martedì 14 settembre 2021

Antonio Parente: la traduzione di “Deserte visioni”

 


Abbiamo intervistato Antonio Parente, traduttore del romanzo Deserte visioni di Milan Nápravník, per soddisfare alcune curiosità sorte sia da parte dei lettori sia dalla redazione di Vocifuoriscena.
Deserte visioni, infatti, è un romanzo che non segue una logica: i periodi non sono tra loro interconnessi e ciascuno di essi costituisce un universo a sé stante, ogni frase un’immagine criptica da decifrare. Non è lettura, è pittura surrealista.
Ora, solitamente un traduttore legge un intero paragrafo per volta, lo decifra e lo traspone nella lingua d’arrivo. In questo caso, tuttavia, ogni frase è un’immagine e ogni capitolo una successione di figure accavallate a rendere un groviglio di emozioni, percezioni, ricordi, speranze… 

La domanda sorge spontanea: Antonio, che difficoltà hai incontrato nel tradurre Deserte visioni?

All’inizio non è che abbia incontrato grandi difficoltà; il mio compito credevo fosse tradurre un testo di prosa poetica anarrativa, un tipo di scrittura con la quale avevo già avuto a che fare, per esempio, traducendo dal finlandese dei testi di Mariaana Jäntti. Erano rimaste, però, delle parti che né io né mia moglie (di madrelingua ceca) eravamo riusciti a comprendere del tutto, una trentina di frasi sufficientemente criptiche da spingermi a cercare l’aiuto di altri poeti cechi e studiosi dell’opera di Nápravník.
Visto che nemmeno loro sono stati capaci di venirne a capo, non mi è rimasto che rivolgermi allo stesso autore, il quale mi ha spiegato di non avere nessuna idea del significato delle frasi o termini in questione. Mi ha però descritto il piano emozionale su cui si trovava al momento della scrittura delle frasi incriminate. Da lì ho capito che la traduzione necessitava di un approccio abbastanza diverso da quello cui ero stato fino ad allora abituato, e ho intrapreso così una fitta corrispondenza con l’autore, anche su parti del testo che avevo reputato in precedenza non problematiche.

Antonio Parente

Hai mai avuto il dubbio di aver frainteso il testo di partenza a causa delle scelte lessicali (e di immagini) peculiari?

All’inizio sicuramente no, anche perché, avendo già tradotto centinaia di testi surrealisti, ero ben conscio di caratteristiche come la dislocazione percettiva o la casualità oggettiva, che anche quest’opera presenta. Poi, nella seconda fase del processo traduttivo, dopo aver compreso le ragioni dell’autore, è stato più difficile rendere le sue scelte, quel tipo di illusione percettiva al contrario, dove non si tratta più di una falsa interpretazione o percezione di un oggetto o di un evento (le immagini peculiari di cui parlavi), ma piuttosto del ritorno dei “nomi reali alle cose”, come direbbe la Sinervo, l’unico modo, secondo Nápravník, «per opporsi alle tendenze civilizzatrici e alla feticizzazione della proprietà e del potere».
Oltre alle nostre conversazioni, per la traduzione mi sono stati di grande aiuto i suoi scritti teorici, molti ancora inediti, dove la sua ricerca, piuttosto che su criteri estetici, è orientata all’analisi dei regni dell’inconscio, della magia, del mistero e dell’irrazionalità, sempre più racchiusi oltre i limiti della concezione comune dell’arte, in quanto «oppositori delle tendenze civilizzatrici, della feticizzazione della proprietà e del potere» come afferma sempre Nápravník. E un aiuto finale, e davvero cruciale, mi è venuto da Claudia Maschio, che ha riletto la traduzione, apportando modifiche essenziali; il suo punto di vista “esterno” mi ha aiutato molto a negoziare le soluzioni finali.

Tu sei specializzato nella traduzione di poesie. Che nesso individui tra la poesia e il surrealismo (non necessariamente quello di Milan Nápravník)?

Questo è un discorso abbastanza complesso e per me tuttora non definitivamente chiarito. Per farti un esempio, l’introduzione di František Dryje all’antologia di poesia ceca surrealista contemporanea Letenka do noci (Un biglietto di viaggio per la notte, 2003) si apre con queste parole: «La poesia surrealista non esiste!».
Anche lo stesso Nápravník, nel saggio “Le fonti della poesia”, che i lettori italiani possono trovare nel volumetto La magia del surrealismo (Mimesis 2018) sottolinea come la poesia più che al campo letterario appartenga al monde merveuilleux, e che sia soprattutto una forza ristoratrice e rigeneratrice e, continua l’autore,

se il Surrealismo, che ripete instancabilmente di non essere una corrente letteraria o artistica, fino ad ora si è dedicato con una tale intensità e tenacia proprio alla poesia, lo ha fatto principalmente perché era consapevole del danno causato dalla civiltà all’uomo a causa del suo crescente privilegiare unilateralmente la capacità razionale a scapito di quella irrazionale, poetica e magica.

Poi, bisogna sottolineare come il termine surrealismo, nei diversi Paesi, copra campi semantici a volte anche notevolmente differenti. Ne parlai anni fa in un articolo uscito sulla rivista ceca Literární noviny, dove riportavo le parole del poeta Marco Munaro, secondo cui «[...] il surrealismo italiano è stato di tipo arcadico, più per venature cromatiche oniriche e mitiche della cosiddetta corrente ermetica, che per forza autentica propria (Quasimodo, Gatto, Sinisgalli, De Libero), una forma di regressione e di resistenza, più che una contestazione radicale del mondo».
L’analisi sul surrealismo fatta dal poeta e critico letterario Roberto Bertoldo, va ancor più in profondità: «Ritengo che non ci sia mai stato un surrealismo italiano, lo stesso Breton considerava l’Italia fascista poco adatta al surrealismo...». E poi continua proponendo la distinzione tra surrealismo e surrazionalismo, anche se non nella maniera generica di Gaston Bachelard, quest’ultimo determinato «[...] non dal deragliamento della ragione né da automatismi psichici, ma da un controllo delle valenze dell’immaginazione (meglio: dell’intuizione), appunto della sua razionalità compositiva».
Pavel Řezníček, in un’intervista uscita in italiano sul Foglio clandestino, ne spiega bene lo sviluppo nella Repubblica ceca, come anche la sua peculiarità:
Dopo la seconda guerra mondiale, il surrealismo è cambiato completamente. Non è più una invocazione di utopia, rivoluzione, donna fatidica. Il surrealismo ceco di oggi, e questa è la sua originalità, è plebeo, è sceso in strada, è diventato civile. La maggior parte dei gruppi surrealisti di tutto il mondo, tuttavia, continua lungo i binari prebellici, e forse è per questo che qualcuno sostiene che il surrealismo sia già morto. Ma Vratislav Effenberger scoprì un nuovo approccio: non più esseri fantastici, misteriosi, donne fatali, ma birrai, ciabattini, macellai. Come dice Breton: la surrealtà è contenuta soprattutto nella realtà! E quindi nessuna utopia o rivoluzione, ma umorismo nero...”.

Milan Nápravník (la sola foto libera
da diritti dell'autore, scattata da Parente)

Quanto ha influito il fatto di conoscere personalmente Milan Nápravník nella trasposizione italiana di Deserte visioni? Mi riferisco, in particolare, alla scelta lessicale, presumo talvolta ambigua.

Sì, come dicevo, senza la conoscenza diretta dell’autore la traduzione sarebbe stata di sicuro diversa. Anche solo conversando con lui, durante le mie visite a Colonia, sono riuscito ad appurare cose che mi hanno poi aiutato molto nelle scelte, come per esempio questioni stilistiche; lui parlava come scriveva, e viceversa, e quindi il suo tonosimbolismo, come direbbe Bertoldo, non era qualcosa di letterario o addirittura affettato, ma piuttosto quotidiano. Inoltre, ho notato quanto fosse radicalmente immerso, come autore, nella lingua ceca, a tal punto da rifiutare di autotradursi in tedesco, sebbene lo conoscesse profondamente anche da un punto di vista letterario. Era molto puntiglioso, e nel suo lascito letterario abbiamo trovato per esempio anche cinque versioni di una stessa lettera, dove l’unica variazione era, ogni volta, la scelta di una sola parola diversa. Quindi privilegiare nella traduzione un termine piuttosto che un altro è stato il risultato di una voluta circospezione, e molto spesso ciò è avvenuto per suggerimento dello stesso autore, che optava per una soluzione che gli proponevo piuttosto che per un’altra a seconda del suono, del numero di sillabe o delle immagini che richiamava alla mente una determinata parola o frase.  

Quale importanza ha, per te, la fedeltà al testo di base?

Generalmente, il mio rapporto con il concetto di “fedeltà” è abbastanza complicato. Per farti proprio l’esempio di Deserte visioni, credo che questa sia la mia traduzione più, e allo stesso tempo meno, “fedele” di un testo, per le ragioni che ho spiegato in precedenza.
Ho iniziato a tradurre alla fine degli anni Ottanta e, durante questo arco di tempo, la mia posizione è cambiata, come ci si aspetterebbe, ed è stato un continuo andirivieni o alternarsi di approcci traduttivi; credo sia un processo infinito e in continua evoluzione nella carriera di molti traduttori. Dal mio punto di vista, ho soltanto evitato volutamente di occupare le posizioni estreme (completa libertà o completa fedeltà al testo, qualunque cosa significhino). Il concetto di fedeltà al testo, secondo me, ha meno a che fare con il prodotto finale e molto più con il processo, la raccolta di ogni informazione che può aiutare nella scelta traduttiva, il tentativo di aver chiaro ogni minimo dettaglio del testo sorgente prima di volgerlo in italiano, anche se, di solito, la stragrande maggioranza delle informazioni raccolte non serve a nulla, per quanto riguarda la traduzione, intendo.

Visto che lo hai conosciuto, potresti raccontarci qualcosa su chi era Milan Nápravník?

Da un punto di vista artistico, credo sia stato un “eterno dilettante”, anche nella sua atipicità e acribia. Durante la mia prima visita al suo atelier mi mostrò un bellissimo dipinto e mi spiegò cosa ancora mancasse (due fiammelle, se non ricordo male); gli chiesi quando l’avrebbe completato, e lui mi spiegò che non era interessato al prodotto finale, ma all’idea. Una volta avutala, per lui era già tempo di passare ad altro. Per la scrittura, credo che il suo approccio fosse un po’ diverso. La ricerca della parola “perfetta” per esprimere un determinato concetto non era la voglia di compiere una scelta lessicale migliore, ma piuttosto l’unica possibile, come mi rivelò in una lettera. Aveva una vasta erudizione, una cultura che era iniziata a formarsi fin da piccolo (a sette anni, se non ricordo male), grazie alla fornitissima biblioteca del nonno, presso il quale trascorse gran parte dell’infanzia.
Apparentemente riservato, era non solo capace, ma soprattutto interessato a conoscere la persona con la quale interloquiva, chiunque fosse; quando andai a fargli visita con mia figlia, parlò con lei la maggior parte del tempo, iniziando poi una fitta corrispondenza, inviandole favole che scriveva per lei, e che avevano per protagonisti figure e personaggi che mia figlia gli aveva comunicato di gradire durante la nostra visita. Era anche un uomo di forti principi; rifiutò il riconoscimento (anche finanziario) alla carriera offertogli dal Ministero della Cultura ceco, in quanto contrario ai suoi principi surrealisti; come anche le cure di un’istituzione ospedaliera di Colonia, secondo lui, agnostico, di orientamento eccessivamente cattolico. 

Mi incuriosisce il motivo per cui Milan Nápravník tenesse così a cuore che tu traducessi il suo romanzo in italiano: dovuto alla volontà di far conoscere il surrealismo ceco all’Italia oppure di tramandare le proprie memorie, riflessioni e personalità?

Credo che l’interesse per l’Italia fosse per via della sua ascendenza, come scrive nel capitolo 85 di Deserte visioni:

La sua bisnonna, di nome Angela Garbato, per amore aveva commesso un furto audace ed espressamente magnifico, ed era fuggita nella notte oscura da una Verona ben riscaldata insieme con l’amato ufficiale austriaco e un fagotto con i gioielli di famiglia, per poi vivere la fine dei suoi giorni dissennati in una cittadina ceca stupida e piovosa come la giocosa, dolce ma freddolosa vedova di un bettoliere ubriaco.

Poi, anche perché i suoi scritti teorici erano stati soprattutto critici, e quindi avevano lasciato cadaveri un po’ dappertutto (Francia, Germania, Repubblica ceca), e un conseguente astio nei suoi confronti, mentre in Italia era stato pubblicato già negli anni Ottanta, nella rivista Il terzo occhio, e non aveva avuto nessuno scontro, forse proprio per la (supposta?) mancanza di un vero e proprio surrealismo italiano, di cui si parlava in precedenza, anche se Arturo Schwarz sembrava pensarla diversamente, come mi scrisse in una lettera.

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