domenica 24 gennaio 2021

Il "vampirismo energetico" di Mario Corte


Oggi è con noi Mario Corte, che ha pubblicato per Vocifuoriscena Ad Bestias e Il talento viene dopo.
Mario, tu vanti una lungo ed eclettico percorso in ambito letterario. Una vita dedicata allo scrivere, potremmo dire. C’è qualche altro interesse o passione che, ragionando col senno di poi, forse sarebbe stato meglio inseguire?

Forse una vita più avventurosa. Scrivere è una straordinaria avventura psicologica, introspettiva, spirituale. È cercare se stessi, studiare gli altri, esplorare la natura umana, tentare, nel buio, di capire che cosa ci stiamo a fare qui e perché il male dilaga e il bene fa tanta fatica a farsi strada. Ma l’avventura “sul campo”, inoltrarsi in spazi inesplorati alla ricerca di un Santo Graal, del proprio Graal (perché per ciascuno ce n’è uno), come Galahad e Galvano, partire per seguire le tracce disseminate dall’ignoto regista di questo mondo… quella è un’altra cosa. Quando ho potuto farlo, da solo o con la famiglia, persino con le mie figlie piccole, ho sentito che viaggiare nello spazio, oltre che nella mente, era la mia strada di conoscenza. O forse la strada di ogni uomo.


Cosa vuol dire, secondo te, avere successo come scrittore? 

Raggiungere il cuore di chi legge e avvertire, a distanza, che quel cuore ti è grato per averlo raggiunto. Parlare un linguaggio che punti a evocare una confidenza segreta con un mondo diverso da quello di tutti i giorni. Cercare di comunicare con accordi di parole più armonici, fatati, e risvegliare livelli di coscienza meno grevi e standardizzati di quelli proposti dall’ambiente che ci circonda. Vendere bene un libro è una più che degna operazione commerciale che, però, può anche non avere nulla a che fare con l’amicizia, mentre raggiungere un cuore significa avere, da qualche parte, un nuovo amico. E di amici, anche lontani, c’è sempre bisogno.

In generale, hai tu il controllo dei personaggi o loro fanno quello che vogliono?

Sono loro a fare quello che vogliono, ma secondo un contratto che prevede due clausole molto precise: 1) che il bagaglio umano di chi scrive disponga di un ampio ventaglio di emozioni e di sentimenti; 2) che i personaggi accettino di essere sottoposti, qua e là, a opportune docce di ironia. Un personaggio rischia di diventare ingombrante, imbarazzante, non più arginabile, se l’orizzonte di chi scrive è povero di esperienza nelle emozioni e nei sentimenti. Allora i personaggi prendono il sopravvento in modo scomposto e sgradevole: si prendono troppo sul serio, insomma, e non hanno più nulla di credibile. Tenere sempre attivo il dispositivo dei sentimenti suggerisce a chi scrive di usare l’arma dell’ironia per contenere le intemperanze dei personaggi, facendoli guardare allo specchio e divertendo loro e chi legge. Allora si ricordano di essere personaggi e non parti della persona che scrive, e si disciplinano da soli.

Da dove nasce l’idea del romanzo Ad bestias?

Dall’osservazione del mondo dei bambini e ancor più dal ricordo di esserlo stato. Noi adulti impostiamo la vita in modo tale da non doverci ritrovare dove eravamo da piccoli, cioè in balìa di qualcuno (i “grandi”) o di qualcosa (la nostra condizione di fragilità). Ma nella maggior parte dei casi finiamo proprio per sviluppare una dipendenza da qualcuno o da qualcosa (un valore materiale, consumistico, d’immagine, di competizione) che ci sembra più “grande” e fondato di noi. I bambini vivono immersi nella magia dei sentimenti; noi passiamo il tempo a sfuggirli, oppure a operarne abili contraffazioni. Non riusciamo più a “provare” emozioni profonde e cerchiamo di indurcele acquistando beni e servizi, oppure, troppo abituati a non provarle, quando qualcosa viene a sconvolgere la pace e l’ordine che ci siamo dati, ci ritroviamo a farci trascinare da passioni scomposte, con tratti di follia.
Loro, i bambini, no. Loro provano sentimenti veri, fondati; danno senza risparmiarsi, credono senza vergognarsi di credere e si arrischiano a chiedere qualcosa che per noi è ormai un tabù, troppo astratto e zuccheroso per poter essere nominato guardando l’altro dritto negli occhi. Amore. I detentori di questo valore universale sono loro, sono i loro cuori. Da loro avremmo tanto da imparare, e invece ci impegniamo a piegarli affinché escano al più presto dal loro mondo magico, scendano sulla Terra, smettano di credere a Babbo Natale e imparino a credere solo ai regali che giacciono sul fondo del suo sacco, come se quelli potessero esistere indipendente da chi li ha portati.

Come reagisci alla sindrome della pagina bianca?

Oh, mio Dio… “Qui”, come diceva un critico letterario che ho avuto la fortuna di conoscere, “perdi il lettore”. La verità, davvero poco credibile agli occhi del lettore, è che non ho mai conosciuto la sindrome della pagina bianca. Forse perché scrivo per vivere e se mi blocco si blocca tutto. O forse perché scrivo spesso su commissione e ho il senso del dovere del soldato che mai potrebbe disobbedire a un ordine. O forse è solo che scrivere è bello quasi come viaggiare. Chi potrebbe mai avere la sindrome della nave che non esce dal porto o dell’aereo che non si stacca da terra? Lo spirito d’avventura non conosce la pagina bianca. E la riempie.

Hai introdotto in letteratura il concetto di vampirismo energetico: raccontaci cosa significa e che pericoli nasconde.

Io credo che il vampiro della letteratura, quello con i lunghi canini, il colorito tombale e il morso che infetta le vittime con il suo morbo sia la metafora di un tipo umano estremamente diffuso nel nostro mondo: il vampiro energetico, appunto. Come il vampiro della tradizione letteraria si appropria del sangue dei viventi, così il vampiro umano sottrae loro energia vitale, applicando modalità di rapina semplici ma efficaci, che possono andare dalla negazione di un saluto, di un sorriso, di un atto di gentilezza, del riconoscimento di un merito, fino al raggiro, alla sopraffazione, alla violenza psicologica e alla privazione della libertà di pensare, o addirittura di vivere. Tale sottrazione avviene sempre attraverso una lesione alla dignità altrui. Letti in questa chiave, personaggi di Ad bestias come Iole e Giunta si rivelano Vampiri energetici da manuale. Di Iole, per esempio, nel romanzo si dice che

«vagava in una tenebra sconfinata» e che «l’infelicità della sua condizione non si accontentava dell’esercizio quotidiano dell’astio e della malevolenza, ma la spingeva anche a combattere gli intenti buoni che leggeva negli altri, come se avesse ricevuto il mandato di debellare anche in loro ogni speranza, ogni cosa delicata, ogni scrupolo e ogni intento di fondarsi su ciò che è giusto. Dovunque guardasse, non poteva fare a meno di augurarsi che anche gli altri morissero dentro, che sentissero spegnersi ogni sentimento e lo sostituissero, come aveva fatto lei, con tutte le vuote contraffazioni del sentimentalismo». 

Il vampiro energetico è più che un antagonista, è il Nemico che attende al varco la vittima di turno, nel caso di Ad bestias un bambino creativo, un po’ magico, capace di incredibili voli di fantasia e animato da una straordinaria riserva di energia vitale.

Qual è il libro migliore che non hai scritto?

In ogni libro c’è qualcosa di chi scrive. Ma in ogni mia storia, alla fine, io mi identifico con tutti, buoni e cattivi. Forse non arriverei a fare tutto ciò che di buono fanno i buoni e sicuramente non farei mai il male che fanno i cattivi. Comprendo e approvo i primi, comprendo e disapprovo i secondi. Ma comprendo tutti. La verità è che, in questo navigare di conserva con i miei personaggi, io non ho mai scritto la mia storia. Ho preso spunto da fatti che mi sono capitati, ho anche lasciato credere che quelli che scrivevo fossero eventi e sentimenti davvero personali. Ma la verità è che non ho mai davvero portato me stesso in scena, non ho mai parlato veramente di me. Ho parlato di qualcuno che mi somigliava, anche molto, ma che non ero io. Il libro che non ho scritto, non so se il migliore, è quello che racconterebbe la mia storia. Ma credo che non lo scriverò perché farlo mi porterebbe ad attenuare le responsabilità che, in tanti momenti e con tante persone incontrate nella mia ormai lunga vita, ho accettato di prendermi interamente, senza precisarne troppo i confini. Una cosa, questa, che mi ha sollevato dalla pedante necessità di sottilizzare, chiarire, disputare per aver ragione. E mi ha dato la pace che solo il perdono può dare.

Quale dei tuoi personaggi vorresti essere e perché?

Michelino, senza dubbio. Perché Michelino, al culmine del suo penoso percorso, capisce che la fine della paura può passare soltanto dall’accettazione di una semplice e terribile verità: che l’unico protagonista dei misteriosi eventi che ha vissuto è lui, e che non può pretendere di essere capito da chi non li ha vissuti. Gli altri sono fantasmi che, se fossero sottoposti alla tortura della verità, si scioglierebbero come cera. Non sono pronti. Si vede «dalle loro facce, dalla vacuità dei loro sguardi, da quel senso di affettuosa e impaurita distanza» con cui lo accolgono, come a volergli dire:

«Sei un caro bambino, ma non togliermi la mia pace: lasciami dove sono, non portarmi dove non saprei più che cosa risponderti perché non saprei più neanche chi sono io e che cosa ho imparato della vita».
Michelino ce la fa da solo, e da solo sperimenta «quel momento sacro e terribile che è la fine della paura, e con essa dell’indegnità, della colpa, della condanna di sé e della propria condizione». E lo fa senza neanche una voce che gli dica: «Sei la mia stella».

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