giovedì 28 gennaio 2021

Letteratura, arte e musica: autointervista di Massimo Rubulotta



Sì, bravi voi a intervistare gli autori di Vocifuoriscena. Facciamo che vi anticipo e mi faccio da solo le domande che mi fanno paura, così evitiamo i preamboli, i (penosi) tentativi di mettermi a mio agio… che sono le cose che più mi fanno paura.
E facciamo anche come se fosse una terza persona a farmi le domande.

Nella 4ª di copertina di Mai affezionarsi a una ricetta c’è scritto che nella vita hai fatto il musicista, il doppiatore, che hai lavorato con la danza, il teatro.
Hai sempre scritto poesie e, ultimamente ti sei anche dedicato alla pittura.
In passato ti sei cimentato come facchino, orafo e parrucchiere per signora.
Mi risulta che eri un bravo insegnante di percussioni. Insegnavi a adulti e bambini. Per i bambini ti eri anche inventato un sistema di gioco/musica quando ancora nessuno ne parlava. 
Mi spieghi perché hai scritto che non sei niente di tutto questo?

Mamma mia… che domanda difficile.

Allora te la facilito un pochino: come hai deciso di cominciare a suonare?

Io non ho deciso di cominciare a suonare. È stata la musica che ha scelto me. Ho capito subito, da piccolo che non avevo la faccia, il corpo e la voce per farmi sentire e che avrei avuto bisogno di qualcosa che mi aiutasse a parlare. Ho subito pensato che i tamburi mi avrebbero dato il supporto di cui avevo bisogno. Ho cominciato a suonare la batteria. Be’, certo… batteria è una parola grossa. Avevo quattro anni e non esistevano le batterie giocattolo, allora ho cominciato a battere le pentole. Poi i fustini del detersivo e via dicendo fino a che sono riuscito a farmi noleggiare una batteria.

E hai sempre suonato quella?

Sì, troppo facile. Avrei potuto dire: “Sono un batterista” e tutti avrebbero potuto dire: “Guarda Rubu… è un batterista!”, annuendo con la testa. Cantavo bene. Volevo fare il cantante (peccato che ho sempre odiato le canzoni). Ciò, però non mi ha impedito per un periodo di comprarmi una chitarra e mettermi a fare il cantautore. Che periodo triste. Vergognoso. La curiosità è sempre stata il mio motore. La curiosità e il fatto che non ho mai sopportato di fare la stessa cosa per più di pochi giorni. 

Quindi? Come la mettevi con lo studio della musica che, a quanto ne so, è una cosa ripetitiva? 

Il segreto è stato quello di trasformare il set della batteria in qualcos’altro: un set di percussioni. Le percussioni significano mille strumenti (più altri mille… più altri mille ancora, per 77 volte 7), studiarle tutte significava avere a disposizione più di sette vite, per cui avevo l’alibi per non fare mai le stesse cose. Gli stessi esercizi di tecnica. Nel frattempo, però, sviluppando strategie personali che mi permettessero di suonare tutti quegli strumenti, approfondivo il mio stile. Cercavo l’essenza del percussionismo.

Cosa significa?

Significa che, per me… a mio gusto, il percussionista deve sviluppare un linguaggio che dia qualcosa in più alla musica. Che arricchisca. Che fornisca sapori esotici, colori. Che sia come le nuvole al tramonto (assumono forme e colori diverse ogni secondo che passa). Io volevo dipingere sulla musica. La musica era la mia tela. I miei suoni pennellate.

E da qui la pittura?

Da qui… qualsiasi cosa facessi mi sentivo fuori luogo. Dipingevo la musica. Poi, quando mi sono inventato di essere pittore… suonavo i colori.

E con le parole?

Ho sempre pensato che nessuna storia con un inizio, uno svolgimento e una fine, avesse il diritto di essere raccontata. Mi sono sempre piaciute le sensazioni, i pensieri isolati. Le descrizioni che, da sole hanno tutti i significati al loro interno. È per questo che ho sempre scritto poesie.
Suonavo (e suono) non per raccontare, ma per fornire punti di vista, aperture alle composizioni degli altri musicisti. Dipingo quadri astratti: colori e forme che si attraggono e si equilibrano con gli stessi principi della gravità e della musica. Quindi non racconto niente nemmeno con la pittura.

E allora perché il romanzo?

Forse perché volevo spiegare, innanzi tutto a me stesso, il perché di tutta la mia curiosità. Del cambiare continuamente. Del cercare.
Penso di non aver trovato risposte e neanche tutte le domande. Forse qualcuna. In fondo non si cercano le domande per avere le risposte, ma solo per focalizzare i significati delle cose.

Ricapitolando: sei o non sei un musicista, doppiatore, pittore, scrittore?

Ho sempre creduto di essere un musicista, ma non ho mai potuto immergermi nell’approfondimento di un singolo strumento, perché tutta la vita che ho sempre sentito intorno mi scoppiava dentro e volevo suonare tutti gli strumenti, tutta la musica che ascoltavo e che vedevo. Quindi mi viene da dire che sono sempre stato un amante (nel senso carnale del termine) della musica. E siccome la musica abbraccia tutto (sempre nel senso carnale), allora sono anche pittore, cuoco e poeta… ma senza mai esserlo stato.

Davvero sei cuoco? 

Ma no che non sono un cuoco! Come puoi pensare una cosa simile? Ho sempre fatto finta di essere un musicista e tutto il resto… vuoi che mi identifichi in qualcosa? Di utile?
Una volta si aveva più tempo per vivere d’amore. Amore per le cose. Amore per la vita. Ci si viveva dentro all’amore e alla vita. Ci si impastava come polpette e ci si cucinava in tutti i modi possibili immaginabili: fritti, in umido, al sugo, al forno, coi piselli, al vapore.
C’è stato un periodo che si viveva a fuoco vivo, saltellando e scoppiettando su di una piastra rovente. Si innaffiava il tutto coi migliori vini perché ogni giorno della gioventù era degno dei migliori festeggiamenti. Ma non c’erano solo polpette. Si cucinava di tutto e tutto era buono perché l’ingrediente fondamentale eravamo noi e tutto quello che ci scorreva tra le mani.
Certo, si stava attenti a quello che dovevamo mettere prima o dopo, nella padella, affinché si rispettassero gli ingredienti e la buona cottura, anche se conoscevamo, istintivamente, le ricette.

Adesso che non hai più a disposizione del tutto le mani, come fai a sentirti ancora “nella musica”? A essere il suo amante, come dicevi prima. E ora, che ti muovi con una sedia a ruote e non puoi più trasportare la montagna di carabattole (le percussioni) che utilizzavi un tempo, come fai?

Se prima non mi sentivo un musicista, non è cambiato nulla dentro di me. Non mi fa differenza utilizzare, al posto di una tonnellata di strumenti acustici, due o tre chili di strumenti elettronici. O se al posto delle mani utilizzo due ditini, a mo’ di macchina da scrivere. Non riesco più a utilizzare i miei muscoli per stare “a tempo”. Tanto non sono mai rimasto nella stessa scansione ritmica per più del battere d’ali di una farfalla. Uso suoni diversi. Un altro linguaggio musicale. Adesso il mio essere percussionista si è arricchito anche di suoni lunghi, avvolgenti.
Ora uso un computer portatile, un iPad e una tastierina minuscola con sedici piccole superfici da sfiorare e pigiare come fosse una percussione. Ho registrato un sacco di suoni, costruito un bel numero di banche suoni (come se fossero tanti set di percussioni) e le piloto con la tastierina. L’iPad ha un sacco di suoni, strumenti e basi fatte da me. Adesso ci dipingo anche, sull’iPad.
Mi sta tutto nello zainetto che appendo dietro la carrozzina. Ho un propulsore che, attaccato alla sedia a ruote mi fornisce un’autonomia di circa 70 chilometri. Ora vado a suonare così… in teoria.
La pandemia ci ha fermato tutti. Niente musica nei teatri. Nei club. E nemmeno nelle strade.
Su per giù ero già abituato a dover sottostare a pesanti limitazioni. Ho trovato altre strategie. Abbiamo trovato altri modi. Anche se non possiamo condividere “dal vivo” la nostra musica, le nostre emozioni, lo facciamo via email. Ci inviamo i file musicali che ognuno ha fatto nelle proprie stanzette, con i propri computerini per registrare e ci lavoriamo insieme… ma divisi.
Si cambia. Ci si adatta.
La musica è una grande amante (anche non più in senso carnale… adesso platonico) e non ci abbandona mai. Anche le sue sorelle: la parola e la pittura.

Massimo Rubulotta


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