Durante l’Operazione Barbarossa, Vidkun Qvisling volle che la mai realizzata colonia norvegese della Russia del nord prendesse il nome di “Bjarmeland”, riesumando così dalla storia e dal mito quella sorta d’Iperione delle mappe settentrionali, enigmatica culla della nazione di Pohjola, potenza commerciale del Mar Bianco, prospero regno dai mille tesori che, nei secoli, è tramontato e risorto all’orizzonte della storia, scaldando il cuore dei suoi esploratori.
L’argomento è ora all’attenzione del pubblico italiano: ad agosto 2015 la piccola casa editrice Vocifuoriscena ha pubblicato la traduzione italiana del saggio di Matti Haavio Splendore e declino del regno di Biarmia (Bjarmian vallan kukoistus ja tuho, 1965). Un saggio finlandese in traduzione italiana è, già di per sé, un evento di un certo interesse, tanto più se l’argomento è tra i più sfuggenti e proteiformi dell’antichità finnica, trattato in modo organico e approfondito, non senza qualche spericolatezza, da una figura eclettica del mondo accademico finlandese.
Martti Henrikki Haavio nasce a Temmes (Ostrobotnia Settentrionale) nel 1899; laureato in filosofia nel 1932 presso l’Università di Helsinki, un anno prima diventa funzionario dell’Archivio di poesia popolare della Suomen Kirjallisuuden Seura, la “Società di Letteratura Finlandese”, istituto del quale, a partire dal 1934, è direttore. In quegli anni inizia la sua carriera di ricercatore e interprete della lirica baltofinnica: i suoi studi, permeati dall’acerbo fenomenologismo di Julius Krohn e, soprattutto, dal “ponderato diffusionismo” di Uno Harva, lo portano alla pubblicazione del primo studio, Suomalaisen muinaisrunouden maailma (“Il mondo della poesia finnica”, 1935), cui seguono, tra i saggi di maggior rilievo Väinämöinen. Suomalaisten runojen keskushahmo (“Väinämöinen. Figura centrale dei carmi finnici”, 1950), Karjalan jumalat (“Gli dèi di Carelia”, 1959) e Suomalainen mytologia (“Mitologia finnica”, 1967), lavori centrati sullo sviluppo e la funzione dei miti nelle loro descrizioni liriche. Dal 1947 al 1956 detiene la cattedra di studi comparati sulla tradizione orale presso l’Università di Helsinki e, dal 1956 al 1959, è membro dell’Accademia di Finlandia. Come poeta scrive sotto lo pseudonimo di P. Mustapää, nome derivato dalla cinquecentesca “Casa delle Teste Nere” di Tallin, sede dell’omonima Confraternita, gilda di mercanti baltici fondata nei primi del ‘400 a Rīga, il cui patrono era San Maurizio (la testa nera è un riferimento all’iconografia duecentesca del soldato moro e alle presunte origini egiziane del Santo). Nelle prime due raccolte, Laulu ihanista silmistä (“Canto d’occhi incantevoli”, 1925) e Laulu vaakalinnusta (“Canto su un grifo”,1925), troviamo una commistione tra contemplazione cosmica, stilemi tardoromantici ed esprit européen, elementi caratteristici di Tulenkantajat, movimento letterario al quale il giovane Haavio aderisce, quantunque ufficiosamente, prendendone poi le distanze per divergenze verso Mika Waltari e altre figure da lui definite “pseudointellettuali maturati in botte” e ranskanpullansyöjät, “divoratori di pandolci francesi” ovvero gagà esterofili. Tra le opere più significative, Jäähyvaiset Arkadialle (“Addio, Arcadia”, 1945), introspezione reorientativa sulla disillusione del dopoguerra, e Ei rantaa ole, oi Tethis (“Non v’è costa, o Tethis”, 1948), sincretismo “leinoniano” tra mito classico e simbolo cristiano, motivo riproposto anche in Linnustaja (“L’uccellatore”, 1952). Nelle due raccolte Kirjokansi (“Coperchio screziato”, 1952) e Laulupuu (“L'albero dei canti”, 1952), falsarighe rispettivamente del Kalevala e della Kanteletar, Haavio tenta una ricostruzione “in provetta” degli archetipi della lirica popolare, accostando metodo filologico e ricerca del risultato poetico, posizione che potremmo definire il motivo dominante della sua opera letteraria e divulgativa. Sulla stessa linea, nell’ambito degli studi filologico-folcloristici, è sviluppata anche l’opera da poco tradotta in italiano, il cui sottotitolo, Historiaa ja runoutta (“Storia e poesia”), è stato deliberatamente eliminato, per volontà di editore e traduttore, al fine di sottrarre lo spessore scientifico dello studio alla scorciatoia di un’interpretazione forzatamente evemeristica delle fonti lirico-folcloristiche, espediente cui l’autore indulge piuttosto frequentemente.
Della Biarmia (Bjarmaland, prospera terra popolata dai beormas citati dal viaggiatore norvegese Óttar di Hålogaland, come da altre fonti scandinave, tedesche, russe, finno-permiane, turciche, arabe, greche e latine), si sono occupati intellettuali finlandesi quali l’etnologo, linguista e storico Kustaa Vilkuna, l’archeologo Aarne Michaël Tallgren, il poeta e traduttore Joel Lehtonen e, nella sua fugace esperienza di scrittore, Akseli Gallén-Kallela, a titolo proprio tutti affascinati dalla romantica finnicità di questa misteriosa terra menzionata dalle antiche scritture, importante crocevia dei mercati del Settentrione e meta ambìta di scorrerie da parte dei popoli vicini per le sue inusitate ricchezze.
Nell’introduzione, Haavio spiega come maturò l’idea di affrontare il nodo archeo-filologico della Bjarmia durante la guerra di continuazione (1941-1942) allorché, a capo della 7ma Propagandakompanie (TK-komppania), di stanza nell’Olonec al fianco di poeti e intellettuali quali Olavi Paavolainen e Yrjö Jylhä, ebbe modo di visitare villaggi vepsi e ludi e di conoscere rappresentanti di questi due ceppi baltofinnici. Dalle esperienze di guerra nacquero due pubblicazioni, il diario Me marssimme Aunuksen teitä (“Marciamo sulle vie dell’Olonec”, 1969) e, a quattro mani con Paavolainen, Taistelu Aunuksta (“Battaglia per l’Aunus”), testo posto all’indice nel dopoguerra e recentemente riproposto da SKS. Ricordiamo che, nella sua forma più condivisa, la cartografia dell’irredentismo finlandese (Suur-Suomi-aate) poneva il “confine naturale” più orientale della Grande Finlandia nell’Olonec e nella Vepsia, come già descritto nell’ultima strofa di Suomen valta (“Dominio finlandese”, 1860) di August Ahlqvist o nella prima versione della Jääkärimarssi (“Marcia dello Jäger”) di Heikki Nurmio, musicata da Jean Sibelius (Op. 91, 1917).
Negli anni della guerra la macchina propagandistica formalizza l’utopia pan-finnica nell’apologia Finnlands Lebensraum, redatta dal geografo Väinö Auer, dallo storico Eino Jutikkala e dal già menzionato Kustaa Vilkuna, nonché nel saggio Idän kysymys dello storico Jalmari Jaakkola: di questi ricercatori due, Vilkuna e Jaakkola, sono stati emeriti indagatori della Biarmia storica. Ricordiamo di passaggio che, politicamente, Haavio fu una figura piuttosto obliqua: se da un lato il rifiuto di un eccessivo cosmopolitismo lo portò ad allontanarsi dal gruppo Tulenkantajat (nel 1925, durante la festa annuale della Società Accademica di Carelia, tenne un discorso sul danno del bilinguismo all’identità finlandese), dall’altro nel 1932, come Urho Kekkonen, Vilkuna e altre personalità vicine al Maalaisliitto, dette le proprie dimissioni dalla Akateeminen Karjala-Seura poiché il consiglio direttivo non fece atto formale di condanna verso il fallito colpo di stato dei nazionalisti, conosciuto come Ribellione di Mäntsälä. L’attività scientifica di Haavio, dagli studi sulle religioni dei popoli finni-careliani alla “caccia al tesoro” della Biarmia è, in vario modo, sempre solidale agli orientamenti individuali dell’autore. Dimostrare che vepsi e voti fossero i discendenti dei Biarmi significava spostare l’asse dell’indagine dall’ipotesi finno-permiana (già sostenuta da Olaus Rudbeck e sviluppata nel primo ‘800 fino a Jaakkola) a quella baltofinnica, il cui perno è l’incrocio tra le fonti cronachistiche russe sulla Biarmia e l’etnonimo “Čudi” (voce peraltro presente nel lessico mitico-folcloristico di Komi e Udmurti): con l’assimilazione dei vepsi ai così detti “Čudi d’oltre corso” (Čud' zavoločskaja), ovvero i finni alla foce o al basso corso della Dvina Settentrionale, la “Biarmia storica” della Carta di Olaus Magnus poteva essere agevolmente sovrapposta al mythomoteur della Grande Finlandia, mercé un robusto apparato filologico in grado di collocare, non senza qualche forzatura, le tessere materiali delle fonti, frammentarie e spesso tra loro contraddittorie, nel mosaico della narrazione storica.
Haavio illustra l’etnogenesi ricorrendo ad un’etimologia descrittiva presumibilmente comune a fenni, kveni, biarmi e vepsi (wizzi in Adamo di Brema, wisinni in Saxo Grammatico): dietro questi etnonimi vi sarebbero parole legate al colore chiaro di capelli e carnagione. Le varianti arabe Wīsū, Īsū, etc., confermerebbero il ruolo nodale della “Biarmia vepsa” nella poderosa rete commerciale lungo le fitte vie d’acqua nei bacini del Volga e della Dvina, grazie alla quale merci, principalmente argento e pelli ma anche prodotti del Mare di Barents, circolavano tra Settentrione orientale, Grande Bulgaria, Medio Oriente e Asia Centrale, arricchendo tra i popoli il reciproco sviluppo di miti, leggende e bestiari. Come ha osservato Urpo Vento (Filologi Bjarmian rajoilla, in “Virittäjä”, 1966, 70), la più autentica scoperta di Haavio consiste nell’individuazione di un tratto comune tra le fonti scandinave e il racconto degli arabi: un popolo detto biarmo, in grado di esercitare il controllo sui venti del nord e di suscitare il gelo (al-Qazwīnī e Saxo). Da una fonte come quella di Saxo Grammaticus, materiale che l’autore riteneva andasse maneggiato con estrema cautela, il folklorista ha il compito di filtrare la sostanza storica dalla scenografia verosimile del mito: nel contenuto russo-variago delle vicende del re e viaggiatore leggendario Ragnarr loðbrók vi è il riflesso delle spedizioni che gli scandinavi intrapresero oltre il Baltico verso nord-est, il risultato delle quali fu la colonizzazione della Russia sotto il nome di Rjurik.
La trattazione delle fonti scaldiche costituisce senza dubbio la componente più criptica dell’intera questione: Haavio affida la traduzione dei testi ad Aale Tynni, seconda moglie dell’autore, anch’ella, in definitiva, una poetessa votata alla filologia. Le frequenti concessioni ad una linea in grado di suffragare le tesi del marito sono, nella versione italiana, coscienziosamente corrette nel quadro di una restituzione dell’argomento all’indagine scientifica (in appendice vi è una versione filologica della Þórsdrápa, fonte nella quale l’accavallarsi di kenningar e artifici allegorici costituisce ostacolo ad una soluzione interpretativa univoca).
Nel giudizio sulla veridicità del materiale scaldico Haavio si pone in linea con l’esegesi di Jan De Vries e di altri scandinavisti dell’epoca: le istanze di una “lirica operativa”, declamata ad un pubblico scelto per celebrare le memorie di re ed eroi, comportava l’elaborazione del tema narrativo a partire da un fatto storico. L’autore considera affidabile anche il racconto di Snorri sui viaggi in Biarmia di Þórir hundr e Karle, nonché la menzione del dio Jómali, la cui statua era ornata dalle vagheggiate ricchezze dei Biarmi. All’accostamento tra il nome e le orbite della voce uralica *juma (juamala, juma), segue un’audace tragitto etimologico che, dalla divinità finno-lappone Iuma citata da Tornaeus, attraverso la figura agrario-apotropaica dello Jumis lettone, giunge fino allo Yama vedico ed allo Yima iranico, sottolineandone la funzione eponimo-titanica, in linea con la coeva fenomenologia delle religioni (Zaehner, Eliade), nonché il ruolo nella topografia ctonia (il lemma jumi e il coleottero noto come “orologio della morte”).
Il saggio si conclude con la descrizione delle spedizioni condotte a metà Ottocento presso il Cholmogorskij rajon (oblast' di Arcangelo) alla ricerca del bosco di Holmogor, sepolcro čudo e, presumibilmente, luogo sacro dei biarmi: un piccolo caso archeologico dal quale già il Castrén sperò di trarre segni tangibili di una civiltà i cui insediamenti, prima di allora, erano presenti solo nelle carte immaginifiche del mito nordico. Lo studio di Haavio è l’ultimo tentativo, per molti aspetti il più affascinante e spettacolare, di rinfocolare lo spirito di un’antichità settentrionale a metà tra il tema iperboreo (l’Eridano come la Dvina Settentrionale, i monti Ripei e la “porta di Alessandro”) e il Nationalcharakter herderiano (il ritorno in patria di Apollo come la visita del “gigante vepso” alla corte del qan di Bulgaria, la diaspora linguistica dei finni). Sulla Biarmia non si è scritto più; parlarne ancora da un punto di vista storico-filologico suona forse un poco démodé, ma il nome ricorre nella coscienza dei finlandesi come il sogno nel Laulu Kuujärvestä (“Canto di Kuujärvi”) di Yrjö Jylhä: per qualche giornalista regioni come la Repubblica dei Komi e l’oblast' di Arcangelo, importanti interlocutori commerciali della Finlandia, sono ancora “Biarmia”; altri (il giovane scrittore e giornalista Ville Ropponen, 2015) vi intitolano antologie di poeti contemporanei d’ambito finno-ugrico. L’arcadico mistero del “popolo bianco” continua ad affascinare.
articolo di
Marcello Ganassini
Per informazioni, vieni alla pagina di Splendore e scomparsa del regno di Biarmia
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