martedì 14 settembre 2021

Su Milan Nápravník, di Ladislav Fanta

All’inizio ebbi l’impressione di trovarmi alla presenza di un ricercatore di storia della stregoneria e della magia. Salite le scale che portavano allo studio di Milan, scorsi davanti a me un tavolo con una pila di libri, voluminosi tomi del xix secolo, che documentavano le pratiche dell’Inquisizione, e immagini xilografiche di strumenti di tortura. Mentre li sfogliavo, l’attento padrone di casa serviva caffè e pasticcini tradizionali di Colonia.

Le conversazioni che tenemmo sui libri in questione rivelarono l’importanza che lui attribuiva all’argomento. Sicuramente maggiore di quanto fossi stato allora capace di comprendere. Devo ora ammettere che la reliquia del soffocante fanatismo medievale, di cui siamo attualmente testimoni, lui l’aveva prevista grazie a una conoscenza approfondita delle cose, che sottintendeva molti anni di studio della storia religiosa. («[...] I surrealisti credono che tutto sia già stato scritto e che sia solo necessario rifiutare l’ideologia religiosa. Sì, è stato scritto, ma quei libri nessuno li legge.»)

Fin dagli anni liceali, si era interessato al surrealismo. Su cosa si basava questa sua propensione? Così ricordava: 

Sul fondamento personale. Ebbi un rapporto personale positivo con gli ideali di rivolta proclamati da Breton molto prima che mi arrivassero tra le mani i primi testi surrealisti. E la volontà del misterioso, del miracoloso e dell’infatuazione era quasi innata in me. Quando poi, alla fine degli anni ‘40, lessi i Manifesti di Breton, I vasi comunicanti e Nadja provai soddisfazione per miei sogni solitari. Breton parlava la mia stessa lingua. Trovai in lui un alleato spirituale.

Sosteneva che la gente ha già abbastanza problemi non fittizi per essere convinta dell’importanza della letteratura, che racconta loro storie di vita di gente fittizia. Questi personaggi di fantasia, confidano loro, in quanto lettori, una certa saggezza della vita, che non solo li annoia, ma soprattutto li delude. «La letteratura americana tratta la lingua come merce. La letteratura scadente costruita sul realismo è qualcosa come il sedimento del caffè bollito.» È vero che passando in rassegna i libri del suo atelier ve ne trovai alcuni di letteratura narrativa ma, tra quelli che lo avevano attratto come lettore tanto da spingerlo a serbarli sui suoi scaffali, le eccezioni erano rappresentate dalle opere di Rabelais, Lautreámont, del Marchese de Sade, di Quincey, Nerval, Huysmans, e poi testi ispirati al sogno, come i romanzi neri di autori irlandesi e anglosassoni come Blackwood e Lovecraft, l’opera di E.A. Poe, e, naturalmente, le parabole romanzate di Franz Kafka.

Possedeva una vasta collezione di letteratura occulta, di cui non parlava, ma che senza dubbio aveva studiato intensamente nel corso degli anni: Papus, Paracelso, Georg Conrad Horst, Eliphas Lévi, Aleister Crowley, Agrippas von Nettesheim... I grimori medievali per lui erano, come disse una volta, l’equivalente della poesia moderna: 

Il segreto è in sé poesia. C’è ancora qualcosa da scoprire nel misterioso, non così nell’ovvio. Il cammino della poesia è il cammino lungo il margine sinistro, che era quello seguito dalle streghe nel Medioevo. Furono le donne a ribellarsi all’ideologia del loro tempo. Non dimentichiamo che André Breton ha un’idea della poesia come uno strumento per produrre incantesimi. La vera poesia origina da forze psicomagiche.

Lui stesso autore di vetrine pensili, ammirava gli assemblaggi surrealisti e gli oggetti delle “streghe moderne”, donne come Angelica Julner, Karina Raeck o Mimi Parent. Si interessò a vari sistemi di magia durante gli anni Settanta. Nei vari continenti che visitò, in Asia, in Africa, così come presso le popolazioni native del Sud America, trovò che l’identificazione con gli alberi, gli animali, le piante, tutto ciò che ci circonda e di cui facciamo parte è una componente indiscutibile dell’iniziazione magica, e gli mostrò il rovescio della medaglia della comprensione ebraico-ellenistica del mondo, l’antipodo di tutto ciò che all’essere umano è imposto come interpretazione dei valori della vita, ma che in realtà è fondamentalmente ostile tanto alla vita quanto alle capacità creative dell’individuo. Nel saggio L’altra riva (Druhý břeh) scrive: 

Più conosciamo il meccanismo del potere, le cui radici psicologiche erano già state descritte da Freud, più cerchiamo i nostri alleati non nelle persone e nelle classi, ma attraverso l’identificazione con l’intera natura, in tutto lo psico-biotopo della materia vivente. 

Non sorprende, quindi, che considerasse la sua opera soltanto come radici e rami di un albero in crescita: l’albero della conoscenza del mondo e della visione della realtà. Il limite della sua sfera più intima è difficilmente identificabile senza questa menzione. 

Dolore e gioia, questi sentimenti fondamentali della vita non conoscono sviluppo: si ha paura e si può essere felici come una canna [...] oggi come migliaia di anni fa. Tutti gli organismi viventi hanno in sé questi sentimenti e relazioni con il mondo e con se stessi in misura ragionevole, fin dall’origine delle prime forme di vita.

Durante l’esilio, iniziò un’altra fase, significativamente nuova, delle sue attività. Durante i primi anni trascorsi in Germania, il suo energico interesse si concentrò sempre più sulla sfera artistica, poiché, in quelle circostanze, gli sembrò più adatta della parola scritta. Anche se in gioventù aveva già intrapreso diversi tentativi pittorici, pur sporadicamente, per sua stessa ammissione allora non sentiva ancora una piena fiducia nelle sue capacità. L’impulso all’attività artistica, che si sviluppa come risultato di questo ritiro temporaneo dal lirismo, dapprima come un esperimento casuale, come una fuga momentanea dalla necessità, alla fine si trasforma in un’opera coerente. È solo dopo il 1970, dopo i quarant’anni, che comincia a dedicarsi sistematicamente alla pittura e alla scultura, ossia quando si risvegliarono i suoi talenti e le tendenze fino ad allora sopite.

Come scultore, ammirava le opere degli scultori africani del gruppo etnico Makonde, che vivono nella regione di confine tra Tanzania e Mozambico. 

Dobbiamo piuttosto cercare di fare quello che ci siamo prefissati di fare con quello che abbiamo a portata di mano. Chiunque abbia visto gli strumenti con cui i maghi neri makonde creano le loro affascinanti sculture acquisterà coraggio a tal proposito. L’inconscio è un abile artigiano.

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Rivivo nella mia mente lo studio di Milan con la sua atmosfera inconfondibile. La spaziosa stanza di 70 metri quadri si trovava al primo piano di un vecchio edificio in mattoni. Era una delle cinque unità residenziali della cosiddetta “casa studio” (Atelierhaus), destinata negli anni ’60 dalla città di Colonia agli artisti freelance. L’Atelierhaus era stato convertito da una piccola scuola nell’ex villaggio di pescatori di Niehl, oggigiorno parte di Colonia sul Reno.

Vi si trasferì nel 1976, abitandola per più di quarant’anni. Da allora, si svilupperanno numerose amicizie e collaborazioni: poeti e pittori che lavoravano in una sorta di comunità, per i quali un riferimento al surrealismo era spesso necessario. Senza pretendere di stilare una lista prioritaria di nomi noti, possiamo almeno menzionare la lunga amicizia con Heribert Becker, pubblicista tedesco, grande esperto di storia del surrealismo, editore e traduttore dal francese, ma anche fedele complice nei suoi viaggi presso i surrealisti parigini.

Quell’abitazione tranquilla aveva la fragranza delle essenze pittoriche, il respiro della cantina gelida e dei cartoni giganti poggiati alle alte pareti. Si saliva per una vecchia scala di legno fatiscente con la vernice grigia scrostata. All’interno prevaleva il chiaroscuro. Solo al piano rialzato una finestrella lasciava filtrare un po’ della polverosa luce solare. Ricordo un oggetto misterioso situato accanto alla porta dell’atelier. Non erano coralli, piuttosto polipi spugnosi, spiaggiati chissà dove sulle coste corsiche, come il cuore pietrificato del Mediterraneo.

Dall’ingresso principale si dipartiva un corridoio che conduceva all’altro lato dell’edificio, dove si entrava in un’area di sorprendente tranquillità. L’ampio cortile, circondato da una parete di specie arboree selvatiche, che lui sosteneva avessero la stessa età del suo soggiorno nella casa. Un’isola meravigliosa, situata lontana dal trambusto del mondo esterno. In questa oasi accogliente, dove il tempo passava più lentamente del solito, era possibile sedersi a conversare d’estate sotto le corone degli alberi, i cui rami fornivano una fresca ombreggiatura. Qui, nel retro dell’edificio, aveva allestito il suo laboratorio fotografico. Una camera oscura o una cucina alchemica in cui, per usare le sue parole, «passava il tempo evocando demoni animistici dalle catacombe dell’inconscio». Spesso rimaneva chino sulle immagini mutevoli di sviluppatori e fissatori anche per dieci o più ore al giorno, finché riusciva a mantenere il corpo eretto.

Guardando gli inversaggi di Milan, ho sempre avuto l’impressione di trovarmi nella foresta oscura delle fiabe dei fratelli Grimm. Ogni albero qui era qualcuno, con la sua fisionomia particolare, il suo destino, come il trio di salici orribilmente e beffardamente ricurvi, che inevitabilmente mi associavano la trama del racconto di BlackwoodI salici (The Willows). Milan aveva scelto titoli molto caratteristici per le scene enigmatiche delle sue fotografie: La maschera del legno morto, L’ingresso alla madre nera può essere superato solo una volta e per sempre..., Apparteniamo alle ombre degli alberi morti, Mi decompongo diventando il vostro destino, oscurandomi divento la vostra conoscenza..., Il cane che custodisce i miei pensieri ha una testa minuscola..., etc.

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Scaffali neri a doppia faccia, librerie lunghe sette metri che arrivavano fino al soffitto dimezzavano l’area dello studio in due parti uguali: il soggiorno e l’atelier. Le pareti e il pavimento erano coperti da decine di sculture esotiche, ricordi dei viaggi in Asia e nel continente africano, da tele sia esposte sia ancora coperte, da amuleti magici, sfere di cristallo, oltre oggetti di uso quotidiano ordinati con cura e sistematicità. Questa composizione unica di cose di vario genere e provenienza completava lo sfondo rigoroso, geometricamente equilibrato, caratterizzato da una semplice funzionalità.


Era un perfezionista versatile, preciso sia nella pittura sia nella scultura, così come in molti campi dell’attività tecnica. Tutto ciò che creava nelle umili condizioni del suo laboratorio improvvisato, sotto il suo tocco assumeva immediatamente un’impronta professionale. Era un pignolo coscienzioso, a volte fino all’accanimento, con uno straordinario senso dell’ordine e della sistematicità.

 A poco a poco, ho scoperto le qualità caratteriali di Milan, che comprendevano tra le altre la gentilezza empatica e una sincera preoccupazione per l’altro, nascosto sotto un’apparente riservatezza. Con il suo approccio esigente, la sua cultura della parola, la sua vasta erudizione, le sue capacità creative e l’enfasi sui veri valori della vita, forniva l’esempio di creatore anticonformista. Era un osservatore scettico e sempre perfettamente informato sugli eventi politici, non solo per quel che riguardava la situazione tedesca. I suoi seri dubbi sugli sviluppi futuri, soprattutto nel continente europeo e americano, sembra che negli ultimi anni gli stiano dando pienamente ragione.

Nel 2007, quando gli feci visita per la prima volta, aveva 76 anni. Già allora affermava di vivere principalmente su un piano interiore. Il periodo successivo fu segnato da incipienti problemi di salute. Dopo l’intervento alla cataratta, prese a soffrire di disturbi alla vista e di diabete, a cui si andò ad aggiungere una forte stanchezza associata alla sua mobilità ormai insicura nel caso fosse stato costretto a percorrere un tragitto più lungo a piedi. Iniziavano anche lentamente a farsi sentire gli effetti dei precedenti farmaci oppiacei, che aveva dovuto assumere a causa del dolore cronico alla schiena. La diagnosi del morbo di Parkinson, poi, fu accompagnata dal tremore essenziale come sfortunato effetto collaterale del trattamento. Bisogna dire che accettò tutte le restrizioni forzate con una visione stoica. Mi confidò in una lettera: 

Non sto bene. La mano destra è quasi incapace di scrivere due righe senza errori e refusi, e i miei occhiali da lavoro non mi permettono più di vedere chiaramente quello che ho scritto. Inoltre, sono afflitto da dolori cronici, che mi limitano o mi alleviano le condizioni somatiche. Seguo tutto questo con il cervello, che è in balia del Parkinson, ma che sembra funzionare ancora abbastanza bene. Nelle ore di afflussi e riflussi del sonno, arrivo persino a idee e soluzioni che per tutta la vita ho cercato senza trovare. Ora è troppo tardi. 

E in una lettera al suo medico, il dottor Galas, come una barca di carta nell’oceano della speranza, scrive un anno prima della sua dipartita: 

Sono consapevole che il mio io umano, transitorio, non può vincere la corsa con l’eternità. Madame L’Esperence, alle mie spalle, tuttavia, si china sul mio orecchio sussurrandomi che posso comunque provare a prolungarla almeno un po’. Dato che ho due libri quasi pronti, avrei bisogno almeno del tempo necessario per completarli. Il suo fedele paziente sapiens sapiens.

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Milan Nápravník arrivò alla convinzione che, oltre alla perdita del desiderio e della speranza, nel mondo di oggi rimane ancora meno tempo necessario per trovare vie d’uscita dai vicoli ciechi. Consapevole che le idee revivalistiche si perdono troppo facilmente nelle inospitali dune del deserto, suggerisce che il loro prossimo percorso può essere nascosto e quindi richiede un coraggio innovativo da parte dei seguaci: 

La nostra ragione si è sviluppata dall’evoluzione dell’esclusione dualistica. Spesso pretende sia possibile scegliere soltanto tra A e B, bianco e nero, rosso e verde, o blu e giallo. L’unico modo per uscire da questa trappola è scegliere un colore che sia imprevedibile in questo schema.

Da sempre profondo lettore degli scritti di Karl Marx, con scelte a volte talmente sorprendenti come le sedute occulte[1] e lo studio di scritti gnostici dimenticati, lo si dovrebbe prendere sul serio quando afferma: «Il vero sviluppo si realizza solo nelle teste, a livello di conoscenza, non di esistenza». O quando, in un’altra circostanza, sottolinea: «La metamorfosi della coscienza non può essere né modellata né simulata, deve accadere realmente. E qui siamo già pienamente nel regno della magia».

Credeva che lo spirito umano includesse il bisogno di mistero, poesia, del miracoloso, anche se esteriormente la sua vita era grigia e quotidiana. Questo bisogno, che spesso ignoriamo nella vita di tutti i giorni, secondo lui, dovrebbe portare all’utopia di un uomo la cui libertà è nel piacere e non nella necessità conosciuta. Verso le fonti della vita; verso il piacere originario e libidinoso della creazione. L’autentica magia naturale della vita e dell’esistenza della materia, che si manifesta nel desiderio naturale dell’uomo di un incontro miracoloso con la realtà.

Ladislav Fanta
Gennaio 2021



[1] Le sequenze di natura autobiografica, che indicano gli esperimenti occulti dell’autore o addirittura l’interesse per la demonologia pratica, possono in qualche modo essere integrate da Heribert Becker, che in un breve ricordo affermava: «Milan aveva nella sua biblioteca molti libri di magia, parapsicologia, stregoneria, ecc. All’epoca mi sembrava che non fosse solo un divertimento, ma un lavoro molto serio. Come tutti i surrealisti, si trattava semplicemente di esplorare la (potenziale) realtà della materia dietro la nostra concezione tradizionale del mondo. Allo stesso tempo, era affascinato soprattutto dall’Africa, che per lui era la culla dell’umanità (Breton e altri surrealisti erano più interessati all’arte oceanica e nativa americana). Ricordo vagamente che mi raccontò, nel 1976/1977, degli esperimenti che faceva nel suo atelier. Sembra fosse riuscito ad evocare delle fiammelle sul pavimento, ma faceva anche molte altre cose similmente ‘surreali’. Io stesso ero piuttosto scettico». 

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