Ho di Daniele Del Giudice un ricordo lontano, ma essenziale e nitido. Nel 1994 venne a Verona a presentare Staccando l’ombra da terra, il suo ultimo romanzo. Il giorno prima “La Cronaca”, il quotidiano per cui collaboravo, aveva pubblicato una mia recensione e, con mia grande emozione, lui volle conoscermi.
Mi chiamò in redazione la signora Padovese, della libreria Einaudi, e ci incontrammo lì, una mezz'ora prima della presentazione in Letteraria. Una delle esperienze più belle di quella mia avventura nel giornalismo.
Su un vecchio floppy ho ritrovato l'intervista che ne uscì e che il giornale pubblicò a tamburo battente. Ve la ripropongo.
Staccando l'ombra da terra
Intervista a Daniele Del Giudice per “La Cronaca di Verona e della Provincia” - Verona, 1994
L’ombra, l’aereo, l’aviatore. Come dire: la scrittura, la parola, l’autore. Anche qui, luci ed ombre. Suggestioni che galleggiano sull’orlo di un territorio abissale e che improvvisamente risalgono in superficie e si fanno lingua, precisione definitoria, narrazione. Che prendono la forma del libro. Volumi come quelli che tappezzano le pareti della libreria Einaudi, in via Fama, dove c’è spazio per una conversazione con Daniele Del Giudice, autore di Staccando l’ombra da terra.
Poco più di mezz’ora prima dell’incontro in Letteraria, organizzato dalla stessa libreria Einaudi, durante il quale l’autore presenterà il proprio libro conversando con Mario Allegri.
L’idea è quella di parlare del mestiere di scrittore (idea che poi, come spesso accade, lascerà spazio ad altro). Come nasce un romanzo, cosa spinge, cosa trattiene dalla scrittura. E poi, la lettura.
C’è un rapporto fra lo scrivere e il leggere?
Direi di sì. Almeno per me è stato così. Il primo libro che ho letto mi ha convinto che dovevo scrivere.
Quale è stato?
Be’ – si schermisce – non vorrei fare la figura dell’intellettuale schizzinoso, che fin da bambino si macerava sui monumenti della letteratura mondiale. No, si trattava di un libro di avventure. Non ne ricordo il nome, anche se me ne è rimasta una vivissima impressione. Un romanzo di guerra sul mare, un banale, stupidissimo romanzo di guerra; ma con un sentimento, una tensione morale... il destino, l’avventura...
Sentii che non avrei più potuto fare a meno di vivere in quel mondo.
E così scrisse. Cosa ne uscì?
Ovviamente, un breve romanzo di mare, finito poi chissà dove, fra la carta straccia, durante un trasloco. E la stessa sorte – ma quella volta mi dispiacque – è toccata alla mia seconda fatica letteraria. Il professore di religione doveva interrogarmi, al liceo. Per evitarlo, preparai uno studio di un centinaio di pagine sui manoscritti del Mar Morto. Allora si stavano ancora srotolando, al Pontificio istituto biblico, e fu un lavoro interessante. Un saggio sui rapporti fra il “maestro di giustizia”, il capo degli esseni, e la figura di Cristo. L’insegnante ne fu così entusiasta, che mi fece ricevere da papa Montini. Si figuri: io, un laico... per dire della casualità della scrittura. E della vita.
Come nel suo romanzo, dove le sorti di Faggioni e di Graziani – l’uno che sceglie gli alleati, dopo l’8 settembre, l’altro la Repubblica sociale – si dividono per una scelta improvvisa, quasi immotivata dal punto di vista razionale. Eppure, alla fine, dal caso nasce la necessità…
Vuole sapere come è nato Staccando l’ombra da terra? Stavo scrivendo un altro libro, tre anni fa, quando conobbi Federico Fellini. Non una grande amicizia... ci vedevamo tre, quattro volte l’anno. Andai a trovarlo, era luglio, a Roma. Faceva caldo, lui era depresso, per via di un film che non riusciva a farsi finanziare. Mi chiede: «Voli sempre?».
Gli risposi di sì.
«E com’è?»
E così cominciai a raccontargli storie di volo. Lui, sempre più interessato, attratto, uscì così di malinconia. Alla fine, preso dall’entusiasmo, mi disse: «Qualunque cosa tu stia scrivendo, lascia e scrivi quest’altra...».
Obbedii.
Casualità dello scrivere... Equivale a leggerezza?
No, la scrittura deve essere forte, trasmettere un’energia, prendere completamente.
Personalmente, non riesco mai a lasciare incompiuto un testo iniziato.
Lo scrivere ti obbliga a una sua verità.
Una scrittura vera?
Nel senso che in un libro ci deve essere qualcosa... due, tre pagine almeno in cui sia percepibile la necessità di ciò che è scritto. Il fatto che per l’autore era indispensabile dire quello che ha detto.
Lei, per l’Einaudi, legge anche dei manoscritti. Usa lo stesso criterio di valutazione?
Intanto una cosa: non sono io all’Einaudi il responsabile editoriale. Questo ruolo è di Mauro Bersani, che poi ogni tanto mi manda, sì, dei testi da valutare. Il metro di giudizio comunque è sempre lo stesso: un criterio di verità, che è qualcosa di molto diverso dal semplice criterio di qualità.
La qualità si può anche costruire. La maggior parte dei libri pubblicati è di qualità, nel senso che sono scritti mediamente bene, sciolti, senza intoppi. Ma questo si ottiene anche grazie al lavoro degli editor... una moda americana che non condivido.
Per me un autore deve essere responsabile del proprio testo fino all’ultima virgola...
Può essere, per paradosso, che un libro sia vero senza essere bello?
Prendiamo un romanzo di Svevo. Che so: La coscienza di Zeno. Tanti hanno detto che è scritto male. Può darsi. Però proviamo a smontare certi giri di frase e a rimetterli insieme in forma più ortodossa, canonica: non dicono più niente. La verità si perde. Perché essa è come un’energia, una forza che può appartenere a uno scrittore, ma che non è un’arte, un’abilità; non è creata da lui. Gli antichi la chiamavano mania, l’entusiasmo che viene da un Dio.
Fuori di metafora, la verità di un libro è la stessa della realtà che vi è dentro. Non siamo noi che la formiamo, o che la troviamo, è essa stessa che ci si dà. Non è il linguaggio che va alle cose, ma, viceversa, sono le cose vengono al linguaggio, nella zona d’ombra fra il mistero e la parola.
Di nuovo, l’ombra. L’immagine scura. La scrittura come un affiorare di mondi. Un aprirsi di gorghi, un dilatarsi e farsi contenitore di significati, di impulsi. In mezzo, un mondo tecnicizzato. Cose e uomini che confondono i loro destini. L’uomo che si fa macchina; la macchina, uomo.
La metamorfosi pilota-aereo di cui parla appunto Staccando l’ombra da terra.
Anche D’Annunzio, in Alcyone, in Forse che sì, forse che no, parla di una metamorfosi, prima tra l’uomo e la bestia, poi con la macchina. Proprio con l’aereo, anzi:
Di nuovo egli sentì che le sue vertebre armavano tutto il congegno del velivolo e che l’ossatura delle ali, simile all’omero tubulare dell’uccello, era penetrata dall’aria stessa dei suoi polmoni... Gli si creò nei sensi l’illusione di essere non un uomo in una macchina, ma un sol corpo e un solo equilibrio.
Un solo corpo... Ma Staccando l’ombra da terra non ha nulla di dannunziano.
Niente. Mancava in D’Annunzio la cultura della tecnica. Egli parlava di un aereo come di un animale mitico. Esaltava la ferinità, e in questo modo il suo io. Un io arcaico, premoderno, privo in definitiva di complessità.
Un io che scompare nel suo libro. Rinuncia a esercitare la sua prepotenza. Restano invece le cose, le macchine. Il linguaggio universale che unisce uomini e cosmo, la luce che cercavano il letterato Epstein e lo scienziato Brahe in Atlante occidentale. Anche lì, il volo. Ombre. Aerei. A proposito. E l’aereo: quale è il migliore?
Il monoposto ad ala bassa. Meno stabile di quello ad ala alta, ma più maneggevole; anche se per vedere bene occorre manovrare.
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