Premetto che conosco l’autrice dai tempi in cui era ancora una studentessa universitaria. E anche di essere stato uno dei primi ad incitarla a pubblicare questa breve, ma intensa, «delizia letteraria».
Se ben ricordo, era intorno al 1987, e Claudia – mi permetto di utilizzare solo il nome di battesimo – non era convinta, le sembrava un romanzo troppo lacrimevole, «di altri tempi», qualcosa che non avrebbe mai incontrato i gusti del pubblico.
A nulla valsero le mie proteste: per un assurdo puntiglio, o magari per una forma di presunzione al contrario, era convinta di essere l’unica ad amare ancora le storie vere, con dei contenuti emozionali ed emozionanti.
Buttò in un angolo il dattiloscritto – all’epoca non aveva un pc – e smise di pensarci.
Me ne dimenticai anch’io, naturalmente. Fino a quest’estate, quando venni a sapere che il romanzo non soltanto era stato pubblicato, ma anche messo in scena al Teatro del Bosco di Negrar, presso Verona, con il patrocinio nientemeno di Giulio Brogi (vedi). Non sono potuto andare, purtroppo, ma ho subito ordinato una copia a Vocifuoriscena, curioso di vedere se e come fosse cambiato rispetto alla stesura originale. Pochissime variazioni, quasi impercettibili, del tutto trascurabili: il romanzo era lo stesso, eppure…
Ecco, vorrei parlarvi di questo «eppure».
La prima volta, e parlo di circa venticinque anni fa, mi aveva colpito la freschezza dello stile, quel saper scendere, oserei dire in punta di piedi, nell’intimità di entrambi i protagonisti, senza mai dare l’idea di parteggiare per l’uno o per l’altro. E, soprattutto, ero stato affascinato da Christine, l’esuberanza che faceva da contraltare alla sua rabbia, alla delusione per i rapporti con tutti, dai genitori al fidanzato. Mi era piaciuto il gioco, perché intuivo in Matteo un alter ego di Christine, come se fossero due facce di una stessa medaglia. E il finale mi aveva portato a pensare che si sarebbero ricongiunti…
Posso assicurare che non è a causa delle piccole variazioni, se ho cambiato idea.
Rileggendo il romanzo, anzi, bevendomelo tutto di un fiato, mi sono reso conto che la parte da padrone viene fatta dall’incomunicabilità: Christine e Matteo rappresentano due mondi distinti che cercano un punto di incontro, senza riuscirci. Che la prima a rendersene conto sia lei, la donna, non mi stupisce, oggi. Christine si spaventa, sente che Matteo vuole da lei qualcosa che ai suoi occhi è impossibile: tutta la verità, una condivisione assoluta.
«Cosa credi che vada a fare, a Bologna? Non c’è un altro, se è questo che temi. Solo io, nel mio appartamento, dove vorrei poter… oh, cavolo! Restare sola. Tutto qui.»
Matteo sa chi è lei, lo ha potuto constatare fin dall’inizio, fin dal loro primo incontro, ma spera di cambiarla. Poi la verità che tanto cercava gli giunge tra le mani, in forma di piccole confidenze scritte su dei foglietti, in una lettera, che Christine mai gli avrebbe fatto leggere.
E qui il tocco di genio dell’autrice: se c’è la verità, non c’è più la persona. Christine è fuggita, introvabile.
Eppure… torniamo su questo «eppure»: se Christine è introvabile per il suo fidanzato, per i genitori, eccola invece a confidarsi con il lettore, a spogliarsi dinanzi a lui di ogni pudore. È al lettore che rivela i suoi dubbi, i tormenti che la accompagnano, a lui che chiede di essere compresa…
E il gioco si complica: Christine, personaggio letterario, può dire tutto di sé a chi la legge, a chi la ascolta oltre le pagine del libro stampato. Il suo monologo interiore è un interrogarsi delicato, lucido, sfiancante e nel contempo necessario: risposte, per noi esseri umani, non ce ne sono, almeno non quelle in grado di placare i tormenti dell’anima, ci sembra dire.
Eppure – di nuovo «eppure» – ecco la sofferta ironia con cui l’autrice congeda il lettore: «Tutto di noi è importante, anche l’attimo sprecato».
Forse non siamo capaci di capire gli altri e neppure noi stessi, ma arrendersi di fronte all’incomunicabilità, sia essa fittizia o effettiva, è il peggiore degli errori, l’unico davvero imperdonabile.
L’happy end è lasciato a chi lo pretende, e il finale è giustamente senza risposta, aperto a ogni interpretazione.
Per eventuali acquisti, rimando alla pagina: Oltre la superficie dello sguardo.
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