Luca Fancello nasce in una delle più incantevoli isole del Mediterraneo, la Sardegna, con un retroscena genealogico parecchio composito: il padre è sardo con alcune gocce di sangue ligure, e la madre siciliana. Stiamo parlando di terre che hanno un rapporto intimo con il mare, con la sua forza di attrazione suggestiva, ma anche di terre dove la natura e la sua bellezza sanno creare valori duraturi e, nel caso di Luca, un’apertura mentale al bello, alla diversità e originalità, e un grande amore per gli animali.
Luca ha sempre viaggiato molto, ma non è il tipo da “mordi e fuggi”: se un posto lo cattura, ci si ferma per mesi, a volte anche per più di un anno.
Poi la Sardegna lo richiama, e torna alla base.
Appassionato di cinema, poesia e di letteratura, si definisce un “regista e sceneggiatore mancato”, che ama più ricorrere ai pennelli che alle parole per raccontare quello che ha dentro.
Difficile darti una risposta precisa, non si è trattato di una decisione meditata. In realtà ho sempre pensato che scrivere un romanzo fosse troppo faticoso. Oltretutto un buon romanzo necessita di una lunga gestazione. Personalmente mi è più congeniale l’immediatezza e la velocità di esecuzione insita nelle arti visive, che trovo ideali per veicolare un messaggio o per dar sfogo alla mia tensione creativa. Non per niente fin da piccolo ho deciso di fare da grande il pittore.
L’idea di scrivere è nata di punto in bianco, in un momento in cui mi sono ritrovato a pensare che nella vita ho avuto la fortuna di conoscere tante persone la cui storia merita di essere raccontata. L’ottimismo necessario è ispirato a queste storie, talvolta eccezionali, più spesso semplici, ma tutte comunque percorse da un’energia positiva di fondo, coraggio, speranza, ottimismo, capacità di redenzione... soprattutto anelito di ricerca volto a dare un senso alla propria esistenza.
Non so se ci sono riuscito appieno, ma ho voluto condensare tutto in un’unica storia che terminasse per essere un inno alla vita: la vita è un mistero, paurosa, ma ipnotica e inebriante come tutti i misteri.
Un mistero è fatto per essere svelato.
Tra emergenza climatica, pandemie, guerre, sembra che le impostazioni di vita del genere umano stiano collassando a partire dai loro stessi presupposti: credi che, al di là del titolo dato al romanzo, l’ottimismo sia davvero necessario?
Se dovessi risponderti dando spazio alla mia metà scientifica, di ricercatore e naturalista, ti direi che la specie umana è probabilmente a un bivio evolutivo: indipendentemente dall’essere ottimisti o meno, sarà la Natura stessa a confezionare l’esito finale.
In realtà, però, quando si parla di certi temi, trovo più rassicurante dare spazio alla mia indole di artista, più immaginifica e possibilista: sì, certamente, l’ottimismo è un presupposto necessario per mantenere intatta una prospettiva di cambiamento. È buona benzina per chi desidera darsi da fare per un mondo migliore.
Si può cambiare, è urgente. Direi improrogabile. Oltretutto, mai come oggi l’essere umano dispone degli strumenti per poter cambiare in meglio il proprio futuro. Altrimenti tanto vale buttarci a mare. Beninteso, non da un ponte, ma, potendo permetterselo, con un bel tuffo dalla spiaggia, magari inseguendo un pallone. Sperando che a galleggiare non ci sia troppa plastica che disturbi la nuotata.
Qual è la cosa che più ti dà fastidio al mondo?
L’individualismo, in tutti i suoi aspetti. E non per banali motivazioni moralistiche. Semplicemente perché, ricollegandomi alla domanda precedente, credo che l’individualismo sia attualmente il peggior male della società contemporanea. In epoche precedenti alla nostra poteva avere un senso, anche evolutivo. Ma oggi lo vedo solo come un retaggio primitivo, il maggiore ostacolo per lo sviluppo di una coscienza collettiva, consapevole e solidale, presupposto per un futuro migliore, nostro e dei nostri figli.
E quella che apprezzi di più?
In una persona? Certamente la semplicità. Poi amo e stimo le persone capaci di essere solidali con gli altri.
Quale dei personaggi di L’ottimismo necessario ami maggiormente e perché?
Di certo Carmen, la madre adottiva di Tomás. La ragione è molto semplice: il personaggio s’ispira a una persona alla quale sono molto affezionato, la Dolores Norma della dedica. Lei, un po’ in serio e un po’ per gioco, dice di essere la mia mamma argentina. Si tratta di una donna che stimo moltissimo e che nella vita è stata tanto avventuriera quanto la protagonista del libro. L’ottimismo necessario è nato da lì. Ma, a essere sincero, per una ragione o per l’altra, ho amato dare forma a tutti i personaggi femminili della storia, nessuno escluso. È un dato di fatto che il mio romanzo ha nelle donne le sue protagoniste.
Come definiresti il coraggio, tratto caratteriale che spesso emerge nei protagonisti del romanzo?
La disposizione a portare avanti con coerenza le proprie idee, ma anche a metterle in discussione, se necessario.
Che cosa vuol dire, secondo te, avere successo come scrittore?
Quella del successo come scrittore è una porta che non ho ancora aperto. Rimandiamo alla prossima intervista?
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