venerdì 19 febbraio 2021

“Focu e Faiddi” raccontato da Michele Branchi

 


Focu e Faiddi – o della brace dei sensi

La genealogia emozionale di questo romanzo, profondamente immerso nella sicilianità umana, è radicata in una esperienza personale vissuta qualche anno addietro. In vacanza in un paese ubicato nelle valli dei monti Nebrodi, stavo assistendo alle annuali celebrazioni patronali, mescolato alla folla che gremiva la piazza in attesa che la statua del santo uscisse dalla chiesa madre sopra una portantina sorretta da una decina di infervorati volontari. Il mio atteggiamento era simile a quello dell’etnologo che intende documentarsi sugli usi e costumi di una popolazione e, in particolare, sullo spirito religioso che induce generazione dopo generazione a ripetere gli stessi rituali collettivi.
Nel momento cruciale, quando l’attesa raggiunse l’acme della tensione, discese un silenzio assoluto e universale, in cui la folla si compattò in un corpo solo per farsi offerta sacrificale al santo, totem della comunità. Io stesso, distaccato da qualsiasi genuflessione devozionale, ne fui coinvolto, partecipando a quella trepidante epifania. D’un tratto dall’interno della navata si alzò l’urlo di esortazione dei portatori nell’atto di sollevare il peso materiale e metafisico della fede ereditata dagli avi. Costituiva un incitamento e a un tempo una testimonianza unanime di sottomissione, entrambi viscerali e ancestrali.

Quando uscirono, all’unisono riecheggiarono i fiati e le percussioni della banda e i fuochi d’artificio, e per alcuni secondi si compì lo sposalizio mistico fra il santo e la sua gente, tramite una sorta di rapimento estatico, in cui anch’io mi obnubilai, svincolandomi dalla materia e dalla coscienza individuale, per fondermi nella corale sacralità del rito. 

Riflettendo sull’esperienza, effettuai ricerche antropologiche, etnografiche, storiche e lessicali, per documentarmi sulle origini e gli sviluppi di tali manifestazioni risalenti a epoche precristiane, in cui nel corso dei secoli il cattolicesimo imperante aveva innestato le proprie forme, adattando e miscelando i substrati pagani con le istanze confessionali della propria fede, in un crogiolo pulsionale ribollente di furori orgiastici e dionisiaci, veicolati e sublimati nella spiritualità e nella simbologia, ma sempre pronti a emergere dai guinzagli clericali. 

Sulla base di questi studi e di un contesto sociologico assai peculiare e tipizzato, ho creato una storia tanto romanzesca quanto verosimile, che esce dagli schemi del noir o del giallo in senso lato, proponendosi semmai come un gotico moderno, dai risvolti storico-etnologici, intriso di sessualità morbosa, religiosità carnale e di declinazioni deliranti. Le tematiche affrontate sono parecchie e ruotano attorno alle aberrazioni del potere, che strumentalizza le credenze religiose per governare secondo i propri interessi economici e soddisfare gli appetiti sessuali che sfociano in liturgie sanguinarie e antropofaghe, peraltro in segreto accettate e favorite dalla comunità succuba delle violenze e dei soprusi dei notabili del luogo.
Si tratta di mali endemici che fuoriescono dai confini geografici della Sicilia e appartengono alla specie umana e rivelano il lato oscuro presente in ognuno di noi, l’ombra junghiana con la quale dobbiamo fare i conti se vogliamo affrancarci dalle fobie e dai pregiudizi morali ed etnici.

Nel romanzo non esistono personaggi integralmente positivi, solo uomini e donne che si scontrano con la coscienza per comprendere le ragioni del loro ruolo nel mondo e nella società e operare scelte di conseguenza, illudendosi di agire liberi dai vincoli delle passioni e dai condizionamenti sociali e psicologici. 

Alfredo, il protagonista, un giovane genovese, abulico e sottomesso alla moglie ricca per opportunismo, che vegeta nei sentimenti e non si interroga mai sui valori etici ed esistenziali, si trascina in una vacanza in Sicilia, nella villa dei suoceri, che lo detestano, attorniato da un mondo e da una fauna umana estranea alla sua mente abitata da stereotipi e schematismi semplicistici. Il suocero, uomo di potere, gli presenta i suoi amici più intimi: Befumo, un ricco imprenditore edile; il professor Mastrangelo, da trent’anni sindaco monocratico del paese; e l’avvocato Galati, il più giovane dei quattro, ambizioso e arrivista. Tutti e quattro portano lo stesso anello di onice nero.
Il particolare incuriosisce Alfredo, che comincia a domandarsi e a domandare se e che cosa mai rappresentino e quale segreto nascondano sotto l’apparenza di un banale ornamento. 

Di fronte alle reticenze della moglie e dei familiari, Alfredo sembra rinunciare ai suoi propositi investigativi, ma l’incontro con Francesca Rubino, giovane madre e vedova del medico condotto, scomparso in circostanze sospette, gli sarà fatale. La bellezza, la sensualità, i misteri che la donna incarna e palesa, la sua personalità solare e insieme tenebrosa, le suggestioni arcane che sa evocare, le metamorfosi straordinarie di cui è capace, seducono Alfredo, lo calamitano e imprigionano in una dimensione dove regna l’irrazionale, il pensiero e il ritualismo magico, la potenza esoterica dell’inconscio. Un legame sotterraneo li unisce. Non è né amore né desiderio, benché siano due fattori che adombrino i loro rapporti e generino equivoci e malintesi. 

Disarmato e inerme nei confronti dello strapotere dei quattro notabili e della diffidenza ostile che lo circonda, soggiogato da Francesca, in piena crisi di identità, Alfredo starebbe per soccombere, se non intervenisse il dottor Spedalieri, un raffinato etnologo siciliano, a cui va a chiedere lumi e soccorso. La strana coppia si mette a indagare, ben sapendo di avere di fronte un nemico invincibile, poiché sostenuto dal consenso sommerso della comunità, delle forze dell’ordine e della chiesa. 

La storia dell’isola si dipana così alla luce della sovrapposizione di civiltà eterogenee, dai Greci ai Romani, dagli Arabi ai Normanni, dai Borboni ai Viceré, fino allo sbarco di Garibaldi e ai reclutamenti forzosi in nome dell’Unità d’Italia. La latitanza dello Stato ha impedito che si formasse una identità nazionale vera e consolidata, permettendo ai vari baroni, gabellotti, e notabili locali, di spadroneggiare ed essere riconosciuti dalla collettività nel ruolo indiscusso di autorità istituzionali. La forza di questi grandi o piccoli imprenditori della criminalità organizzata non potrà mai essere debellata, se non con una rivoluzione delle coscienze, che persegua e affermi la forza della verità a onta delle paure e delle omertà, e superi l’individualismo esasperato del singolo arroccato nella propria fame di possesso, nel fatalismo rinunciatario, nel credere che le cose non possano mai cambiare poiché conviene a qualcuno che non cambino. 

Alfredo e Spedalieri ci provano, percorrendo una strada lastricata di enigmi, di rebus indecifrabili, di messaggi occulti, consultando registri, schede cliniche, archivi, analizzando testi antichi e canti propiziatori come quello che dà il titolo al romanzo. Il loro sarà un sentiero funestato da fuochi e vampe, che bruceranno innocenti e la fiducia nelle migliori risorse dell’uomo. 

Il romanzo è scritto in lingua italiana, ma sono ricorso al dialetto siciliano in molti dialoghi e in un capitolo fondamentale, in cui ho mescolato il latino al siciliano per cercare di restituire presumibilmente il lessico scritto da due frati minori conventuali dotati di scarsa cultura e dimestichezza con la lingua aulica e che masticavano il latino medievale attinto dalla liturgia.
Il dialetto da me usato e che metto in bocca ai personaggi del luogo non ha pretese filologiche, ma intende trasmettere per lo più il suono e il colore espressivo di certi modismi peculiari della popolazione abitante nei comuni sparsi per le valli dei Nebrodi e lungo la costa.  

Michele Branchi

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