lunedì 3 aprile 2017

"Ad bestias", recensione di Alice Torreggiani

«Mentre la zia lo riportava a casa, Michelino ebbe la sensazione che il suo corpo e la sua anima fossero due entità separate. Il corpo stava bene, ma l’anima era malata e gli faceva male. Non capiva dove, perché l’anima non aveva una forma, ma gli faceva male. […] Era come se la sua mente fosse rimasta bloccata in un certo momento di quel pomeriggio, e ora dovesse forzatamente imparare a funzionare in un modo nuovo e discordante da ogni meccanismo conosciuto». Michelino è un bambino di sei anni che, proprio all’inizio del romanzo, è costretto ad affrontare un forte trauma, un evento che lo porta a dover abbandonare il proprio stato di innocenza e a sentirsi in dovere di crescere, prendendo il posto di adulti che di adulto hanno solo l’aspetto e che non riescono a capire il suo dolore, né aiutarlo.  

Michelino mostra una spiccata fantasia e una passione per creare mondi e personaggi immaginari, in cui si immerge e con i quali interagisce con un realismo tale da renderli quasi veritieri agli occhi del lettore, sempre in bilico tra mondo fattuale e mondo onirico-fantastico. La difficoltà di tracciare un confine tra ciò che è reale è ciò che non lo è costituisce una delle principali caratteristiche del romanzo di Mario Corte, Ad bestias. È anche l’espediente attraverso cui si fa luce sull’interiorità dei personaggi, che si presenta come un intricato gomitolo di vizi e perversioni, di segreti e profonde mancanze, che si materializzano sotto forma di visioni, incubi e apparizioni, talvolta uscendo dal surreale per approdare nel reale. Si potrebbe parlare di realismo magico, tanto è pronunciata la sovrapposizione tra questi due livelli.



Questo non accade solo a Michelino, ma anche agli altri personaggi, in particolare Jole, la nonna paterna, colei che tiene o pretende di tenere le redini delle sorti dei propri figli. Il bambino è infatti l’occhio attraverso cui veniamo introdotti nella famiglia. Una famiglia straziata, non solo dalla scomparsa del figlio maggiore, morto durante la guerra, ma anche dalle avversioni e dal desiderio di vendetta e di prevaricazione che lega i suoi membri. I loro rapporti non si fondano sull’affetto, ma su un sistema di reciproca necessità di uno nei confronti dell’altro e, allo stesso tempo, di profondo odio e risentimento che questa necessità causa. La morte di Antonio ha lasciato un evidente vuoto, che nessuno degli altri figli riesce a colmare.
Il pater familias, Tommaso, è poco più che un’ombra, una presenza appena abbozzata che non ha la forza di arginare la prepotenza della moglie. Trascorre il suo tempo cercando di creare un medicinale prodigioso in grado di farlo ringiovanire e permettergli di tornare a recitare a teatro. A imbarcarlo in questa impresa è l’arrivo di Gaspare Senzaterra, misterioso uomo privo d’età, a conoscenza di segreti erboristici e presunto collaboratore del Führer. Senzaterra ricorda Melquíades almeno tanto quanto Tommaso ricorda José Arcadio Buendía, entrambi noti personaggi creati da Gabriel García Márquez in Cent’anni di solitudine, romanzo esponente del realismo magico.
Armando, il secondogenito, è un inetto perennemente indebitato ma adorato dalla madre, che lo ritiene semplicemente perseguitato dalla sfortuna. A sostenere economicamente la famiglia è infatti Mario, unico membro che sembra essere capace di emanciparsi ed essere indipendente dagli altri. Ha un lavoro, una moglie e un figlio, Michelino, che ama ma che non riesce, e non vuole, comprendere: il suo peccato è la cecità di fronte ai sentimenti del bambino, che lo turba e lo infastidisce quando comincia a dare segni di disagio. Si ostina a non voler vedere il suo dolore, perché costituisce un ulteriore problema, di cui non ha bisogno.

Ma il vero motore della famiglia è tutto femminile. Jole e Giunta, madre e figlia, invidiose e vendicatrici, con gli altri e fra di loro. Giunta è l’unica figlia femmina: incapace di tenersi un uomo a lungo, passa la sua vita tra il pettegolezzo e la ricerca di un marito abbiente, ed eredita l’astioso carattere della capofamiglia: «La madre le aveva insegnato tutti i piaceri più perversi: godere era godere dell’umiliazione degli altri, non del rapporto con gli altri, godere era piegare qualcuno come si piega un animale, trinciare la dignità degli altri dicendone tutto il male possibile, fino a fare delle loro anime delle pezze sanguinolente che non hanno più parvenza umana, dei tagli di carne da bollito, che avranno pure una vita loro, ma che devono servire solo da pasto. La madre era una cannibale. E Giunta non voleva essere meglio di lei. Sapeva di esserlo, o se non altro di averne l’aspirazione, ma non voleva. Odiava troppo quella madre per volerla superare, per diventare un essere umano. No: la madre doveva ritrovarsi di fronte esattamente il mostro che aveva creato, non intendeva redimersi per farle un favore».
Jole è invece completamente arida di sentimenti; se ne è liberata, disfatta. Lascia spazio solo all’odio e al risentimento che prova nei confronti del figlio Mario, troppo generoso e incline al perdono, sempre troppo pronto ad amarla: la donna non sopporta le sue qualità, anzi esse sono proprio il motivo per cui lo disprezza e lo ripudia. Ma è un disprezzo che nasconde un forte senso di inadeguatezza e d’inferiorità: lo rifiuta perché non è in grado di eguagliarlo. La sua totale ed esplicita rinuncia ai sentimenti umani la rende una sorta di moderna Lady Macbeth, che si libera della sua parte femminile e pietosa e assume le sembianze di una strega, una creatura della notte. Così accade a Jole, che si spinge fino all’estremo atto d’odio, con l’aiuto di un gruppo di zingare dall’aspetto demoniaco che non possono non ricordare le tre Sorelle Fatali di William Shakespeare. Compaiono nella nebbia di un paesaggio desolato proponendole una soluzione ai problemi che l’affliggono, sempre a metà strada tra finzione e realtà.

Il romanzo si chiude in modo circolare, tornando a un Michelino che è trascinato suo malgrado nel mondo degli adulti e reso partecipe dei vizi di cui è pregno. E il merito di Corte è proprio quello di accompagnare il lettore, in un modo assolutamente crudele e privo di giustificazioni, attraverso le perversioni e le debolezze dell’uomo, messe a nudo anche grazie a un uso misurato e sapiente dell’ironia, che sfiora ogni personaggio rivelandone la vera essenza. La sua natura malefica e bestiale.


Per maggiori informazioni sul romanzo, Ad bestias.

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