Intervista di Oliviero Canetti a Claudia Maschio
Gli anni che porto sulle spalle, tra letteratura e impegni universitari, mi hanno insegnato perlomeno una cosa: l’intervista a un autore non riuscirà mai a mettere davvero in luce i tratti fondamentali del suo romanzo. E, nel caso di E sopra splendeva un cielo stellato, l’operazione è ancor più ardua, perché si tratta di un romanzo surreale e insieme profondamente razionale. Stilisticamente una raffinata confezione, e poi dentro un regalo insolito, di quelli capaci di stupirti a più riprese.
Così ho deciso di impostare quest’intervista nel modo più semplice possibile: domande brevi, ma precise e, laddove necessario, incalzanti.
Claudia, raccontaci come è nato E sopra splendeva un cielo stellato?
Tutto è partito da un racconto, scritto nell’arco di due settimane, che racchiudeva il succo dei miei studi sull’etica, ma anche dagli scambi di vedute a tarda ora con Carlo Dalla Pozza, amico, amato, e per sempre nel mio cuore.
Non mi interessava pubblicarlo: era stato concepito per “divertire” alcuni amici, persone a me care, amanti della filosofia e del perenne dubbio interiore.
Un dubbio interiore che ti appartiene…
Wittgenstein ha scritto che il dubbio viene dopo la certezza. Un concetto che mi ha illuminato non sulla via di Damasco, ma in un viaggio in treno tra Verona e Trento. E che mi ha fatto rileggere tutta la mia vita, soprattutto l’infanzia, con occhi diversi.
Appartengo a una famiglia tradizionalista, fortemente cattolica. Mio nonno andava a messa tutte le mattine e, da piccola, mi obbligava a recitare il rosario: le preghiere prima di andare a dormire per me e i mei cugini duravano un’ora sana!
Ovviamente non eravamo sempre con i nonni, e resta il fatto che io li ho amati tantissimo. Mi mancano tantissimo.
Però c’era quella sporcatura lì. Quell’ingombrante presenza: Dio.
Ho come il sospetto che non tutti i lettori del blog apprezzeranno, ma mi interessa. Com’è andata a finire?
Per me, da bambina, Dio era un’indiscutibile certezza. Una di quelle certezze di Wittgenstein, indispensabili per far sorgere il dubbio.
Appena fatta la prima comunione, tenni un pezzetto di particola per darla alla mia criceta Enia: anche gli animali, secondo me, erano meritevoli della grazia di Dio.
Mia madre, quando glielo dissi, si mise le mani nei capelli e mi portò dal parroco, rossa in volto dalla vergogna. Don Gino mi fece un predicozzo poco convincente. Continuavo a chiedermi: se tutti siamo creature di Dio, perché i criceti no?
Di seguito – il dubbio dopo la certezza – mi posi molte altre domande, che divennero sempre più impertinenti via via che crescevo. Come fa una vergine a restare incinta? Se Dio ama le sue creature, perché tanto male nel mondo? Se siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio, anche Dio potrebbe fare l’amore? E, nel caso, con chi e perché?
Poi ho letto Darwin.
Poiché mi sembra tu abbia di gran lunga superato il confine dell’eresia, oso una domanda pressoché inevitabile: quanto condividi dell’affermazione di Dostoevskij “Se Dio non esiste, allora tutto è permesso”?
Grazie per questa domanda, che ci porta dritti nel mio romanzo. Anche perché è esattamente il suo punto di partenza: un mondo in cui è stato dimostrato, senz’alcun dubbio, che Dio è una bufala. E quindi tutti ritengono, come stuzzicava quel genio di Fëdor, che tutto sia permesso.
Va da sé che un mondo simile non può funzionare. Così troviamo, per garantire la pace sociale, negozi che vendono coscienze o sensi di colpa.
Ma anche questo non basta.
Certo che no, ma vorrei sentire il tuo perché.
Perché il dubbio non può essere qualcosa che decostruisce certezze pregresse, deve anche saper costruire nuove certezze, o nuovi modi di vivere. In questo caso, di eticità del vivere. Un percorso che io stessa ho compiuto, sia studiando, sia scontrandomi, facendo a pugni e poi pace con la realtà.
Insomma, credo non serva lo sguardo severo di un Dio o di un padre per comportarsi eticamente.
Come ebbe a dire Kant, serve “il cielo stellato sopra di me, e la morale dentro di me”.
In sintesi, sapere scientifico (conoscere l’universo, cosa che cerca instancabilmente di fare la fisica) ed etica autonoma, quindi consapevole e cercata.
Non anticipiamo altro su questo punto e veniamo ad aspetti squisitamente letterari. Il tuo amore per il surrealismo, in E sopra splendeva un cielo stellato, si spinge a una classificazione delle forme di vita senzienti, comprendendo anche gli oggetti, alcuni protagonisti del romanzo, come Vocabolario, Bar Sport e la Strada. Secondo te, cosa potrebbero dirci gli oggetti inanimati che non possono dirci gli esseri umani?
Io sono solita parlare con i miei due cani, ma anche con gli oggetti. Se è per questo, parlavo anche con i miei figli mentre li avevo in pancia e quando avevano pochi giorni. Ho continuato a farlo – vedi un po’ che strano – mentre li allattavo e crescevano poco a poco. Eppure non mi capivano, impossibile, quindi avrei dovuto stare zitta? O è solo immergendolo in un mondo linguistico che un bambino impara a parlare?
Con gli animali è la stessa cosa: non parli loro sperando che ti capiscano, ma per instaurare un rapporto. E metto la mano sul fuoco che i miei due cani capiscono un sacco di parole che dico loro! Le hanno imparate perché ho parlato con loro.
Ovviamente, quando un bambino è piccolo, o anche con un animale, sappiamo che non comprende effettivamente tutto quel che diciamo.
Ma con un oggetto?
Alla fine è la stessa cosa: cerchiamo di tessere rapporti con chi ci sta intorno, e gli oggetti, quando parliamo loro, di riflesso ci rispondono, come specchi. Allo stesso modo degli occhi di un neonato o di un cagnolino quando gli esprimiamo le nostre emozioni.
Se ho dato vita agli oggetti, da un punto di vista letterario, è perché questa scelta offre un inusitato ribaltamento del punto di vista sulla realtà. Lo stesso che viviamo tutti quando siamo capaci di esprimere, indipendentemente se ascoltati o meno, quel che siamo e pensiamo.
Perché il surreale in un romanzo che parla di etica?
Adoro il surrealismo, perché sa trasmettere in modo intenso suggestioni, pensieri, idee, mondi. Il simbolismo riesce a farlo limitatamente ai concetti, e per questo le semplici similitudini o piatte metafore mi stanno strette.
In un romanzo il surrealismo ha una forza travolgente: trasporta il lettore nel mondo che meglio conosce, quello onirico, di sua natura surreale, e gli racconta storie in sintonia con i sogni che fa ogni notte. Solo che in questo caso si ha una sorta di inversione del processo: si sta leggendo, non sognando, l’impatto è più forte e non si rischia di dimenticare la verità che il sogno voleva comunicarci.
Quale senso di colpa consiglieresti di acquistare?
Il senso di colpa sottende un concetto del peccato di stampo prettamente cattolico, e quindi assai poco in intimità con la sfera etica tout court.
Certo, potrei consigliare sensi di colpa rispetto ai comportamenti poco responsabili, per non dire menefreghisti, nei confronti dell’ambiente in cui viviamo. Oppure sensi di colpa che facciano vergognare per i soprusi e le violenze nei confronti di chi è più debole e indifeso, per l’indifferenza nei confronti di chi, per ragioni a me incomprensibili, viene ritenuto diverso.
Ma non servirebbe a nulla: il senso di colpa è un’arma a doppio taglio, che fa star male chi lo subisce e non sa cambiare la realtà.
Sono convinta che la sola strada sia il raggiungimento di una consapevolezza interiore.
Un imperativo kantiano che porti a considerare gli altri (il prossimo tuo) come un fine, e mai come un mezzo.
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