Ma gli ungheresi hanno un Kalevala?
Questa è la domanda che ha dato avvio al mio affare con le
fiabe popolari ungheresi. Ebbene sì, una semplice domanda, che ora mi fa
arrossire al solo ricordo, tale è la sua aura di innocenza e infantilità, mi ha
portato a dedicarmi assiduamente alla traduzione e all’analisi di un granello
di sabbia dell’immenso patrimonio popolare magiaro. Ma cosa c’entra il poema
epico finlandese con l’Ungheria e perché mai oso mescolare due culture sorelle,
ma che da tempo abitano in alloggi separati?
Alienazione artica
Correva l’anno 2010 quando mi iscrissi alla facoltà di Lingue
e letterature moderne dell’Università di Padova, scegliendo di dedicarmi allo
studio della lingua tedesca e inglese, nonché alla filologia germanica. Da
sempre appassionata di lingue, letteratura e mitologia, mi sentivo, finalmente,
a mio agio. Ma non avevo fatto i conti con la mia fylgja ribelle e
ferita: staccandosi nottetempo dal mio corpo mi conduceva attraverso le immense
distese di betulle dell’Artico, tra renne e neve, dove mi potevo sentire aliena
a me stessa. Aliena per il semplice fatto che non capivo il finlandese e mi
sentivo cullare dal suonare di kantele e dai dolci dittonghi. Cominciai a
sentire il bisogno di intraprendere un nuovo viaggio linguistico che mi
portasse lontano, lontano dalla quotidianità, che mi aiutasse a staccarmi
completamente dal dolore interiore che provavo in quel periodo. Decisi di
iniziare a studiare finlandese da autodidatta, per gioco, per illuminare le mie
notti insonni e cariche di presagi funesti. Il finlandese fu un vero toccasana,
perché compresi una volta per tutte che il mio Lebensraum era fatto di
lingue sempre nuove e con esse i loro miti. Investii i miei risparmi per
iscrivermi a un corso di lingua finlandese a Helsinki e grazie a esso riuscii
ad approfondire la mia, all’epoca sommaria, conoscenza del Kalevala. Da
quel giorno iniziai a nutrirmi di korvapuusti, Kalevala e gradazione
consonantica, a cui aggiungevo sempre un cucchiaino di Snorra Edda. La
semplice infatuazione lasciò ben presto spazio a un profondo amore celeste: oramai
il mio sogno boreale era ciò che mi permetteva di svegliarmi all’alba sempre
con il sorriso.
La puszta sotto l’albero di Natale
Dopo quasi un anno di armonica convivenza con il finlandese,
mi trovai di fronte alla possibilità di scegliere una terza lingua curriculare
per il mio percorso universitario. Presi la decisione in una nebbiosa notte
settembrina: avrei iniziato a studiare ungherese solo per puro interesse di
comparazione linguistica e mitologica. Ero curiosa di poter comparare il
lessico di due lingue ugrofinniche e, se fossi stata così brava, anche le loro
strutture più profonde. All’inizio ero molto scettica: tutti quegli accenti e
quei gruppi consonantici dell’ungherese non facevano per me. Arrancavo, ero in
perenne ritardo con le esercitazioni, la grammatica ungherese era come un
Kugelhupf carico di frutta candita: allettante e goloso alla vista, mattone
calcareo da digerire per la sottoscritta. Quell’anno decisi che avrei trascorso
le festività natalizie solo con l’ungherese: desideravo capire se eravamo fatti
uno per l’altra, oppure se semplicemente non c’era affinità. E così ebbe inizio
un grande amore per la grammatica ungherese, talmente profondo che ci scambiavamo
bigliettini con messaggi grammaticali e ci sussurravamo all’orecchio la
suffissazione dei suffissi locativi.
La grande delusione
L’Epifania si portò via una volta per tutte i miei dubbi e tornai
a frequentare i corsi di lingua e letteratura ungherese con rinnovato interesse.
Ora che iniziavo a leggere in lingua originale, avrei voluto saperne di più
sulla mitologia magiara, ma non riuscivo a trovare nulla. Così un giorno mi
arrischiai e chiesi alla mia docente se esisteva un Kalevala ungherese.
Provo tutt’ora la pelle d’oca al ricordo della sua espressione allibita. La sua
risposta fu che gli ungheresi non avevano un poema epico, non esisteva una
mitologia ungherese: mi sentii travolta da centinaia di orde vichinghe,
schiaffeggiata dal vento gelido sulla cima di un fiordo…
Il mio affare con la mitologia ungherese
Ma non mi detti per vinta. Iniziai a cercare nomi di antropologi
e filologi ungheresi, così mi imbattei in Hoppál Mihály. Dai suoi articoli appresi ben
presto che gli ungheresi non disponevano di carmi epici, ma che la loro
mitologia era polverizzata in molte fonti popolari. Decisi che avrei iniziato
proprio dalle fiabe popolari per ritrovare quella manciata di figure e luoghi
mitologici ungheresi che a malapena conoscevo. Nel portale online MEK (Magyar
Elektronikus Könytár, “Biblioteca elettronica ungherese”) trovai molto materiale raccolto da
Benedek Elek, ma chi fosse questo signore io proprio non lo sapevo. Solo molto tempo
dopo appresi con grande stupore l’importanza dell’opera di Benedek, grande
personalità poliedrica e dinamica del Romanticismo magiaro.
Iniziai a leggere alcune fiabe e ne divenni ben presto
dipendente. Adoravo leggerle a voce alta per cullarmi nella musicalità delle
loro formule allitteranti, attendendo con loro lo spuntare dell’alba. Mi tennero
compagnia anche quando la mia adorata nonna mi lasciò sola nella nostra Stube.
Fu questa seconda grande perdita a farmi affezionare ancora di più
all’ungherese. I fogli con i testi delle fiabe non erano solo carichi dei miei
geroglifici con le traduzioni dei termini che non conoscevo, ahimè all’epoca
troppi: erano macchiati di lacrime, stropicciati per la rabbia, si trovavano
ovunque, anche in bagno e nel frigorifero. Mi arrabbiai con me stessa: non
avevo condiviso con nessuno quelle poche conoscenze, perché non le avevo messe
per iscritto. Solo allora mi resi conto che dentro di me avevo una pastasciutta
di concetti e relazioni, un groviglio che mi avrebbe soffocata se non lo avessi
dipanato e riavvolto, dandogli forma scritta. Non mi accontentavo più di leggere
e capire, dovevo scrivere per mettere ordine dentro di me, schematizzare tutto
ciò che apprendevo, per poterlo rendere usufruibile anche ad altri, fosse anche
solo una fiaba oppure la descrizione di un essere mitologico da far leggere a
qualche anima, per strapparla dalla quotidianità schiacciante, per donarle una
coccola culturale. Così mi misi a lavorare a un glossario di personaggi e
luoghi mitologici, un sandwich golosissimo per me, in cui mettevo tutte le
informazioni che riuscivo a racimolare, traghettandole dall’ungherese
all’italiano. Solo in seguito mi misi a tradurre le fiabe perché credevo che,
un giorno, avrei potuto leggerle ai miei “nipotini”, educandoli ad apprezzare
le lingue e le mitologie dei popoli.
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