, mantenendolo inalterato fino ai nostri giorni. 

La dodicesima notte

A livello popolare, tuttavia, il 6 gennaio ha inizio dopo la dodicesima notte, chiudendo il cerchio magico dei giorni sottratti al tempo in cui tutto era possibile, perfino predire il futuro.
Ma la sospensione del tempo apre anche la porta su un affascinante mondo fantastico, dove gli animali parlano, si compiono prodigi, le signore notturne cavalcano sulle scope e i morti fanno ritorno sulla Terra, allentando il rigore delle leggi scientifiche e fisiche che governano il mondo.
E sull’atmosfera fiabesca delle dodici notti la fantasia popolare si è sbizzarrita, vivendo questo magico periodo all’insegna della trasgressione e del sovvertimento dei ruoli. Solo con il 6 gennaio ogni orgia e festeggiamento si concludono per rientrare nel tempo della normalità.

Alcune curiosità sulle dodici notti

Sebbene oggi queste manifestazioni di rivoluzione temporanea siano decisamente meno appariscenti che in passato, di certo non sono scomparse e sussistono ancora in molti Paesi.
L’esempio forse più diffuso, sebbene limitatamente all’Occidente europeo e americano, sono le sfilate in maschera o, comunque, il travestimento, che simboleggia la trasposizione dei ruoli, come la tradizione dei mummers in Inghilterra: persone mascherate, cercavano un tempo ospitalità nelle case durante il periodo natalizio (oggi la tradizione si è commutata in rappresentazioni teatrali).
Questa usanza risale al 1512, quando re Enrico VIII stabilì di celebrare le dodici notti in modo decisamente originale, facendo costruire un castello in dimensioni ridotte, con tanto di torrioni e cancelli, che venne trasportato per le sale del palazzo. Al suo interno dame vestite con abiti di raso ricamati con foglie d’oro e acconciature e copricapi anch’essi dorati.
Il re con cinque cavalieri, tutti vestiti altrettanto riccamente, assalirono la roccaforte ingiungendo alle dame di uscire per danzare con loro. Dopo ore di balli, le deliziose damigelle invitarono i prodi vincitori a seguirle nel castello, che venne velocemente trasportato fuori dal salone principale in cui si svolgeva la festa. Lascio all’immaginazione del lettore come si conclusero i festeggiamenti... 

Tuttavia Enrico VIII, forse troppo entusiasta dell’atmosfera godereccia vissuta nel corso delle dodici notti, dovette poi fare i conti con i disordini che seguirono e di cui si erano avute avvisaglie anche in passato.
Sempre in occasione del 6 gennaio, nel 1393, in Francia, una festa alla corte di re Carlo si era trasformata in tragedia: molti partecipanti, per voler assomigliare ai “selvaggi” neri, si erano ricoperti il corpo di pece e pelame. La vicinanza alle torce, che illuminavano la notte e accompagnavano le danze, aveva fatto divampare un grande incendio, proprio in virtù dell’alta infiammabilità dei travestimenti, ed era stato enorme il numero dei morti carbonizzati.
Soprattutto, il travestimento non consentiva di riconoscere i volti e così capitava spesso che sgraditi ospiti partecipassero alle feste dei nobili, pur non essendo stati invitati, creando inevitabilmente scompiglio.
Pur a malincuore, Enrico VIII fu costretto a emanare una legge che proibiva i travestimenti, ma questo trasgressivo costume continuò a sopravvivere e a diffondersi, nonostante le proteste della nobiltà. 

In Grecia vige una curiosa credenza popolare: nel corso delle dodici notti dei demòni sotterranei (kallikántzaroi) si introducono nelle case, spesso scendendo dal camino, e compiono innumerevoli dispetti, come far andare a male il latte o impossessarsi delle persone costringendole a danze sfrenate per tutta la notte. L’unico modo per contrastarli è lasciare da Natale all’Epifania il ceppo acceso nel camino, oppure attendere il 6 gennaio, quando grazie ad una suggestiva benedizione vengono ricacciati nel sottosuolo per un intero anno.
Sebbene l’acqua benedetta possa porre termine alle insidie dei kallikántzaroi, nei dodici giorni precedenti i greci prendono ogni precauzione contro i loro influssi malefici: in particolare, è convinzione diffusa che tutti i bambini nati il 25 dicembre possano trasformarsi in questi fastidiosi demòni e, per scongiurare tale pericolo, i neonati vengono avvolti in trecce d’aglio o viene loro bruciata l’unghia di un piede.

E la Befana?

In molti parti del mondo l’Epifania è considerata il momento propizio per scacciare il male e gli spiriti maligni. Tra i riti di purificazione del 6 gennaio spiccano i falò, come il Rogo della Vecchia, con cui si bruciano simbolicamente tutti gli elementi negativi dell’anno appena trascorso.
I fuochi dell’Epifania si ricollegano agli antichi riti solstiziali, in cui le cataste venivano bruciate per rigenerare il Sole, ma anche ai culti della fertilità delle popolazioni preelleniche. Era infatti la Dea Madre, confluita poi nell’immagine della Befana, la principale divinità venerata dalle civiltà arcaiche.

La vera antenata della Befana, tuttavia, va fatta risalire alla dea Diana e al culto della fertilità, “allorché si riteneva che, nelle dodici magiche notti tra il 25 dicembre e il 6 gennaio, fantastici voli notturni di misteriose figure femminili, sopra i campi seminati, avessero una funzione propiziatoria per il futuro raccolto” (C. Sacchettoni, La storia di Babbo Natale).
La dea Diana, prima di sedimentarsi nella popolare e benevola immagine della vecchina portatrice di doni, ha subito una serie di metamorfosi straordinarie, in sintonia con l’atmosfera magica della dodicesima notte. Poiché volava di notte, ella venne identificata dapprima con una strega, in perenne combutta con Satana, per poi commutarsi in Befania, la regina delle signore notturne. In queste nuove vesti cambiò radicalmente il suo ruolo, divenendo mediatrice delle liti tra le streghe nonché antagonista del Diavolo.

Le varianti della Befana

La Befana ha assunto caratteristiche e aspetti diversi a seconda delle tradizioni popolari di ogni Paese.
I popoli della Germania la chiamavano Frau Holle, protettrice dell’agricoltura e dei bambini morti in circostanze violente o senza aver ricevuto il sacramento del battesimo. Giovane, con lunghi capelli biondi, questa divinità solcava i cieli su un carro trainato da cavalli d’oro, accompagnata da un innumerevole corteo di streghe.
Nella versione della Germania meridionale prendeva invece il nome di Frau Berchta e volava scortata dalle anime dei bambini defunti. Decisamente meno affascinante di Frau Holle, questa “Befana” dai capelli arruffati pretendeva di essere ricevuta secondo precisi cerimoniali, come la preparazione di un pranzo a base di aringhe e knödel. Non osservare queste regole significava attirare la sua spietata vendetta. 

Nonostante i tentativi delle autorità religiose di neutralizzare questi personaggi fantastici e a un tempo inquietanti, Frau Holle, Frau Berchta e anche la Posterli della Svizzera e la strega Zuscheweil del Tirolo continuano ad alimentare la fantasia popolare.
Amata e temuta, la Befana viene regolarmente celebrata in molti Paesi europei, dove ormai ha perduto ogni valenza negativa. La dolce nonnina è conosciuta anche in Sudamerica, con il suadente nome di Vieja Belén (la Vecchia di Betlemme), ed è colei che per tradizione dispensa i doni ai bambini poveri nella Repubblica Dominicana.
Girovagando per il mondo incontriamo anche altre portatrici di doni: in CanadaMamma Goody, che distribuisce i regali a Capodanno e la Tante Arie della Franca Contea (una regione della Francia orientale), che sostituisce in tutto e per tutto Babbo Natale.
La Babuška ("nonna") della Russia, probabilmente una versione della Baba Jaga, che si nutriva di carne umana, specie quella tenera dei bambini, invece è una candida vecchina che adora i bambini e intorno a lei sono sorte svariate leggende.
La più celebre narra che i Magi, mentre si recavano a Betlemme, bussarono alla porta della sua dimora, chiedendole indicazioni ed invitandola a seguirli. Ella però rifiutò la gentile proposta, per poi pentirsene amaramente. Corse allora fuori, con una cesta colma di doni per Gesù, ma non riuscì a rintracciare i tre re. Così da allora, per espiare la sua colpa, porta i doni a tutti i bambini del mondo la notte dell’Epifania.

Alcuni aspetti del suo turbolento passato permangono ancora, soprattutto il suo intrinseco legame con gli antichi riti propiziatori, dove la Befana personifica il ciclo della vita e della trasformazione: i suoi capelli bianchi simboleggiano l’anno giunto rinsecchito al termine dei suoi giorni e così la vecchia signora dell’Epifania troneggia sulle cataste ardenti, emblema dell’eterno concludersi e rinascere della natura e della vita.