domenica 25 ottobre 2020

Ma gli ungheresi hanno un Kalevala?

 


Ma gli ungheresi hanno un Kalevala?

Questa è la domanda che ha dato avvio al mio affare con le fiabe popolari ungheresi. Ebbene sì, una semplice domanda, che ora mi fa arrossire al solo ricordo, tale è la sua aura di innocenza e infantilità, mi ha portato a dedicarmi assiduamente alla traduzione e all’analisi di un granello di sabbia dell’immenso patrimonio popolare magiaro. Ma cosa c’entra il poema epico finlandese con l’Ungheria e perché mai oso mescolare due culture sorelle, ma che da tempo abitano in alloggi separati?

Alienazione artica

Correva l’anno 2010 quando mi iscrissi alla facoltà di Lingue e letterature moderne dell’Università di Padova, scegliendo di dedicarmi allo studio della lingua tedesca e inglese, nonché alla filologia germanica. Da sempre appassionata di lingue, letteratura e mitologia, mi sentivo, finalmente, a mio agio. Ma non avevo fatto i conti con la mia fylgja ribelle e ferita: staccandosi nottetempo dal mio corpo mi conduceva attraverso le immense distese di betulle dell’Artico, tra renne e neve, dove mi potevo sentire aliena a me stessa. Aliena per il semplice fatto che non capivo il finlandese e mi sentivo cullare dal suonare di kantele e dai dolci dittonghi. Cominciai a sentire il bisogno di intraprendere un nuovo viaggio linguistico che mi portasse lontano, lontano dalla quotidianità, che mi aiutasse a staccarmi completamente dal dolore interiore che provavo in quel periodo. Decisi di iniziare a studiare finlandese da autodidatta, per gioco, per illuminare le mie notti insonni e cariche di presagi funesti. Il finlandese fu un vero toccasana, perché compresi una volta per tutte che il mio Lebensraum era fatto di lingue sempre nuove e con esse i loro miti. Investii i miei risparmi per iscrivermi a un corso di lingua finlandese a Helsinki e grazie a esso riuscii ad approfondire la mia, all’epoca sommaria, conoscenza del Kalevala. Da quel giorno iniziai a nutrirmi di korvapuusti, Kalevala e gradazione consonantica, a cui aggiungevo sempre un cucchiaino di Snorra Edda. La semplice infatuazione lasciò ben presto spazio a un profondo amore celeste: oramai il mio sogno boreale era ciò che mi permetteva di svegliarmi all’alba sempre con il sorriso.

La puszta sotto l’albero di Natale

Dopo quasi un anno di armonica convivenza con il finlandese, mi trovai di fronte alla possibilità di scegliere una terza lingua curriculare per il mio percorso universitario. Presi la decisione in una nebbiosa notte settembrina: avrei iniziato a studiare ungherese solo per puro interesse di comparazione linguistica e mitologica. Ero curiosa di poter comparare il lessico di due lingue ugrofinniche e, se fossi stata così brava, anche le loro strutture più profonde. All’inizio ero molto scettica: tutti quegli accenti e quei gruppi consonantici dell’ungherese non facevano per me. Arrancavo, ero in perenne ritardo con le esercitazioni, la grammatica ungherese era come un Kugelhupf carico di frutta candita: allettante e goloso alla vista, mattone calcareo da digerire per la sottoscritta. Quell’anno decisi che avrei trascorso le festività natalizie solo con l’ungherese: desideravo capire se eravamo fatti uno per l’altra, oppure se semplicemente non c’era affinità. E così ebbe inizio un grande amore per la grammatica ungherese, talmente profondo che ci scambiavamo bigliettini con messaggi grammaticali e ci sussurravamo all’orecchio la suffissazione dei suffissi locativi.

La grande delusione

L’Epifania si portò via una volta per tutte i miei dubbi e tornai a frequentare i corsi di lingua e letteratura ungherese con rinnovato interesse. Ora che iniziavo a leggere in lingua originale, avrei voluto saperne di più sulla mitologia magiara, ma non riuscivo a trovare nulla. Così un giorno mi arrischiai e chiesi alla mia docente se esisteva un Kalevala ungherese. Provo tutt’ora la pelle d’oca al ricordo della sua espressione allibita. La sua risposta fu che gli ungheresi non avevano un poema epico, non esisteva una mitologia ungherese: mi sentii travolta da centinaia di orde vichinghe, schiaffeggiata dal vento gelido sulla cima di un fiordo…

Il mio affare con la mitologia ungherese

Ma non mi detti per vinta. Iniziai a cercare nomi di antropologi e filologi ungheresi, così mi imbattei in Hoppál Mihály. Dai suoi articoli appresi ben presto che gli ungheresi non disponevano di carmi epici, ma che la loro mitologia era polverizzata in molte fonti popolari. Decisi che avrei iniziato proprio dalle fiabe popolari per ritrovare quella manciata di figure e luoghi mitologici ungheresi che a malapena conoscevo. Nel portale online MEK (Magyar Elektronikus Könytár, “Biblioteca elettronica ungherese”) trovai molto materiale raccolto da Benedek Elek, ma chi fosse questo signore io proprio non lo sapevo. Solo molto tempo dopo appresi con grande stupore l’importanza dell’opera di Benedek, grande personalità poliedrica e dinamica del Romanticismo magiaro.

Iniziai a leggere alcune fiabe e ne divenni ben presto dipendente. Adoravo leggerle a voce alta per cullarmi nella musicalità delle loro formule allitteranti, attendendo con loro lo spuntare dell’alba. Mi tennero compagnia anche quando la mia adorata nonna mi lasciò sola nella nostra Stube. Fu questa seconda grande perdita a farmi affezionare ancora di più all’ungherese. I fogli con i testi delle fiabe non erano solo carichi dei miei geroglifici con le traduzioni dei termini che non conoscevo, ahimè all’epoca troppi: erano macchiati di lacrime, stropicciati per la rabbia, si trovavano ovunque, anche in bagno e nel frigorifero. Mi arrabbiai con me stessa: non avevo condiviso con nessuno quelle poche conoscenze, perché non le avevo messe per iscritto. Solo allora mi resi conto che dentro di me avevo una pastasciutta di concetti e relazioni, un groviglio che mi avrebbe soffocata se non lo avessi dipanato e riavvolto, dandogli forma scritta. Non mi accontentavo più di leggere e capire, dovevo scrivere per mettere ordine dentro di me, schematizzare tutto ciò che apprendevo, per poterlo rendere usufruibile anche ad altri, fosse anche solo una fiaba oppure la descrizione di un essere mitologico da far leggere a qualche anima, per strapparla dalla quotidianità schiacciante, per donarle una coccola culturale. Così mi misi a lavorare a un glossario di personaggi e luoghi mitologici, un sandwich golosissimo per me, in cui mettevo tutte le informazioni che riuscivo a racimolare, traghettandole dall’ungherese all’italiano. Solo in seguito mi misi a tradurre le fiabe perché credevo che, un giorno, avrei potuto leggerle ai miei “nipotini”, educandoli ad apprezzare le lingue e le mitologie dei popoli.

 

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